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Penang Island Jazz Festival

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Bayview Beach Resort - Penang (Malesia) - 01-04.12.2011

La Malesia, patria di tigri, di una giungla tra le più antiche al mondo e, nell'immaginario italiano, anche di Sandokan, ha conosciuto negli ultimi trent'anni uno sviluppo economico fortissimo. Immersa nelle acque del Golfo del Bengala e dello stretto di Malacca a Occidente e del mar Cinese meridionale a Oriente, confina con Thailandia, Singapore e Indonesia, e rappresenta un vero e proprio melting pot culturale ed etnico: terminata la dominazione inglese, oggi la popolazione è infatti costituita in larga parte (ma non solo!) da malesi di religione musulmana (per legge), cinesi (buddisti, confuciani, taoisti o cristiani), e indiani (prevalentemente induisti).

L'appartenenza etnica e religiosa determinano una divisione sociale che, sebbene vissuta in grande armonia, risulta evidente, e netta, anche a uno sguardo superficiale. Le tradizioni musicali non fanno eccezione e fondano le loro radici in Cina e India prevalentemente, mentre il jazz ha iniziato ad affacciarsi da queste parti solo di recente, sul finire degli anni '90. Grande impulso a questa musica è stato dato a partire dal 2004, quando Paul Augustin - direttore artistico del Penang Island Jazz Festival - ha deciso di dar vita a un festival indipendente, organizzato con soli fondi privati (dell'associazione promotrice, Capricorn Connection, e di svariati sponsor privati): tutto ciò nell'isola di Penang, patria gastronomica e autentica perla della Malesia storica, dichiarata nel 2008 Patrimonio dell'Umanità dall'Unesco.

Il festival ha dovuto inventarsi un pubblico che non c'era e, nel corso degli anni - grazie agli sforzi compiuti dagli organizzatori per instaurare scambi interculturali con altri paesi dell'estremo Oriente dalla tradizione jazzistica più sviluppata (come l'Indonesia, il Giappone o Hong Kong), ma anche con altri ben più lontani geograficamente e culturalmente, come la Nuova Zelanda o l'Europa (attraverso Europe Jazz Network) - ha saputo evolversi e trasformarsi da locale a internazionale. Determinante anche il ruolo del Bayview Resort Hotel, partner fin dalla prima edizione e sede del festival che, oltre al palco principale sulla spiaggia, offre sale più intime al suo interno - utilizzate, in questa densa ottava edizione, per ospitare la personale del fotografo sloveno Žiga Koritnik), workshop, showcase, jazz panel e molti altri eventi. A dare ulteriore impulso e supporto economico alla manifestazione quest'anno c'erano anche il Ministero del Turismo e il MyCEB (Malaysia Convention & Exhibition Bureau), che - con l'intento di dare impulso all'industria turistica e di far conoscere anche in occidente questo paese - hanno reso possibile la presenza di giornalisti e organizzatori di festival da tutto il mondo.

Ma veniamo alla musica. Inizio soft la sera del primo dicembre al Tropical Spice Garden: incantevole cornice che tra spezie, scimmie e una vegetazione lussureggiante accoglie alcuni giovani artisti della scena indie locale. Territori musicali lontani dal jazz che hanno richiamato parecchio pubblico e messo in luce una scena non particolarmente vocata alla sperimentazione ma di buona qualità, in cui ha spiccato la stella nascente nazionale Liyana Fiz, vincitrice del Gold Award Winner nel 2009 come migliore voce indipendente femminile, ma anche il virtuoso chitarrista di ispirazione sudamericana Az Samad e la cantante locale Bihzhu.

Il mattino seguente la conferenza stampa inaugura ufficialmente il festival annunciando un cartellone fortemente eterogeneo tanto per area geografica quanto per background musicale dei partecipanti, mentre nel pomeriggio, nei vari spazi destinati ai concerti, a intrattenere il pubblico in attesa delle due giornate clou del festival si avvicendano formazioni locali dagli stili e generi musicali più diversi. All'interno dei due showcase "Creative Malaysia" a impressionare particolarmente è invece l'ensemble "Aseana Percussion Unit": dieci percussionisti - tanto coloriti nelle sonorità quanto negli abiti - propongono ritmi folk scanditi con percussioni di tutto il mondo (surdo brasiliani, tabla indiane, taviel, malay kompang e gendange malesi e molto altro ancora), radici indiane e cinesi fuse a sprazzi d'occidente danno vita a una performance scoppiettante, freschissima, divertente e di ottimo livello tecnico.

Il giorno seguente si apre con un jazz panel che riunisce giornalisti e organizzatori di festival di vaira provenienza (dagli USA John Kelman di All About Jazz, dall'Asia Atsuko Yashima del Tokyo Jazz Festival e Peter Lee Kai Kwan dell'Hong Kong International Jazz Festival, e dall'Europa oltre al sottoscritto anche il norvegese Jan Granlie di Jazznytt), confrontarsi su come il jazz possa essere una risorsa per l'economia, farsi strumento di solidarietà sociale e promuovere il contatto e lo scambio interculturali.

E infine "Jazz by the Beach," ossia la programmazione sul palco principale: due serate che per via di quel pubblico nuovo e tutto da inventare di cui si parlava in apertura porta sullo stesso palco musicisti quanto mai diversi. È un po' quello che accade anche in Italia e in generale in Europa quando in una stessa cornice jazz si ritrovano pop, folk, soul e blues: se però da noi le ragioni sono meramente commerciali, lì gli organizzatori si trovano invece nella necessità di "educare" un pubblico in larga parte neofita, che sembra apprezzare la musica di Shakatak al pari di quella dell'olandese Yuri Honing o del trio norvegese di Espen Eriksen.

