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Daniele Ninarello & Dan Kinzelman Kudoku

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All About Jazz Italia: Kudoku è la performance che presenterete in prima assoluta alla Biennale di Venezia il 17 giugno prossimo. Perché "Kudoku" e come è nata l'idea di questa collaborazione?

Dan Kinzelman: L'idea nasce per NovaraJazz (che ci ospiterà all'inizio della stagione autunnale) da Enrico Bettinello, giornalista e curatore che i lettori di All About Jazz Italia immagino ben conoscano. Personalmente sentivo da tempo il bisogno di stimoli nuovi, di cambiare aria. A volte l'ambiente del jazz rischia di essere molto autoreferenziale e l'occasione di collaborare con un artista che utilizza un altro linguaggio mi risultava estremamente stimolante. Avvertivo un simile entusiasmo anche da parte di Daniele così siamo partiti, scambiandoci una serie di email con parole chiave. Da queste sono emerse concetti che erano ricorrenti nei lavori di entrambi fra cui l'idea di un certo tipo di ritualità. Kudoku ha a che fare proprio con questa idea, parla del beneficio che proviene da una pratica. Nel nostro caso tentiamo di mettere in atto la pratica dell'incontro tra corpo e suono eseguendo un rituale che coinvolga anche lo spettatore. Ma se volete saperne di più dovrete venire a vedere la performance!

Daniele Ninarello: Ho trovato molto stimolante l'idea di unire un musicista e un danzatore perché sperimentassero la relazione tra danza e musica in una dimensione altra dal semplice avvenimento improvvisativo, pratica che comunque appartiene alla ricerca artistica di Dan e anche alla mia. Io e Dan abbiamo cominciato a lavorare a distanza, in maniera epistolare. Accadeva a volte di mandarsi semplicemente flussi di parole sparse. Queste corrispondenze sono servite ad avvicinarci, a conoscerci anche solo da un punto di vista di interessi e sensibilità. Sono emersi poi temi in comune e immagini su cui abbiamo iniziato a lavorare. Molto presto ci siamo trovati ad approfondire lo studio dei rituali di diverse culture, con l'interesse per l'aderenza tra suono e corpo e l'importanza della musica dal vivo a sostegno di un corpo e viceversa.

AAJI: Quali sono state le criticità incontrate nel percorso di reciproca conoscenza, e come sono state superate?

D.K.: Innanzitutto dovevamo trovare modo di tradurre in parole quello che stavamo facendo per poter dialogare. Credo che ogni disciplina artistica abbia un proprio lessico, un linguaggio che risulta comprensibile per chi la pratica ma un po' meno per chi la vive dall'esterno. E così è stato per me all'inizio, salvo poi prendere sempre più confidenza con il passare del tempo. Avvicinarmi ad un altro modo di raccontare e narrare la drammaturgia è molto stimolante e interessante, mi fa crescere, mi fornisce strumenti per mettere in discussione le mie abitudini e i miei metodi. L'altro problema era la gestione dei tempi. Come musicista sono abituato ad avere a disposizione pochissimi giorni per provare, e le prove tendono a essere brevi ma molto concentrate e intense. Nella danza invece si utilizza il sistema delle residenze, che possono durare diversi giorni ma hanno tempi dilatati. Si discute, si riflette, il progetto ha il tempo per seguire un proprio percorso evolutivo. Inizialmente ho trovato questa cosa frustrante ma poi il maggior tempo a disposizione mi ha permesso di scavare in profondità una serie di questioni che nella musica difficilmente riesci ad affrontare.

D.N.: Una delle difficoltà incontrate è stata quella di riuscire a trovare i giusti tempi di ascolto, di comunicare adeguatamente il proprio pensiero all'altro che magari fino al giorno prima era abituato a un linguaggio diverso e a tempi diversi. Le fasi produttive di una performance sono sicuramente diverse da quelle di un concerto. È stato necessario passare diverso tempo a parlare di noi, di cosa sentiamo e a cosa pensiamo, a come viviamo l'esperienza del processo creativo. Credo di essere vicino a Dan a livello empatico, e reputo questa vicinanza importante in un processo creativo. C'è stata una sensibilità conquistata nei primi giorni, qui intesa come apertura e disponibilità. Sicuramente la prima residenza a CSC Garage Nardini di Bassano del Grappa ci è servita molto per registrare i bulloni del nostro rapporto artistico. Passando molto tempo insieme è nata una bella simpatia ma soprattutto una grande stima. Quindi le criticità e i problemi o le incomprensioni necessarie ad un processo creativo, sono state accolte con fiducia e rispetto. Mi sono sentito fortunato, perché adesso percepiamo entrambi quando qualcosa non funziona, e insieme pensiamo a una soluzione.

