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A dialogo con Stefano Tamborrino

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Il trentacinquenne Stefano Tamborrino è oggi uno dei musicisti più interessanti della scena nostrana. Membro stabile di alcuni dei migliori gruppi italiani del momento, come Hobby Horse e Frontal, ma anche parte di molteplici formazioni di orientamenti musicali diversi, dal quartetto di Nico Gori a quello di William Tatge, dal trio di Alessandro Galati a quello di Walter Beltrami. In tutti questi anche ben diversi contesti il batterista fiorentino lascia sempre ben impressa la propria firma, intervenendo con sorprendente originalità e dimostrandosi uno dei più personali interpreti dello strumento nella scena italiana ed europea. Abbiamo dialogato con lui per conoscerlo meglio.

All About Jazz Italia: Del tuo percorso artistico, oggi ben visibile, non sono molto noti gli esordi. Come sei arrivato alla musica?
Stefano Tamborrino: Ho iniziato a suonare relativamente tardi, perché in casa non ero incoraggiato e ho dovuto attendere di aver guadagnato i miei primi soldi per acquistare uno strumento. All'epoca, una quindicina d'anni fa, le batterie erano ancora piuttosto care: per comprare uno strumento utilizzabile non bastavano un paio di milioni di lire. Così, quella che mi comprai per risparmiare aveva di fatto un sacco di difetti, anzi, direi che non stava proprio in piedi, mancandole un pezzo di qua e uno di là... Questa cosa, se da un lato mi penalizzò parecchio, dall'altro mi costrinse a ingegnarmi: ascoltavo i dischi, volevo rifare certi suoni, ma il tamburo non suonava come quello che avevo ascoltato! Allora ero costretto a cercare di capire perché, a sperimentare finché non trovavo lo stesso suono, a trovare soluzioni per adattare la mia batteria in modo che lo potesse fare. Ad esempio, ho utilizzato il telaio di un tavolo di alluminio per far stare in piedi il tamburo, una vecchia asta da microfono per sostenere i piatti, delle cerniere da valigia per tenere insieme casa e timpano, i ferri del parabrezza del motorino per sostenere il tutto, e così via. Stratagemmi da sopravvivenza, che però da un lato mi hanno permesso di capire i dettagli meccanici della batteria e la loro funzione sul suono, dall'altro mi hanno liberato la creatività, sempre in relazione al suono.

AAJI: Insomma, una dimostrazione della tesi per la quale la precarietà è un incentivo per sviluppare le capacità improvvisative! Del resto il jazz, arte improvvisata per eccellenza, è il frutto della precarietà degli afroamericani "liberati" dalla schiavitù e alla ricerca di un lavoro, di una casa, di una identità.
S.T. : Infatti, a posteriori penso che quello strumendo tremendo sia stata la mia fortuna! Il primo passo fu quello di farla stare in piedi, ma il secondo e decisivo fu far avere allo strumento un suono decoroso, il suono che volevo avesse. Quindi, la mia fu fin dall'inizio una vera e propria ricerca sul suono, nel corso della quale feci anche degli esperimenti un po' folli, come quando sperimentai un sistema di carrucole per controllare due hi-hat! In realtà tutto oscillava pericolosamente.

AAJI: E con quella "tremenda" batteria da che musica sei partito?
S.T. : Come ascolti, da tutto. In casa ascoltavo il rock melodico di mio padre, che era un metallaro, il cantautorato italiano di mia madre -Baglioni, Venditti, De Gregori, Concato, ecc. -e il pop di mia sorella, che ha qualche anno più di me e mi ha fatto conoscere tutta la musica degli anni Ottanta. Mancavano invece del tutto sia la classica, sia il jazz. A quest'ultimo mi sono avvicinato grazie a un amico che suonava la chitarra e il cui insegnante fece ascoltare Pat Metheny, John Scofield e Mike Stern. Io ne fui molto colpito, mi feci masterizzare tre CD e passai un anno a suonarli... il bello è che pensavo pure di saperlo fare bene! Ecco, il mio percorso iniziale di studio è stato questo.