Sabato. Serata densa con set da 50 minuti aperta quando c'è ancora luce da Fred Cheah, cantante originario di Penang ma residente in Australia e accompagnato dal trio R&B "The JazzHats," che fa da apripista al trio di Espen Eriksen, prima stella internazionale del festival. Il pianista, dopo un avvio un po' statico e difficoltoso per problemi tecnici all'impianto audio, ritrova finalmente una condizione di agio ed esprime al meglio l'estetica del suo pianismo di stampo europeo, ora più meditativo e melodico, ora più tellurico e rock, a metà fra Tord Gustavsen ed Esbjörn Svensson. Il trio, affiatato e ben calibrato, esegue buona parte dell'album You Had Me at Goodbye, pubblicato lo scorso anno per la Rune Grammofon, e alcune tracce del nuovo album in corso d'opera.

A seguire la cantante trombettista austriaca Michaela Rabitsch in duo con il chitarrista Robert Pawlik, che per l'occasione ospita il percussionista indiano Vinayak Netke. Sonorità più mainstream che stentano a decollare, nonostante le buone doti tecniche del duo in larga parte sostenute dalle texture del percussionista che fanno da fondale ai loro assoli. Attacco sorprendente della pianista coreana Jiyoung Lee, cresciuta con la "Big Bop Nouveau Band" di Maynard Ferguson: un attacco bruciante ed emozionante associato all'ottima qualità e trasparenza del suono che mettono in luce tocco e inventiva nel trainare il trio - divenuto poi quartetto con l'ingresso del sassofonista Dal Kyun Im. Composizioni originali che via via perdono però d'efficacia, esaurendo l'effetto sorpresa iniziale ma mantenendo sempre un buon livello.

Un salto brusco riporta la musica nuovamente in Europa con il sassofonista olandese Yuri Honing e il progetto "Wired Paradise". Vincitore del Grammy ("Edison") con l'album Seven, con Paul Bley, Gary Peacock e Paul Motian, manda in scena un set di segno completamente diverso, che vede il batterista Joost Lijbaart scandire il tempo in un contesto in cui è la dinamica del suono a farla da padrone - ora pianissimo, ora fortissimo e poco più. La voce del sassofono del leader duetta in lunghi rutilanti climax con il chitarrista Stef van Es che, però, sembrano non portare da nessuna parte.

Il finale è con la band inglese Shakatak che si rivela essere un'autentica star in Malesia: il pubblico va letteralmente in visibilio per una performace in perfetto stile Shakatak.

Domenica. Seconda serata aperta dal progetto acustico del chitarrista e songwriter Amir Yussof. Musicista che vive nel Borneo, vincitore dell'AIM Award (Miglior Album dell'anno) nel Regno unito nel 1996, ha eseguito composizioni originali e alcune cover per trio di chitarre e percussioni, a cui si è unito come ospite il trombettista indonesiano Rio Sidik. A seguire, per la seconda sera, il trio di Espen Eriksen, ma questa volta con la voce di Eva Bjerga Haugen e un repertorio assai diverso dedicato alla voce piena della cantante. Un bel concerto, che spazia dal Brasile alla Norvegia, passando per Parigi e New York, e mette in luce voce e tecnica della vocalista di Stavanger, raccoglie una vera standing ovation quando si cimenta con la hit malese "Jauh Jauh".

Si prosegue poi con la stella del jazz internazionale più affermata del festival, il chitarrista svedese Ulf Wakenius, che per la prima volta si esibisce con il figlio Eric, anche lui alla chitarra. Set di grande virtuosismo in cui il chitarrista, cresciuto alla corte di Oscar Peterson, mostra doti tecniche più che mai ragguardevoli, con il figlio assai meno smaliziato e padrone, ma tutt'altro che impacciato. Una bella performance in cui i due hanno eseguito composizioni originali, la splendida "My Song" di Keith Jarrett già eseguita su disco Notes from the Heart (Plays the Music of Keith Jarrett) del 2006 e una lunga dedica a Pat Metheny.

Cambio di direzione repentino col trio del pianista svizzero Stefan Rusconi: composizioni originali e cover dei Sonic Youth di grande energia ma nel solco di Bad Plus, Medeski Martin & Wood e molti altri ancora. Spiazzante l'attacco del trombettista indonesiano Rio Sidik, che mentre la band è sul palco si avventura in un solo di tromba potente e melodico a passeggio tra il pubblico. Giovanissimo, è già un'autentica stella in Oriente ma, sorta di Herb Alpert asiatico e affiancato da una band che sembra non conoscere il dialogo, manda in scena uno show che diverte il pubblico tuttavia non soddisfacendo sotto il profilo qualitativo. Chiusura, di serata e di festival, con la ruvida Nina Van Horn.

Concludendo, un festival che deve fare i conti con una tradizione ancora molto recente e un pubblico nuovo ma che in otto edizioni ha saputo osare e spostare progressivamente l'attenzione della programmazione dai gruppi folk locali a un jazz contemporaneo e internazionale di ricerca, caratterizzato da buona qualità, senza per questo dover ricorrere a stelle di primissimo piano. Quest'ottava edizione ha riscosso un ottimo successo di pubblico e ha visto più di mille paganti a sera nelle due serate clou e altrettanti circa nei concerti collaterali che si sono tenuti in alcuni hotel limitrofi, un pubblico costituito per lo più da giovani che, nonostante l'eterogeneità e la durata del programma, ha accolto e seguito con calore e fino alla fine tutti gli artisti.

Foto di Luca Vitali

Ulteriori foto di questo festival sono disponibili nella galleria immagini


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