AAJI: L'improvvisazione -per Dan in campo musicale per Daniele in quello della coreografia e del linguaggio del corpo -è terreno comune di esplorazione. Alla ricerca di...?

D.K.: Non è un problema che mi pongo nella quotidianità, perché vivo l'improvvisazione come una necessità istintiva e primaria, come mangiare o dormire. Forse risponde alla necessità di riscoprire costantemente ciò che sto facendo e perché lo faccio. In inglese suonare si dice 'to play,' ossia giocare. Ecco, improvvisare mi permette di giocare, di manipolare anche in maniera impetuosa e ingenua la materia sonora. Ciò comporta dei rischi, e dal rischio nascono sorprese, scoperte, e problemi da risolvere in tempo reale. Ti metti nella condizione di dover reagire e creare senza avere troppo tempo per riflettere, e qui nascono cose interessanti, un tipo di creatività che la parte più razionale della nostra mente tende ad escludere in altre condizioni.

D.N.: Per me l'improvvisazione serve a indirizzare, sessione dopo sessione, un'indagine precisa che possa far emergere la qualità di movimento che più mi interessa e che più incorpora l'idea attorno cui lavoro, è una ricerca di strumenti ed elementi conoscitivi in un luogo in cui si aprono i confini pur restringendosi via via le possibilità. In un secondo momento mi avvicino di più a una reale pratica compositiva istantanea che si inscrive e si memorizza nel corpo attraverso percezioni e intuizioni. Si tratta di una pratica in cui si rimane comunque in quel luogo di mezzo che interessa sia il mio lavoro che quello di Dan. Ci interessa davvero l'elemento rischio, il problema attorno cui cercare soluzioni e creare.

AAJI: Kudoku non è solo improvvisazione, ma anche scrittura e organizzazione. Come gestite e come lavorate su queste due componenti? 

D.K.: La maggior parte del materiale che fa parte dello spettacolo è nata da varie sedute di improvvisazione sia individuale che collettiva. Poi abbiamo fatto un lavoro di selezione e pulizia, anche in base ai concetti e alle parole chiave che ci siamo dati e all'interagire delle componenti individuali (musica e danza). Stiamo arrivando ad una struttura che prevede una sequenza di situazioni, di stanze, ma che lascia una certa autonomia individuale nell'evoluzione di ogni stanza, nel dettaglio del contenuto, e nei tempi.

D.N.: Dopo poche sessioni di improvvisazione, mirate e alimentate da tutto ciò che abbiamo letto e di cui abbiamo parlato per ore, ci siamo addentrati nell'idea di performance con uno score compositivo comune. Questa soluzione ci ha permesso di essere comunque indipendenti e a sostegno del lavoro dell'altro e soprattutto a far emergere sempre di più soltanto gli elementi compositivi necessari. Ognuno si è quindi occupato di scrivere e organizzare i propri materiali. Ci siamo dati la possibilità di conoscere e ascoltare il tempo interno necessario per permettere ai due corpi, quello sonoro e quello fisico e ai relativi materiali, di evolversi parallelamente senza mai schiacciarsi. Ci siamo lasciati un margine di imprevedibilità e oscurità da illuminare da dentro: è così che avverto l'incognito che caratterizza questo lavoro.

AAJI: Come si inserisce nella performance l'elettronica utilizzata da Dan? È un arricchimento della dimensione sonora o possiede anche altre funzioni?

