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Paolo Fresu, Direttore Di Time In Jazz

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Berchidda, nella Sardegna settentrionale, non sarebbe un paese così noto se non vi fosse nato Paolo Fresu, che da trent'anni vi organizza il festival Time in Jazz. La manifestazione si svolge in pieno agosto, concludendosi il giorno di Ferragosto in un clima di festa. Le scelte artistiche non sono soggette ad ambiti stilistici particolari, tendendo piuttosto a soddisfare di anno in anno le esigenze di un tema specifico, più o meno impegnato e stimolante. In ogni caso l'occhio è sempre attento alle realtà, anche non strettamente jazzistiche, che esprimono le problematiche dell'attualità internazionale. Un'ulteriore prerogativa del festival è quella di estendersi sul vasto territorio di più comuni, dove si svolgono i concerti diurni gratuiti, ambientati non solo in località naturalistiche o storiche di grande rilevanza, ma anche in strutture anomale: in passato l'aeroporto di Olbia, la stazione di Berchidda, il parco eolico di Tula... Questi e altri temi relativi a Time in Jazz, compreso il delicato aspetto finanziario, sono stati affrontati nell'intervista che Paolo Fresu ci ha gentilmente concesso.

All About Jazz: Time in Jazz compie trent'anni. Nel tempo è cambiato qualcosa nei criteri e obiettivi delle tue scelte artistiche?

Paolo Fresu: Le mie scelte artistiche sono sempre dipese dai miei viaggi, nonché dagli incontri e dagli ascolti. Essendo cambiato io, in questi trent'anni, sono ovviamente cambiate anche le scelte ma non è invece cambiato il pensiero costruttivo del festival. Molte novità si sono aggiunte negli anni, ma l'idea del contenitore è rimasta sempre uguale. Credo che, alla fine, il tema che domina e suggerisce il percorso di ogni edizione sia l'elemento che da sempre ci ha guidato nel viaggio artistico.

AAJ: Mi sembra che negli anni il festival abbia proposto protagonisti americani ed europei con un certo equilibrio, aggiungendo poi esponenti di altre culture. È così?

PF: Assolutamente è così. Detto questo però, va precisato che non ci siamo mai posti il problema delle geografie e del fatto che ci siano molti italiani o europei o americani. Questo presupposto determina rigorosamente il tema guida, le scelte e ogni artista invitato. Dico sempre che Time in Jazz è una partitura da comporre di anno in anno su un ipotetico pentagramma, che non è fatto di note ma di artisti e progetti funzionali alla scrittura del programma. Se nella composizione della partitura creativa serve un artista che abita in Lapponia semplicemente lo portiamo...

AAJ: Ma, soprattutto nelle ultime edizioni, c'è anche l'attenzione per i giovani gruppi italiani.

PF: Devo dire che, rileggendo i programmi di questi lunghi trent'anni, c'è sempre stata attenzione verso le proposte sia regionali che nazionali. È stato anche più volte scritto nelle note introduttive dei programmi e Time in Jazz, fin dai primi anni, si è posto il problema di aggregare i giovani svolgendo anche un ruolo politico all'interno della comunità jazzistica. Credo che un altro ruolo importante sia stato quello del produrre progetti originali capaci di mettere in relazione i musicisti creando un ponte ideale tra la Sardegna, l'Italia e il mondo.

AAJ: Il festival ha una diffusione territoriale; tante le sedi dei concerti e non solo di emergenza storica o naturalistica. Da cosa è determinata di volta in volta la scelta delle location?

PF: È determinata dalla necessità d'indagare nelle risorse del territorio. I concerti sparsi ovunque sono stati un'intuizione della fine degli anni Ottanta vista la presenza nell'agro di Berchidda di diverse chiese campestri. Dall'interno delle chiese siamo passati presto all'esterno per via del numeroso pubblico e dalle chiese siamo passati poi alle Basiliche e ai luoghi immersi nella natura e non solo. Sì è scoperto così l'enorme potenziale di questi spazi, capaci di mettere insieme la qualità della musica con l'atmosfera e l'ambiente. È indubbio che i concerti immersi nella natura siano i momenti migliori del festival. Gli stessi artisti riconoscono in quei luoghi un'energia speciale che poi va resa al pubblico.

AAJ: C'è poi la tradizionale festa finale di Ferragosto: a mezzogiorno presso la chiesa campestre di Santa Caterina e di sera in Piazza del Popolo. Come è articolata questa giornata?