AAJI: Come vivevi, nel frattempo?
S.T.: Per un po' ho lavorato come imbianchino, provando in garage quelle poche ore del giorno che mi restavano libere. Poi ho fatto il servizio civile in un manicomio criminale, l'O.P.G. di Montelupo Fiorentino: un'esperienza dura e un periodo difficile, però avevo molto più tempo libero, cosa che mi consentì di frequentare una scuola di musica locale e di provare più a lungo. Mentre ero lì, riuscii inaspettatamente a ottenere una borsa di studio europea del "Progetto Leonardo": tre mesi a Londra, tutto spesato e con un corso di inglese, più un tirocinio in un centro giovani, altra esperienza che mi è stata utilissima. Ero appena tornato quando ricevetti una telefonata da un gruppo di liscio che cercava un batterista e aveva avuto il mio nominativo dalla scuola di musica di Montelupo, dove ero andato tre o quattro volte durante il servizio civile. Non avevo avuto ancora il tempo di capire cosa fare in Italia, per cui feci una prova, che andò bene, cosicché mi proposero di fare delle serate. La paga era bassissima, ma si trattava di almeno quindici date al mese, per cui alla fine qualcosa si tirava fuori. Così, lasciai definitivamente l'attività di imbiancatura e iniziai a suonare liscio. Per uno che fin lì non aveva neanche lontanamente pensato di fare il musicista professionista e che neppure c'aveva provato (in fondo, mi telefonarono a casa senza che io avessi cercato nessuno), non era male. Del resto, ancora allora mi risultava difficile credere che suonare la batteria sarebbe diventato il mio lavoro...

AAJI: E invece...
S.T.: ...e invece proprio tramite il liscio conobbi Claudio Ingletti, un sassofonista, che mi invitò a una jam session in un bar di Fucecchio e io, come faccio sempre, risposi "ok, perché no?." Arrivato, il mio amico mi lanciò alla batteria per suonare uno standard -un linguaggio di cui io non conoscevo nulla! -e al termine mi dissero che sarei stato il benvenuto a tornare ogni settimana, ufficialmente assunto nella House Band. Non erano grandi musicisti, ma ne sapevano molto più di me, così accettai umilmente quella che per me suonava come una sfida dalla quale avrei certamente imparato tanto. Ebbi modo di conoscere molti altri musicisti e, tra questi, Nico Gori, che è di quelle parti. Così, passo dopo passo, sono entrato sempre più dentro il jazz, facendo anche tante date -con formazioni diverse per genere e qualità.

AAJI: Che periodo era?
S.T.: Sei-sette anni fa, in fondo non è poi passato tantissimo tempo.

AAJI: Quindi il periodo in cui suonavi nel trio di Simone Graziano con Ares Tavolazzi?
S.T.: Sì, il periodo era quello. Ares è stato il primo a darmi fiducia. Fu Simone a dirmi che c'era una masterclass di Ares alla scuola Il Trillo. Ci andammo assieme e a un certo punto suonammo io, Simone e un bassista, che alla fine del pezzo disse di non ritrovarsi nella musica che suonavamo; così fu proprio Ares a prendere il contrabbasso per suonare con noi. Quando alla conclusione della masterclass andai a ringraziarlo, fu lui a dirmi che se avessi voluto chiamarlo per suonare avrei potuto farlo quando volevo, sarebbe venuto anche gratis! Il motivo per il quale disse una cosa simile non fu certo perché pensava di aver scovato un genio, bensì perché ero giovane e con quelle parole intendeva incentivarmi nel modo più esplicito possibile. Io avevo iniziato a suonare da due giorni e lui, un musicista con la sua storia, mi dava un'opportunità del genere! Da non credere. E che esperienza umana, oltre che musicale!

AAJI: Quella con il trio di Simone è stata la tua prima registrazione di jazz?
S.T.: Non saprei esattamente, forse sì. Anche perché non è che abbia registrato poi molto.

AAJI: Beh, ultimamente non direi!
S.T.: Effettivamente negli ultimi due anni ho registrato un po' di dischi che mi piacciono, nei quali mi sento rappresentato. Anche se poi non ci faccio troppo caso... forse sarebbe opportuno che lo facessi...

