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Jazz&Wine Of Peace Festival 2016

Jazz&Wine Of Peace Festival 2016
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Jazz&Wine of Peace Festival 2016
Teatro Comunale di Cormons e varie sedi tra Collio e Slovenia
Cormons, Collio, Brda
23-30.10.2016

A un passo dal ventennale, il festival Jazz&Wine Of Peace di Cormons (ma ormai la rassegna è ampiamente disseminata nel territorio circostante la cittadina, con varie puntate oltreconfine) ha attestato la sua maturità presentando non solo un programma eccellente e varegato—cosa a cui la direzione artistica di Mauro Bardusco ci ha abituato—ma anche registrando una accresciuta presenza di pubblico straniero, in prevalenza austriaco, tedesco e sloveno il che ha spessso garantito il tutto esaurito. Un successo annunciato, che aveva spinto gli organizzatori del Circolo Controtempo ad ampliare di un giorno il programma principale e ad anteporre alcuni appuntamenti tutt'altro che secondari nei primi giorni della settimana.

Il festival si era infatti aperto con il Tinissima Quartet, una delle più acclamate formazioni italiane del momento, alla Villa Manin di Codroipo domenica 23 ottobre, ed era proseguito due giorni dopo al Castello di Rubbia a San Michele del Carso con il duo di Evan Parker e Zlatko Kaućić, una proposta piuttosto ardita che ha convinto il pubblico senza riserve.

La sera di mercoledì 23 è poi partito il programma più intenso, che ha visto passare sul palcoscenico della sede "istituzionale" del Teatro Comunale di Cormons le proposte più "forti" -nel senso di affermate e di richiamo -e nelle cantine del circondario (che hanno poi offerto anche saggi della loro eccellenza enologica) quelle meno affermate, ma spesso anche più originali, fresche e stimolanti.

Da questo punto di vista il festival friulano ha emblematicamente confermato l'attuale stato del jazz, mostrando una certa stanchezza da parte delle personalità più rappresentative—non per questo, però, snobbate dal pubblico -e al contempo una notevole vivacità da parte di figure di secondo piano, spesso al confine tra questa e altre musiche—sempre ammettendo che le questioni di "confine" abbiano senso, sia nella musica che in altri campi, tema sul quale proprio la terra del Collio ha molto da insegnare. Quel che il Jazz&Wine ha invece fatto vedere in modo meritoriamente originale è come sia possibile tenere assieme "star" e "minori," musica in parte (nel bene e nel male) "istituzionalizzata" e ricerca dell'innovazione, aspettative del pubblico ed esigenze di rinnovamento indispensabili sia per gli appassionati più attenti, sia per la sopravvivenza futura di una musica che ha sempre fatto del mutamento di identità la propria cifra. Qui, grazie anche all'interazione con il turismo—bellissimi i luoghi che di anno in anno si scoprono come location dei concerti—ed enologia, la convivenza dei due scenari si è rivelata non solo possibile, ma anche vincente. Nella speranza che anche altri raccolgano l'esempio.

Il primo appuntamento di richiamo era dunque con lo Jan Garbarek Group, che vedeva ospite il percussionista indiano Trilok Gurtu. Il musicista norvegese è certo lontano dalla forma che, negli anni Novanta, gli ha permesso di scrivere pagine indelebili e oggi, specie con il suo Group, pare solo vivere delle eco di quanto prodotto allora. Diversamente da altre occasioni, quando ha proposto una musica patinata e senza sorprese, quasi pop, stavolta ha frazionato set e gruppo in un imprecisato numero di assoli, raccolti in modo piuttosto approssimativo all'interno di alcune sue composizioni—in parte risalenti ad album storici come I Took up the Runes e Twelve Moons, le migliori, in parte recenti, purtroppo minimali nei temi ed eccessivamente ridondanti nelle reiterazioni. Ciò ha compromesso la coerenza del (lungo) spettacolo e ne ha un po' appesantito la fruizione, ma ha tuttavia garantito la presenza di momenti di alta qualità, in particolare quando Garbarek si è lasciato andare in assoli di grande espressività, specialmente in duo con Gurtu. Ma anche Rainer Bruninghaus ha avuto modo di mettere in mostra le sue eclettiche e virtuosistiche doti, così come il percussionista, a lungo impegnato in un pirotecnico solo tra l'etnico e il creativo. Alla fine, certo, un po' d'amaro in bocca per chi da cotanto artista si aspetterebbe giustamente di più, ma non un concerto da buttare, anzi.

