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Bergamo Jazz Festival 2017

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Bergamo Jazz Festival
Bergamo, varie sedi
19-26.03.2017

Il Bergamo Jazz Festival, che nel 2018 doppierà la boa della quarantesima edizione, per il secondo anno consecutivo è stato diretto da Dave Douglas, il quale ha imbastito un programma decisamente vario, coinvolgendo un numero sempre maggiore di sedi nella Città Alta e nella Città Bassa. Per molti concerti le scelte sono cadute su certezze assolute, su classici del jazz attuale; appunto loro hanno fornito le prove più esaltanti. Non sono forse da considerare ormai classici alcuni protagonisti americani ed europei, formatisi in decenni ormai lontani, come Evan Parker e William Parker, Bill Frisell, Ernst Reijseger? A ben vedere, cambiando ancora cultura e latitudine, non è un maestro dell'attuale improvvisazione anche il norvegese Christian Wallumrod? Nel ventaglio di offerte non sono poi mancate le proposte insolite (il Marilyn Mazur's Shamania, Regina Carter...) o i nomi emergenti (Melissa Aldana, Rudy Royston...), ma i concerti più memorabili non sono certo venuti da loro. L'affluenza del pubblico e la sua risposta alle varie proposte sono state comunque sempre entusiastiche.

Il trio OriOn del batterista texano Rudy Royston, trasferitosi a New York nel 2006, ha rivelato compattezza e dinamismo, rimanendo tuttavia in sospeso fra un'immagine del jazz più risaputa e rassicurante e la ricerca di una più problematica e consistente attualità. Sospinti dal drumming ribollente del leader, hanno fornito il loro contributo i due partner: il contrabbassista Yasushi Nakamura, dal drive costante e fiorito, e il sassofonista Jon Irabagon il cui fraseggio possibilista e spericolato era accompagnato da un sound ora limpido, di leggiadra inconsistenza, ora grufolante e puntuto. Al Teatro Sociale, in questo concerto inaugurale delle quattro giornate clou, Irabagon ha involontariamente dato il via a un immaginario contest con un altro sassofonista oggi sulla cresta dell'onda: James Brandon Lewis, presente due sere dopo al Teatro Donizetti nell'Organ Quartet di William Parker.

L'apparizione di questo gruppo ha costituito la vetta del festival, dipanando un percorso danzante, panico nella sua circolare saturazione. I temi e il pizzicato poderoso, ossessivamente "africano" del leader hanno costruito l'ossatura essenziale su cui si sono sovrapposti gli interventi dei collaboratori in un rapporto di fitta improvvisazione collettiva. All'uso quasi esclusivamente free dell'organo elettrico da parte di Cooper Moore (a tratti sembrava di riascoltare Sun Ra) ha fatto riscontro il vibrato lirico e scintillante del tenore di Lewis, una sorta di attualizzazione volatile, per forza di cose meno rivoluzionaria e drammatica dei modelli di Ayler e Sanders. Dal canto suo il drumming di Hamid Drake si stagliava imperioso e prorompente.

Rispetto alla densa autenticità del messaggio del quartetto di Parker, la rigenerazione della matrice nero- americana da parte del quartetto di Regina Carter, seguendo il filo rosso della carriera di Ella Fitzgerald nel centenario della nascita, è parsa ben più debole in quanto edulcorata, formale e nostalgica, senza un'efficace visione rigenerante. Conseguente è risultato l'uso dei rispettivi strumenti: il tocco morbido di Reggie Washington al contrabbasso, il ricorso al bottleneck e a uno swing denervato da parte del chitarrista Marvin Sewell, la misura del batterista Alvester Garnett, salvo scatenarsi nella classicissima effervescenza dell'assolo finale, e ovviamente gli abbellimenti, il blues feeling, i languidi glissando del violino della leader.

Ancora protagonisti del jazz americano con il duo Bill Frisell -Kenny Wollesen. Nella prima parte del loro concerto si sono concentrati tutto il mistero e la poesia di cui sono capaci: linee evocative e sospese si sono intrecciate come in un sogno fra immagini ricorrenti e divagazioni, includendo spunti tematici più decisi e riconoscibili. Un panorama espressivo e poetico che ha filtrato varie componenti culturali, fra cui quel country folk tanto amato da entrambi, è passato attraverso noti standard (pregevole la versione del monkiano "Misterioso"), per poi approdare a temi melodico- ritmici più pesantemente marcati.

Notevolissime sono state le solo performance di due capiscuola dell'improvvisazione europea, ospitate in prestigiosi ambienti storici, per la prima volta cooptati dal festival. In una sala della Biblioteca Angelo Mai, Evan Parker ha approfondito le sue tipiche microvariazioni in respirazione circolare, allestendo un set monolitico; l'impenetrabile fibrillazione nell'emissione del suono da parte del suo soprano ha propagato nello spazio schegge sonore acuminate e sfavillanti, con esiti incantatori. Al centro di due improvvisazioni di diversa lunghezza Parker ha incastonato un omaggio a Steve Lacy, del quale ha reinterpretato un brano.