AAJI: Hai suonato in contesti anche molto eterogenei, con musicisti dalla storia piuttosto diversa dalla tua come Nico Gori o Alessandro Galati, e persino in un gruppo pop al Concerto del Primo Maggio! Puoi raccontarci quell'esperienza davvero un po' insolita?
S.T.: Ero con Gary Dourdan, un cantante e attore statunitense protagonista della serie televisiva C.S.I. L'avevo conosciuto al Jazz Club di Firenze, mesi addietro: io ero lì a suonare e lui, che era a Firenze in vacanza, tra il pubblico. Alla fine è venuto a salutarmi entusiasta chiedendomi di lasciargli il numero di telefono per suonare assieme. Sul momento ho pensato che fosse la solita storia del musicista americano che la spara lì e poi non si fa mai più sentire; invece, una volta riacceso il cellulare ho trovato un messaggio nel quale mi mandava il suo numero di telefono e ribadiva che nei giorni a seguire avrei ricevuto una chiamata dalla produzione, cosa che infatti alla fine è successa. Anche in questo caso si tratta di un'esperienza di cui sono molto contento, perché Gary è una persona squisita, l'ambiente è nuovo, le cose da imparare sono molte -e ne ho apprese tante in pochissimo tempo. Questa è una costante della mia esperienza: ho sempre a che fare con persone che ne sanno più di me. La mia scuola è stata questa: imparare da chi ne sapeva di più. Perché, in fondo, scuole non ne ho mai fatte. Anzi, quando avrei voluto, non mi hanno preso: è successo con Siena Jazz, dove ho provato a entrare e non ho superato la selezione... Chissà perché per imparare bisogna già conoscere quel che dovresti andare ad apprendere? Comunque, nessuna recriminazione: ho continuato a seguire la scuola dell'esperienza, come avevo fatto fino ad allora.

AAJI: A parte il liscio degli inizi e il jazz, quali altre esperienze musicali ti hanno formato?
S.T.: Il gruppo con cui suonavo quando comprai la batteria faceva metal! A dire il vero si trattò di una collaborazione di pochi mesi, parte dei quali con un braccio ingessato a causa di un incidente -tra l'altro, nel braccio ho ancora dei ferri che, secondo il chirurgo, mi avrebbero dovuto impedire di suonare... Smisi presto, perché cercavo strade diverse. Più tardi mi sono anche appassionato all'hip hop, quando ancora non era così di moda come lo è adesso. Oggi tutti devono dire che amano J Dilla, ma io che era un genio me ne accorsi appena lo ascoltai: la sua scoperta per me fu devastante, è stata una delle esperienze che più mi ha fatto riflettere sul ritmo.

AAJI: Puoi spiegare perché a chi, come me, dell'hip hop sa poco o nulla?
S.T.: Non fraintendermi, non sono un profondo conoscitore in nessun campo, mi spiace solo la mancanza di onestà intellettuale di alcuni quando si tratta di esprimere il proprio gusto. Principalmente, in una certa tipologia di hip hop, l'ispirazione viene dall'errore. Perché i ritmi vengono prodotti da un campionatore dotato di una latenza e una sensibilità che possono produrre imprecisioni; solo che questo "errore" viene reiterato sino a quando si perde la capacità di scindere ciò che lo ha reso tale. Quando l'ascoltai la prima volta rimasi a bocca aperta: come gli viene in mente -pensai -di fare una cosa del genere, così ritmicamente scarna e al contempo incomprensibile? Poi capii prima di tutto che a pensare quei ritmi non era un batterista ma un produttore e, in secondo luogo, che dietro c'erano campionamenti poco ortodossi e stratificazioni di tempi binari e ternari. In realtà questa "distanza" tra ciò che ti attenderesti e quel che realmente ascolti è propria di tutte le musiche che mi affascinano e, in particolare, della musica popolare: gli spartiti indicano delle note che se fossero suonate da una macchina sarebbero ben diverse da quello che invece viene suonato dai musicisti e, soprattutto, dai grandi interpreti. I quali -perché sono i custodi di una storia, di una tradizione, oppure perché ci mettono del loro -eseguono quella partitura con un ben preciso portamento. Nell'hip hop avviene la stessa cosa. E ascoltarlo mi ha aperto la mente, diciamo così, all'esistenza dell'infinito nella griglia ritmica: ci sono aspetti del ritmo, note, che non stanno da nessuna parte, perché stanno nell'infinito. Questo l'ho capito ascoltando hip hop e anche... ascoltando Paul Motian, che apparentemente con l'hip hop non c'entra nulla, ma che in un certo modo gli è speculare.