Il primo degli appuntamenti "esplorativi" è stato il pomeriggio successivo a Villa Attems di Lucinigo, tra Cormons e Gorizia, dove in una splendida sala con vista sul parco si è esibito il trio di Roberto Negro, Emile Parisien e Michele Rabbia. Una formazione nata da poco, paritetica e ricca di ispirazioni provenienti da ogni genere musicale e luogo geografico, ma dalla cifra fortemente contemporanea. Negro, del resto, ha una formazione classica e cosmopolita (torinese, oggi risiede in Francia ma ha vissuto anche in Africa), Parisien una cultura jazzistica ampia e una frequentazione delle situazioni elettroacustiche, Rabbia non ha bisogno di presentazioni. In questo caso i tre hanno racchiuso in una cornice da sperimentazione classica novecentesca momenti di improvvisazione e raffinato lavoro sui suoni, ma anche passaggi più classicamente jazzistici—basti pensare che Parisien ad un certo punto suonava il suo soprano palesemente alla Sidney Bechet—sempre senza soluzione di continuità, con costanti cambi di ritmo e con invenzioni impreviste. Notevole formazione e due giovani musicisti—Negro e Parisien—da osservare con attenzione.

Solo una menzione per l'interessante duo tra Felice Clemente e Javier Perez Forte, che non abbiamo potuto seguire in quanto esaurito anche per i giornalisti, per passare poi al concerto serale al Teatro, di scena il quartetto Aziza di Dave Holland. Sulla carta fortissima, vista la presenza di musicisti come Chris Potter ai sassofoni, Lionel Loueke alla chitarra ed Eric Harland alla batteria, la formazione ha viceversa deluso, nonostante la monumentale presenza del leader, che ha confermato di essere uno dei contrabbassisti più solidi e creativi ancor oggi sulla scena. Ma la musica è parsa sterile e priva di sorprese e alcuni membri decisamente sottotono: se Loueke era forse un po' a disagio fuori dal suo repertorio, Potter è sembrato a corto di idee al tenore e perfino inadeguato al soprano, sulle note medio alte del quale il suo suono lasciava a desiderare. Globalmente, quindi, uno spettacolo un po' noioso, ravvivato solo dalle performances di Holland, quelle sì tutte da ammirare.

La giornata di venerdì inizia presto, alle 11,00 del mattino, con uno dei concerti più belli dell'intero programma, di scena l'atipico duo di Jean Louis Matinier alla fisarmonica e Marco Ambrosini alla nyckelarpa, strumento antico sopravissuto in una piccola area della Svezia grazie al suo uso nella musica popolare, che il musicista italiano ha recuperato e riproposto in vari contesti. I due, autori di un bel lavoro per la ECM nel 2014, hanno deliziato il pubblico nella suggestiva abbazia di Rosazzo con un programma di musiche originali e alcuni brani barocchi, con una cifra certo classica, ma anche assai arricchita dalla loro serrata interazione, tangibile e visivamente coinvolgente, nonché dai continui cambi di tempo e atmosfere, da invenzioni e assoli individuali di grande freschezza e inventiva. Se si aggiunge a questo la bellezza dei temi e dei suoni dei due strumenti, si spiega perché un concerto borderline rispetto a quanto si definisce di solito con il termine "jazz" sia stato calorosamente salutato dal pubblico e sia risultato, come dicevamo, uno dei più belli della rassegna.

Nel primo pomeriggio altro duo, ma di segno decisamente diverso, presso Villa Locatelli, nella tenuta di Angoris a Cormons: il chitarrista triestino Andrea Massaria e il batterista statunitense Bruce Ditmas hanno presentato il disco The Music of Carla Bley appena uscito per l'etichetta Nusica, sottoponendo alcuni dei brani più belli della compositrice statunitense a un trattamento singolare, incentrato sulla raffinata ricerca sonora di Massaria, al lavoro con pedali e accessori elettronici, sospinta dalla varietà ritmica di Ditmas, così da scomporre i temi, esaltarne ora gli aspetti lirici, ora quelli dinamici, ma anche aprendo spazi improvvisativi che in particolare il chitarrista riempiva di colori e conduceva in direzioni anche molto lontane dall'originale. Un'operazione interessante, apprezzata già su disco, che in questa occasione ha mostrato una pecca solo nei brani dinamicamente più intensi, penalizzati da una sala forse più adatta a sonorità più soffuse -e che infatti ha lasciato apprezzare i pezzi dal trattamento più delicato, su tutti una affascinante "Ida Lupino."

