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AngelicA Festival: 25 anni

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Centro di ricerca musicale
Bologna
02-31.05.2015

John Oswald coadiuvato da Domenico Caliri, Chris Cutler & Co. Gianni Gebbia e Carl Stone, Sidsel Endresen con Stian Westerhus: pillole, ma tonificanti, di un festival durato un mese e votato a «presentare musica in continuo movimento senza adagiarsi sulle "novità" o sul "consolidato," seguire le tensioni evolutive al di fuori delle correnti». Fedele alla propria identità, AngelicA è giunta al suo venticinquesimo anno di vita alla sistematica ricerca di assonanze e incontri. Sotto la direzione di Massimo Simonini, per la programmazione delle singole serate si è fatto affidamento anche su vari altri curatori e su una proficua residenzialità di vari musicisti invitati. Tanto è vero che nella penultima serata alcuni dei protagonisti di questa edizione si sono trovati riuniti nell'Orkestra Angelika, che ha eseguito la prima assoluta di The Nature Theatre of Nowhere sotto il labile coordinamento di Chris Cutler.

Una formazione di quattordici elementi, comprendente Jon Rose e Ilan Volkov ai violini, Charles Curtis al violoncello, Shelley Hirsch e Peter Blegvad alla voce, Karen Mantler all'organo, John Greaves al basso elettrico, John Oswald al sax alto, ha dato vita a partiture grafiche, citazioni, interventi improvvisativi e compositivi, tesi ad ottenere determinate trame dinamiche e timbriche, sottoposte comunque a precise durate temporali. Ne è sortita un'opera di musica contemporanea di alta valenza gestuale, venata d'ironia e tenuta sempre sotto controllo, ma in un incessante transitare da una situazione all'altra, da agglomerazioni a rarefazioni sonore.

Nelle due sere precedenti, curate sempre da Cutler, si sono ascoltate altrettante performance assai diverse fra loro. Il batterista e Greaves, in trio con l'organista belga Daan Vandewalle, hanno eseguito Nimmersatt, composto da quest'ultimo, ma innervato da una consistente componente improvvisativa. L'organo ha tracciato densi e vibranti accordi protratti in linee sghembe, mentre la batteria era impegnata a disegnare scabre e materiche scansioni ritmiche. Al basso elettrico, dai colori lividi, sembrava affidato un ruolo intermedio. Ne è risultato un set avvincente, di compatto interplay: una quarantina di minuti di ribollente profluvio torrentizio.
Tutt'altro spirito e tensione nel concerto in cui Cutler e Greaves hanno suonato in quintetto con Karen Mantler, Peter Blegvad e una Dagmar Krause un po' spaesata, per tributare un omaggio, dopo una quarantina d'anni, al gruppo Slapp Happy e al leggendario LP Kew. Rhone. Si sono ascoltate canzoni sofisticate, che attingevano a un periodo e a un certo immaginario del rock ormai lontani nel tempo, dei quali comunque ognuno dei musicisti coinvolti è stato artefice autentico. Il ripercorrere quella stagione ha preso la via di un'interpretazione un po' autoreferenziale, compiaciuta, disimpegnata e divertita. Disparità di pareri sugli esiti.

John Oswald è stato protagonista di due serate del festival. Di particolare interesse il progetto commissionatogli da AngelicA: la ripresa dopo un ventennio del suo lavoro Grayfolded sulla musica dei Grateful Dead. Con l'indispensabile collaborazione di Domenico Caliri, è stata messa a punto la versione live del suo disco Transitive Axis da parte di una formazione comprendente quattro chitarre elettriche, basso elettrico, due tastiere e due batterie. Il basso ha costituito un ancoraggio strutturale e narrativo sempre presente, mentre l'intreccio fra le chitarre ha lasciato emergere a turno interventi solistici brevi ma perentori. Intermittente il ruolo affidato alle due tastiere, come pure alle batterie, responsabili di una frastagliata trama di sottofondo.
La rigorosa trascrizione della partitura da parte di Caliri e la sua autorevole direzione dell'ensemble hanno avviato un'interpretazione collettiva di grande impatto: un insieme continuo e fitto ma organizzato in varie fasi, con una pluralità di soluzioni, ha ottenuto esiti incantatori di psichedelica memoria e un crescendo coinvolgente, fino alle telluriche masse sonore materializzatesi verso il finale.

Nella serata curata da Luca Vitali ha spiccato il notevole concerto, in prima italiana, del duo Sidsel Endresen—Stian Westerhus. Nella voce della cantante, icona della più aperta sperimentazione norvegese da oltre un trentennio, il post punk sembra saldarsi con ancestrali inflessioni folk e con una nevrotica, balbettante teatralità, alla quale contribuisce anche il continuo gesticolare delle mani. A Bologna la cantante ha interagito in perfetta sintonia con la chitarra elettrica e l'elettronica gestite da Westerhus. Incredibile come le bordate laceranti di quest'ultimo non abbiano mai sovrastato e disturbato le melodie e le declamazioni della partner, ma si siano inserite fra di esse come un commento dialettico.

Nella serata dedicata a Gianni Gebbia, dopo la proiezione dell'onirico cortometraggio Three Ghosts from Edo, girato in un giorno del dicembre 2011 nel centro storico di Tokyo, si è assistito a un solo del sassofonista siciliano e a un solo dello statunitense Carl Stone ai computer e campionamenti, prima che i due si unissero in un duo di improvvisazione assoluta.
Nel solo, Gebbia ha riproposto al sax soprano il suo progetto Panopticon. Facendo ricorso o meno alla respirazione circolare, ha articolato la performance in varie sezioni, evocando zampogne popolaresche, reminescenze laciane, meditazioni zen, grevi sprazzi di brutalisme, arabeschi minimalisti, melodie di musica antica... Il tutto connesso da una certa leggiadria discorsiva.
Partendo dalla semplice esposizione di elementi basilari, Stone ha progressivamente complicato il suo percorso, giungendo a una matassa inestricabile di ritmi, riff e linee sonore differentemente intonate, che via via si sono prevaricate a vicenda.
Nel set conclusivo Stone ha campionato in tempo reale le frasi emesse dal sassofonista. Si è così verificata una coalizione, una combinazione dei due mondi espressivi, un'intelligente compenetrazione, ora convinta ora quasi sospettosa, dei rispettivi processi creativi e delle individuali pronunce strumentali. Come spesso capita in questo tipo d'improvvisazione, forse la durata della performance è stata un po' troppo dilatata, con tanti finali potenziali ma disattesi. Notevole il bis per la sintesi e la densità della deformazione sonora.

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Hildegard

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