AAJI: In che senso?
S.T.: Nel senso che lo stesso concetto che mi ha affascinato nell'hip hop mi ha affascinato anche in Motian. Io ascoltavo tutt'altri batteristi, come per esempio Ari Hoenig, dal quale ero molto preso. Lì l'approccio ritmico è quasi scientifico: tutto è preciso, misurato, magari difficilissimo da eseguire, ma ogni cosa ha il proprio posto ed è riconoscibile. In Paul Motian è tutto diverso: non si capisce cosa fa e perché, eppure tutto risulta bello e onesto! Ascoltarlo la prima volta fu uno schiaffo. Un bellissimo schiaffo.

AAJI: Capisco quel che dici, anche per me il primo impatto con Motian, tanti anni fa ai tempi del trio con Bill Frisell e Joe Lovano, non fu dei più semplici. Forse anche perché con la batteria ho sempre avuto un rapporto complicato, diciamo che non è il mio strumento...
S.T.: A dire il vero non è neanche il mio! Alla fin fine potrei dire che se lo suono è per errore, perché era lo strumento a cui era più immediato avvicinarsi. La cosa più frustrante della batteria è che è veramente difficile fare della poesia, molto più difficile che con qualunque altro strumento. Pochissimi sono coloro che a mio modesto avviso hanno avuto la capacità di fare poesia con la batteria.. È per questo che quando "compongo" lo faccio considerando altri riferimenti rispetto allo strumento che suono. Adesso sto raccogliendo del materiale per un disco in solo -un po' cinematografico, un po' hip hop, un po' ambient, un po' punk. -nel quale suono tante cose diverse, ma l'unico strumento che non tocco è proprio la batteria. Anche perché mi piace suonare strumenti che non mi appartengono! L'ho fatto anche nel disco su Jimi Hendrix uscito per l'Espresso, dove suono la slide guitar, e recentemente a una jam session ho fatto un pezzo con il trombone... forse "un pezzo" è un po' pretenzioso... diciamo che ho fatto una prestazione...! Comunque, questo materiale lo sto raccogliendo assieme ad amici musicisti, che mi registrano e la cui presenza mi mi dona stimoli per l'improvvisazione. Uso prevalentemente una strumentazione che rasenta il giocattolo, ma non sapendola suonare va più che bene: poi percussioni elettroniche, la tastiera Casio delle medie, anni Ottanta, un flauto, anche quello delle medie, un piccolo glockenspiel, oggetti vari, tra cui bottiglie e tutto quello che mi capita sotto tiro, a cui si vanno ad aggiungere strumenti che mi vengono all'occasione prestati come il violoncello, la tromba, il sassofono, senza che mi siano mai passati per le mani prima di premere il tasto "REC." Tengo tutto su un tavolo, suono improvvisando e aggiungendo strati registrando in sovraincisione, nel tentativo di creare un paesaggio sonoro.

AAJI: Interessante, perché -aldilà del fare a meno del "tuo" strumento -questa molteplicità di suoni mi pare rimandi al concetto di musica proprio anche di Hobby Horse.
S.T.: Esatto, infatti Hobby Horse è nato con l'idea di far suonare un trio come se non fosse una formazione sax-basso-batteria, ampliandone il suono aggiungendo strumenti. Iniziammo con la melodica, che sopperiva all'assenza di uno strumento armonico, ma subito dopo io cominciai a portare strumenti che non sapevo suonare, e anche strumenti che non si potevano suonare, come la radio accesa su una frequenza a caso. Lo spirito era comunque lo stesso del lavoro in solo che sto sviluppando: giocare. D'altronde questo è un mio aspetto innato: per me la musica è sempre stata un gioco.