Deliziosa la performance di Erst Reijseger presso l'Accademia Carrara, in una preziosa sala in cui il violoncellista olandese era attorniato da opere del Veronese, El Greco, Jacopo Bassano, Palma il Giovane e di tanti altri autori del Cinquecento. La sua improvvisazione ha transitato da minimalismi appena accennati a linee ampie e risonanti desunte dalla tradizione classica dello strumento, da finti esotismi ad astrusi dirottamenti armonici e timbrici. Dopo tanti anni di esperienza, il tutto non ha presentato segni di routine, ma è stato intessuto sempre di ironia, di un gusto melodico e narrativo infallibile, di un senso musicale perennemente fresco e motivato, coinvolgendo il pubblico e l'ambiente museale.

Del multiforme mondo dell'improvvisazione scandinava invece, il Christian WallumrØd Ensemble ha rappresentato il versante della lentezza meditativa, dell'evoluzione fragile, del rarefatto e intimo dialogare, senza escludere momenti di rumorismo sfrangiato. Questo contesto sonoro senza amplificazione, trattenuto e cameristico ma per nulla statico, calibrato da un quintetto particolarmente affiatato, ha sotteso un senso di sotterranea e misteriosa inquietudine piuttosto che un sereno descrittivismo con riferimento agli spazi, alle sonorità e ai silenzi della natura nordica.

Qualcosa di più che meramente singolare si è rivelato il Marilyn Mazur's Shamania, un organico di undici elementi (compresa la danzatrice) tutto scandinavo e tutto femminile, diretto dal 2015 dalla percussionista americana. La sua prima apparizione fuori dai confini scandinavi è stata caratterizzata da un'alternanza piuttosto drastica fra pieni e vuoti, fra collettivi sostenuti, ricchi di riff esotizzanti e di schermaglie percussive, e sfrangiamenti in soli e duetti un po' occasionali. Oltre alla leader, su tutte hanno svettato la sassofonista Lotte Anker, la vocalist e contraltista Sissel Vera Pettersen e la tastierista Makiko Hirabayashi.

Rimane da riferire succintamente di altri due sassofonisti, che per aspetti diversi sono rappresentanti di una certa contemporaneità jazzistica: Andy Sheppard e Melissa Aldana. Il quartetto internazionale del tenorista e sopranista inglese, già su disco per la ECM e completato da Eivind Aarset, Michel Benita e Sebastian Rochford, ha confezionato una musica perennemente soft, evanescente, confidenziale, per quanto mi riguarda soporifera.

Quanto alla giovane tenorista cilena, seguo i suoi passi dagli esordi internazionali, ma non mi pare che abbia fatto progressi miracolosi. Nel concerto in trio al Donizetti, le strutture dei suoi brani, circonvolute e compassate, d'impronta neo-cool, sono state esposte in modo discorsivo senza troppo slancio. Le deformazioni armoniche inoltre, che ora a tratti inserisce nella sua pronuncia, sono sembrate un espediente eccentrico, applicato con moderata convinzione, più che un'indispensabile esigenza espressiva.

Ben venga che a chiudere il festival sia stata chiamata un'orchestra, considerati il fermento e l'interesse che oggi nel mondo del jazz circolano attorno alle larghe formazioni, ma forse la scelta di Dave Douglas avrebbe potuto essere più coraggiosa. Si è optato invece per la collaborazione, già su disco da un paio d'anni, fra Enrico Pieranunzi e la Brussels Jazz Orchestra, che ha eseguito composizioni del pianista romano arrangiate da Bert Joris, trombettista inizialmente stentato poi decisamente efficace. Ne è risultato un mainstream aggiornato, con vaghi riferimenti a Kenny Wheeler, tonico e complesso soprattutto nei brani finali. In definitiva però mi pare che la vena poetica, inventiva e personale, di cui il repertorio e il solismo di Pieranunzi certo sono dotati, non abbia tratto un beneficio particolare appunto dagli arrangiamenti un po' soffocanti dell'orchestra.



D'altra parte non mancavano certo gli italiani al festival bergamasco, a cominciare dal Tinissima Quartet di Francesco Bearzatti, impegnato nella riproposizione del suo ultimo progetto dedicato all'universo popolare e impegnato di Woody Guthrie. Come sempre la formazione, attiva da dieci anni, si è dimostrata efficiente come una macchina da guerra, firmando un concerto carico di tensione e di professionale precisione. Personalmente la ricordo in esibizioni ancor più coinvolgenti, in cui le più raccolte condizioni ambientali favorivano un empatico contatto fisico fra musicisti e pubblico.

Un'attenzione ben maggiore da parte del sottoscritto avrebbe meritato la sezione "Scintille di jazz." Coordinata con realismo e passione da Tino Tracanna e dislocata in spazi singolari e a volte decentrati, essa era dedicata alle giovani leve dell'attuale jazz bergamasco. Posso riferire solo dell'ultimo dei sei concerti di questa serie, in cui l'ottimamente assortito sestetto di Camilla Battaglia, vocalist dal timbro terso e soprattutto compositrice audace e puntigliosa, ha dato prova di un funzionale e articolato intreccio fra la componente acustica e quella elettronica azionata dalla stessa leader.

Foto: Luciano Rossetti (Phocus Agency).

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