PF: La giornata del 15 agosto ha il suo culmine in due momenti molto importanti e significativi per noi e per la nostra comunità. Il pranzo tipico berchiddese attorno alla chiesa di Santu Migali o Santa Caderina rappresenta la condivisione e mette in relazione il numeroso pubblico con la parte sacra e profana che convivono nella comunità berchiddese. Il concerto serale, che si conclude con una grande festa finale, rappresenta invece il bisogno di fare della musica anche un momento festoso, che a Berchidda è di casa in quanto sia la Banda musicale che i complessi ne sono tradizionalmente l'anima.
Il nostro è un festival che fa del volontariato la sua forza. Per questo la festa finale vuole essere anche l'occasione in cui tutti quelli che partecipano alla costruzione del festival diventano per una notte protagonisti assoluti. Per molti anni centinaia di ragazzi salivano sul palco durante l'ultimo concerto; a significare la necessità di condividere con gli artisti il momento creativo e festoso. Nella stessa circostanza io stesso salgo sul palco come presentatore per declamare i nomi delle centinaia e centinaia di persone che hanno lavorato e che hanno contribuito al successo di Time in Jazz.

AAJ: Da molti anni il festival ha anche un'attenzione per le tematiche ecologiche e ambientali.

PF: Non potrebbe essere diversamente e credo che ogni festival o rassegna debba avere questa responsabilità soprattutto se opera in territori come il nostro. Portando migliaia di persone in luoghi incontaminati non potevamo non preoccuparci dell'impatto ambientale. Successivamente, i cinque anni in cui abbiamo sviscerato i temi degli Elementi ci hanno dato l'opportunità di approfondire varie tematiche e di rendere Time in Jazz uno dei pochi festival "green" del nostro paese.

AAJ: Hai un'idea della composizione del pubblico del festival? Quale il rapporto fra berchiddesi, sardi e turisti, fra appassionati di jazz e spettatori occasionali?

PF: Il pubblico è molto cambiato nell'arco degli anni. Per molto tempo abbiamo avuto un esercito di giovani e ragazzi che venivano a Berchidda per incontrarsi. Una piccola Woodstock sarda. Questa tipologia di pubblico ha poi migrato altrove, lasciando il posto ai forse più veri appassionati e a tanti che, pur non gradi conoscitori del jazz, si pongono con curiosità nei confronti di questa musica.
Devo dire però che è un festival costruito in modo da dare l'opportunità a tanti di scoprire le cose usando la musica come strumento di esplorazione. Quello che noi vogliamo è che la gente venga non solo e non tanto per ascoltare un nome particolarmente noto sul palco centrale, ma a vivere l'esperienza del festival come un viaggio a trecentosessanta gradi. Il buon successo di Time in Jazz si basa molto anche sul rapporto tra pubblico e paesani. Per questo sono convinto che lo stesso festival, fatto in un altro paese, non avrebbe ragione di essere.

AAJ: Negli anni come è cambiato il contributo finanziario di enti/istituzioni pubbliche e di sponsor privati?

PF: Nonostante il festival sia cresciuto esponenzialmente negli anni i finanziamenti sono diminuiti gradualmente. Ovviamente abbiamo cercato di guardarci intorno e di rivolgerci anche all'Europa, ma da parte degli Enti territoriali abbiamo subìto tagli enormi. Gli sponsor privati sono pochissimi. Molte le collaborazioni e gli scambi virtuosi, ma purtroppo pochi denari utili a supportare la manifestazione e a dargli stabilità. La riorganizzazione del FUS, con proiezioni triennali, sta dando buoni risultati, ma rappresenta un piccolo aiuto nonostante questo contributo sia cresciuto. Da qualche anno proviamo a rivolgerci al continente con qualche buon risultato; infatti cerchiamo non solo di recuperare energie economiche, ma di tessere tele collaborative che possano dare sinergie nuove.

AAJ: Il festival è organizzato dall'Associazione culturale Time in Jazz; l'Associazione organizza anche altre rassegne o concerti isolati nel corso dell'anno?

PF: L'Associazione svolge diverse attività che esulano dal festival estivo ma che con lo stesso sono legate. Non dimentichiamo infatti che tutto è nato grazie al festival e questo è dunque il volano per il resto. Oltre a diverse rassegne più piccole che organizziamo durante l'anno (principalmente in occasione delle festività natalizie e pasquali, più un'iniziativa in giugno dal titolo "La prima rondine"), gestiamo ora uno spazio polivalente di oltre tremila metri quadri, destinato a un laboratorio/studios di produzione creativa. Il Laber era infatti l'ex cooperativa del latte che, fallita negli anni duemila, è stata da noi rilevata: non vi si produce più formaggio ma cultura! Una metafora importante e interessante di riconversione degli spazi.

AAJ: Come riesci a conciliare il tuo ruolo di direttore artistico del festival con la tua frenetica attività di musicista?

PF: Riesco perché posso contare su un gruppo di lavoro professionale e motivato. Da solo non ce la farei perché il festival è cresciuto molto. Io detto le linee generali, scrivo il programma e curo i rapporti esterni, ma sempre contando sulle professionalità locali. Di fatto la frenetica attività dei miei concerti lascia anche spazio e tempo, soprattutto durante i lunghi viaggi, per pensare e progettare.

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