AAJI: Del resto, come sempre, non si deve dimenticare che giocare e suonare si esprimono con lo stesso verbo sia in inglese, "to play," sia in francese, "jouer," ma anche che l'aspetto performativo fa corpo unico con quello creativo. "Depurato" da ludicità e performatività, "suonare" diventa un lavoro di riproduzione, magari avendo di mira proprio quella "perfezione" irrealizzabile di cui parlavi poco fa.
S.T.: Proprio per questo Hobby Horse è il più longevo progetto a cui ho preso parte: è in piedi da prima del 2010, anno in cui abbiamo registrato Trevi, uno dei dischi autoprodotti che hanno preceduto Eponimus, che è uscito nel 2013 per Parco della Musica. Nel 2015 è uscita per "Musica Jazz" una raccolta di registrazioni dal vivo, Live, e adesso Rocketdine, di nuovo per Parco della Musica. Poi ovviamente mi sento molto partecipe anche in Frontal, nel quale -anche se le composizioni sono di Simone Graziano -c'è una certa collegialità creativa, e anche il gruppo di William Tatge mi piace molto.

AAJI: Tuttavia, anche in gruppi dal taglio un po' diverso da questi, come il quartetto di Nico Gori o il trio di Alessandro Galati, stai dentro con una tua personalità, non fai il sideman. Come fai?
S.T.: Non potrei fare diversamente! La differenza principale, più che il modo di suonare, è il suono, il timbro. E questo fa sì che fin dall'inizio usi accordature diverse e anche diverse componenti. Poi, però, posso essere meno diretto, meno invadente... ma se mi inviti a cena presumo che tu sappia chi sono, che desideri sapere cosa penso e che mi lasci degli spazi per dire la mia anche se hai opinioni un po' diverse. E forse il sideman puro e semplice non sarei neanche capace di farlo, nel senso che ci sono batteristi tecnicamente più preparati di me: con Nico Gori suono a modo mio e non come Philly Joe Jones anche perché non mi riesce farlo e sono obbligato a fare virtù dei miei limiti, con onestà e con rispetto del padrone di casa.

AAJI: Il che può permettere un'interazione virtuosa, proprio grazie alle differenze. Nel caso del gruppo di Nico questa cosa era evidente, tanto che alla fine lui stesso ha intitolato il disco Il gioco dei contrasti.
S.T.: Si, appunto perché mi pongo dei limiti, mi faccio un'idea di suono che possa integrarsi con le idee altrui, mi pongo dei paletti, ma poi rimango me stesso e non potrei fare diversamente. Così porto anche le mie idee e questo, come vale per tutti i musicisti, per un gruppo, non può che essere un valore aggiunto.

AAJI: Cosa cambi nella strumentazione?
S.T.: Certe volte praticamente tutto: piatti, pelli, accordatura. Forse i piatti sono l'elemento che richiede più attenzioni: non posso andare a suonare al concerto del Primo Maggio con i piatti che uso con Frontal! In realtà sarebbe bello sviluppare la capacità di usare sempre la stessa strumentazione, riuscendo a farla suonare in modo diverso e di volta in volta adeguato al contesto. Però è molto difficile, forse persino un po' utopico, anche se c'è chi lo fa.

AAJI: A parte Paul Motian che riferimenti hai oggi nel mondo della batteria?
S.T.: Dipende da che cosa devo suonare: con un cantante pop il riferimento a Motian non è il più adeguato.... E comunque, riflettendoci, non posso dire di rivolgermi a modelli, anche perché -come dicevo -non presto troppa attenzione alla batteria: è raro che ascolti la musica seguendo la batteria. Quello che mi può ispirare è una sorta di intensità, di sensibilità, una storia, uno shock, non solo nella musica. Comunque.... Tra i batteristi ho sicuramente subito l'influenza di Stewart Copeland e Bill Bruford per l'imprevedibilità che ho poi trovato anche in Jim Black, e poi di Joey Baron, che ha un modo straordinario di stare sul tempo, semplice e leggero -direi che incarna quel che si chiama "swing" e riesce a suonare sempre benissimo anche in contesti molto diversi. Tra quelli del passato, invece, citerei Tony Williams ed Elvin Jones: chi è venuto dopo ha comunque ripreso cose che avevano messo a punto loro. Devo dire che, già da qualche anno, in Italia i miei preferiti sono tutti più giovani di me, come per esempio Enrico Morello, Emanuele Maniscalco e il mio conterraneo Bernardo Guerra.