Detto che, in contemporanea, al Castello di Spessa si esibiva un'altra piccola formazione assai interessante—Pericopes + 1 -l'appuntamento successivo di una kermesse che non lasciava respiro è stato presso Villa di Toppo Florio a Buttrio, altra location incantevole nella quale ha suonato il Living Being Quintet del fisarmonicista francese Vincent Peirani. Un gruppo giovane, nel senso di permeato da una molteplicità di ritmi e musiche contemporanee, versione attuale di quella che un tempo si chiamava fusion: incontro tra acustica ed elettronica, tra pop, jazz ed etnica, tutto tenuto assieme con molta misura e grande dinamismo. Grazie anche alla qualità dei singoli, tra i quali spiccava di nuovo il sopranista Emile Parisien, che in questo ben diverso contesto ha confermato quanto di buono aveva fatto vedere il giorno prima nel trio con Negro e Rabbia. Ovviamente notevole anche il leader, sebbene solo a tratti, con la sua fisarmonica forse un po' penalizzata dal contesto musicale. Un gruppo comunque originale, emotivamente coinvolgente, anche se forse non ancora al massimo delle proprie potenzialità.

Finale di giornata con il quartetto di Gonzalo Rubalcaba a omaggiare Charlie Haden, che del pianista cubano fu mentore. Brani splendidi, selezionati tra la ricca produzione compositiva del grande contrabbassista, che Rubalcaba ha rivisitato alla luce della propria sensibilità caraibica: ulteriori aperture spagnoleggianti, arricchimenti armonici, abbellimenti -per i gusti di chi scrive talvolta un po' leziosi -con il pianista purtroppo non supportato a dovere dal tenorista Will Vinson, improvvisativamente non brillantissimo. Alla fine un concerto un po' "stanco," a confermare il tendenziale assopimento dei "big."

Altro inizio di buon ora il sabato al Kulturni Dom di Nova Gorica, nella sala principale dotata di un impianto audio impressionante, che ha permesso di ascoltare ogni dettaglio del progetto Made to Break di Ken Vandermark, in quartetto con Kristof Kurzmann all'elettronica, Jasper Stadhousers al basso elettrico e Tim Daisy alla batteria. Come nello stile di Vandermark, energia in quantità, suono diretto e potente, intreccio di strutture scritte e improvvisazione, con il leader assoluto protagonista grazie al suono potente e al fraseggio netto e ritmicamente tagliente -sia al tenore che al clarinetto -ma con l'apporto originale e creativo di Kurzmann, che lavorava al laptop in modo sorprendente, producendo suoni nitidi e funzionali a un discorso drammaturgico più che alla costruzione di atmosfere sonore, come spesso succede a chi opera con questi strumenti. Un concerto dal forte impatto, che Vandermark ha condotto fino alla fine su regimi intensissimi, pur lamentandosi scherzosamente dell'ora ("i concerti di solito si fanno la notte..."), non a torto visto che aveva fatto le ore piccole per un concerto a Graz la sera prima.

Appena il tempo di trasferirsi e alle 13,30, nel giardino dell'azienda Borgo San Daniele di Cormons di scena ancora una piccola formazione, il duo di Pasquale Mirra e Gabriele Mitelli, freschi dell'uscita del loro disco Water Stress. Coppia di creativi che sta affascinando tutti coloro che hanno avuto modo di vederli all'opera, hanno proposto senza soluzione di continuità una serie di brani originali e di riletture, che servivano comunque sempre solo da spunto per creare situazioni di interazione improvvisata, spesso del tutto anticonvenzionale: Mitelli ha infatti non solo suonato una varietà di strumenti (tromba, pocket trumpet, flicorni), ma soprattutto lo ha fatto modificandone l'impianto -ad esempio suonando con un bocchino da sassofono! -ed è spesso passato alle percussioni e a oggetti vari, da solo o -come accaduto a un certo punto in modo prolungato -assieme a Mirra, giocando assieme con quanto preparato su un tavolo. Tutto sempre molto stimolante, a momenti delizioso, a momenti invece con un piccola riserva relativa alla coerenza dei gesti. Ma i suoni dei due sono rari, se non impossibili, da trovare altrove.

Assai deludente il concerto delle 17 a Vila Vipolze, in Slovenia, dove il previsto quartetto di Nir Felder era ridotto a trio per l'assenza del tastierista Shai Maestro e ha messo in scena una musica ben eseguita -Felder è un chitarrista giovane ma senza dubbio assai dotato -e tuttavia piuttosto scontata. Fortuna che il concerto serale, al Teatro Comunale, è stata l'eccezione dei "big," perché il quartetto di Bill Frisell, con il progetto che ha visto la luce sul disco When You Wish Upon A Star, non ha deluso.