D.K.: Senza l'elettronica il tipo di lavoro che sto facendo non sarebbe possibile. Ho fatto questa scelta nello sviluppo di Kudoku, ancora prima di aver incontrato Daniele. Era venuta fuori l'idea del rituale e mi interessava creare qualcosa di ipnotico e stratificato. Queste parole mi hanno portato a pensare subito ad una serie di effetti che avrei potuto creare solo con l'ausilio dell'elettronica. Da qualche anno avevo iniziato a coinvolgere l'elettronica anche in altri progetti fra cui Hobby Horse, ma sempre come supporto ai fiati. Questa per me era un'occasione per approfondire il discorso dell'elettronica in maniera diversa, e imparare a gestire l'improvvisazione (e il rischio che ne nasce) con questi strumenti. Si è rivelato una scelta giusta, anche perché i suoni sintetici e campionati che utilizzo hanno la possibilità di essere estremamente viscerali, la qual cosa si sposa bene con i temi su cui stiamo lavorando.

D.N.: Credo che l'elettronica utilizzata da Dan sia un organo importante e fondamentale nel lavoro. Ha fatto in modo che alcune parole e suggestioni che volevamo trascinare dentro, si concretizzassero. Avverto tutti i segni sonori inseriti da Dan come articolazioni in più, come prolungamenti del corpo e aperture verso di esso. Direi che la dimensione sonora possiede molte funzioni e significati e dona allo spazio una dimensione nuova, il suono diventa una materia tangibile.

AAJI: L'utilizzo della tecnologia consente ormai esibizioni in contemporanea ed in tempo reale da diverse parti del mondo . Che significato riveste  una performance come la vostra dove la fisicità e il contatto con il pubblico sono componenti fondamentali?

D.K.: Ritengo che le persone abbiano bisogno di vivere le arti performative in diretta, in prima persona. La sensazione di respirare tutti insieme che si crea a volte dal vivo (non sempre, ma questo fa parte della magia) non può essere replicato attraverso lo schermo o la rete. Certo non è facile: è una cosa delicata, richiede sforzo, disponibilità e apertura collettiva, sia dei performer che degli spettatori. Ma chi ha vissuto quell'attimo magico, dal palco o dalla platea, non lo dimentica facilmente. Se riusciamo a vivere e far vivere questa esperienza a chi è presente penso che avremo fatto qualcosa di utile e importante.

D.N.: Al di là dei superamenti e delle possibilità innovative, credo profondamente nell'essere testimone percettivo di una performance dal vivo o di qualsiasi altra manifestazione. Percepire è di per se una azione molto concreta, precede ogni azione che sia danzata, parlata o pensata. Il coinvolgimento "sensoriale" verso un'opera è un canale esclusivo e molto profondo, credo possa davvero rimescolare molti pensieri e punti di vista. Dal vivo, pubblico e performer, insieme, danno vita al tempo della performance, allo spazio e a tutto ciò che vi succede dentro. Questo lavoro, in particolare, riguarda i sensi, il coinvolgimento del corpo e dei suoi perimetri, tenta di liberarli e nel farlo vuole avvicinarsi allo spettatore, contattare il suo personale modo di percepire ciò che accade sulla scena.

AAJI: Quello dell'incontro tra forme differenti di espressione artistica è da sempre fonte di ricerca, con esiti a volte brillanti a volte deludenti. Pensate ci siano ulteriori possibili sviluppi e nuove direzioni da intraprendere nel campo della multidisciplinarietà?

D.K.: Speriamo di si, vedo molti colleghi musicisti che cercano ispirazione in altri campi e molti artisti che stimo già lavorano in questo senso da diverso tempo. L'incontro fra linguaggi è un'operazione ad alto rischio che richiede fatica e impegno ma quando funziona i risultati possono essere fantastici.

D.N.: Non sempre i mezzi utilizzati in fase di creazione o ricerca devono poi rientrare nell'opera stessa. Spaziare fra molte e diverse discipline è per me sempre stata una questione di curiosità, di studio e di ampliamento. La multidisciplinarietà può essere vincente quando gli elementi coinvolti sono davvero necessari e a servizio dell'opera, oppure quando contribuiscono lateralmente ad aumentarne la bellezza e le domande che porta con sé. Ultimamente mi capita di lavorare con artisti visivi e artisti che utilizzano nuove tecnologie in campo performativo e questo mi piace perché imparo a rimettermi in gioco, scopro nuovi territori.

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