AAJI: Accanto alla tua attività di musicista negli ultimi anni hai fatto anche il direttore artistico, per una realtà che a Firenze ha avuto una certa importanza e che, a un certo punto, era diventata un riferimento anche per tanti gruppi jazz italiani.
S.T.: Sì, jazz in senso lato, come è giusto che sia, secondo me, perché la parola jazz non può e non deve identificare un tipo di musica troppo ristretto. Anzi, proprio la sua apertura e varietà è il suo aspetto affascinante, giustappunto quello che volevo valorizzare quando, cinque anni fa, mi fu chiesto di occuparmi della programmazione in un locale nel centro di Firenze che allora stava aprendo: la NOF, in Oltrarno. Fin dall'inizio misi subito in chiaro che non volevo stare a discutere sulla tipologia di musica che avrei programmato e che perciò sarebbe stato meglio fare una prova per vedere se a loro piaceva: in caso contrario, avrei semplicemente smesso lì, senza ingerenze o contrattazioni. Per spiegare come siano andate le cose basta dire che il gestore del locale, in questi cinque anni, è diventato uno dei miei migliori amici... Di fatto la programmazione è sempre stata varia: una settimana c'era il gruppo di musica elettronica, un'altra la formazione manouche, poi il gruppo di improvvisazione, quello di musica brasiliana, e via dicendo. Sempre privilegiando i progetti originali: sono state rarissime le formazioni che suonavano standard. Inoltre, di quando in quando organizzavamo delle "serate anarchiche": si sceglieva un tema e si prendeva come ispirazione per suonare musica improvvisata. Una delle prime fu quella dedicata al "Jazz Liturgico": nel locale c'erano una ventina di musicisti tutti vestiti da prete. La cosa più esilarante era guardare la gente che passava davanti alla vetrina -la NOF è un locale con lo sporto sul marciapiede -e vedeva venti preti che suonavano jazz nel centro di Firenze! Di queste serate ne abbiamo fatte parecchie, almeno una ventina, con i temi più vari: una volta ci fu "CartonJazzisti" ed eravamo tutti vestiti da muratori...

AAJI: Tutto questo rinvia al tuo leggendario umorismo surreale, che talvolta eserciti anche in scena e che apprezza chiunque ti conosca personalmente...
S.T.: Diciamo che questi eventi scaturivano dalla mia necessità di giocare e ridere con gli altri, anche se col senno di poi si sono rivelati esperimenti interessantissimi: perché quando li fai, mentre suoni, inizialmente sei preso dal gioco e ridi pure tu pensando al fatto che stai facendo l'idiota in un posto pubblico; ma poi, nel corso della performance, perdi la percezione dell'ambiente e ti dimentichi di essere in pigiama o vestito da prete, prescindi dalla situazione e ti concentri solo sulla musica. Non importa se il pianista che hai davanti è vestito da uomo-tigre: per te è un pianista e basta. È molto affascinante provare questo effetto liberatorio, quasi zen, della musica.

AAJI: Adesso l'esperienza NOF è finita?
S.T.: No, solo in pausa. Un evento la settimana è un impegno piuttosto gravoso, anche perché ho sempre voluto seguire tutto personalmente, tranne quando suonavo da qualche parte. Già quest'anno avevamo deciso di fermarci a Natale: è andata benissimo, era sempre pieno, e questo vuol dire che alla gente rimane la "fame." In cinque anni, dunque, qualcosa "per la comunità" siamo riusciti a farla.

AAJI: Pensi che riprenderà, in futuro?
S.T.: Sì, penso di sì, anche perché a me piace cercare di portare la gente ai concerti. E poi credo che esperienze come queste favoriscano la vitalità dell'ambiente musicale: la gestione della NOF ha sempre previsto una varietà non solo del tipo di musica, ma anche dei musicisti che intervenivano, rompendo la logica troppo spesso imperante per la quale dentro un locale suonano il direttore artistico e i musicisti a lui più vicini. Una cosa che, aldilà dell'aspetto etico, rende difficile la fiducia da parte del pubblico e, conseguentemente, il proseguimento dell'iniziativa per tanti anni.

AAJI: Programmi per il futuro?
S.T.: No, grazie!!

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Lorenzo Desiati

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