La formazione comprende una ritmica formidabile, con Thomas Morgan al contrabbasso e Rudy Royston alla batteria, ed è completata da una Petra Haden più country che jazz, e che ha in apertura offerto una originale e sensibilissima lettura di "Moon River." In programma la rivisitazione di note musiche per il cinema o la TV, che in genere vengono citate, quasi per riportarle alla memoria, e poi ampiamente stravolte con il tipico stile del chitarrista di Baltimora. In questo contesto la Haden, oltre a svolgere il ruolo di "citatrice," con il suo approccio semplice e algido è parsa contribuire assai più sul piano timbrico che come interprete, a maggior ragione a causa di un raffreddore che l'ha costretta sul palco fazzoletto alla mano e l'ha palesemente penalizzata in vari momenti. Ciononostante, la sua funzione è sembrata singolare ma intelligente all'interno di una musica che faceva fulcro assai più sulle spettacolari e sofisticate variazioni della chitarra di Frisell che non su di lei. Un buon concerto, che ha visto tra gli autori passati in rassegna anche Rota e Moricone, certo non sorprendente, ma gustoso e di grande spessore tecnico.

La giornata finale si è aperta ancora di prima mattina, alla tenuta Villanova di Farra d'Isonzo, con quello che a parere di chi scrive è stato il concerto migliore: il trio Amiira di Klaus Gesing, Björn Meyer e Samuel Rohrer. Il sassofonista e clarinettista tedesco, di casa da queste parti e già visto nella stessa sala due anni orsono con un progetto in solitudine, ha riproposto la sua poetica lirica arricchendola con l'uso oculato e sensibile dell'elettronica, mentre i suoi due compagni di viaggio -lo svedese, già ascoltato in Ronin, al basso elettrico e lo svizzero, spesso apprezzato con Claudio Puntin, alla batteria -ne hanno valorizzato il lavoro proprio operando in controtendenza, cioè inacidendo la liricità e sottoponendola a un intenso trattamento ritmico. Tutto questo con una stringente e palpabile interazione, ricca di momenti improvvisati e di forte tensione dinamica, così da tenere sempre alta l'attenzione anche nei momenti a rischio di prevedibilità. Musica di altissimo livello, coerentissima e fruibile, ma anche coinvolgente e sorprendente, che ha infatti riscosso un grande successo sul pubblico presente (in pochi minuti sono stati esauriti i CD portati dai musicisti).

Abolito il concerto serale in teatro per favorire il rientro del pubblico ai proprie luoghi di residenza, il concerto conclusivo del festival si è tenuto alle 16 della domenica presso la cantina Keber, emblematicamente posta sul confine tra Collio italiano e Brda slovena. Di scena una formazione sulla cresta dell'onda, i Sao Paulo Underground di Rob Mazurek, per un concerto che era stato in forse nei giorni precedenti, causa la scomparsa del padre del trombettista, che ha invece deciso di continuare la tournée e dedicarla alla memoria del genitore. Cosa, questa, che lo ha spinto a esasperare gli aspetti rituali presenti nella più recente proposta della formazione (Cantos Invisiveis ), inscenando un ingresso con sonagli e percussioni che accompagnavano una cantilena da processione etnica, di grande impatto spettacolare ma di dubbio senso musicale (e oltretutto oggi anche un po' datato come recupero di tradizioni ancestrali). Purtroppo questo tipo di performance, che si alternava a brevi passaggi della tromba e a interventi elettronici degli altri due membri della formazione, è durata per circa metà del concerto, diventando alla lunga davvero ridondante e minandone la coerenza. La seconda parte si è poi sviluppata in modo diverso, più consono alle proposte abituali del gruppo, anche se a nostro parere ripetendo eccessivamente i medesimi stilemi e cercando di variarli con interventi d'effetto, ma non particolarmente originali, con l'elettronica. Ciò è parso quasi inevitabile per una formazione dalla tavolozza timbrica tutto sommato povera e che, proprio per questo, è quasi obbligata a giocare le proprie carte sul piano dell'intensità e degli effetti scenografici più che su quello della complessità musicale. Cosa che, invero, fa piuttosto bene, ma che certo può non soddisfare tutti.

A prescindere dalle valutazioni personali, il concerto ha chiuso degnamente la diciannovesima edizione del festival, sugellata da una spettacolare "polentata" innaffiata dai vini dell'azienda ospite, eccezionali come tutti quelli assaggiati dopo gli altri concerti nelle cantine. Sciocco sarebbe dire che il crescente successo riscosso dal festival sia dovuto a questo, perché come detto in apertura la ricchezza e ancor più l'intelligenza del programma musicale da sole basterebbero, ma non si può non osservare come mettere a frutto la sinergia tra musica, turismo e gastronomia sia una scelta oculata, una di quelle strategie che possono aiutare a far tornare l'attenzione di un pubblico più ampio su una musica ricca e multicolore, ma ciononostante sempre a rischio di marginalizzazione. Appuntamento al 2017, per un'edizione celebrativa del Ventennale che si preannuncia ancor più ricca.

Foto: Luca D'Agostino

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