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Paolo Fresu: con di Bonaventura su ECM

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Gli americani Ralph Towner e Uri Caine, il cubano Omar Sosa, il tunisino Dhafer Youssef, gli italiani Antonello Salis, Furio Di Castri, Gavino Murgia, Gianluca Petrella, perfino l'organista classico Claudio Astronio e il danzatore Giorgio Rossi... La lista dei nomi con cui Paolo Fresu intreccia duetti con maggiore o minore frequenza (e chissà quanti ne ho dimenticati) diventa col tempo sempre più lunga. Evidentemente la dimensione del duo gli è congeniale, comportando l'esigenza di trovare di volta in volta sintonie e tensioni dialettiche, temi comuni su cui dialogare e rischiare in tempo reale.
Ogni incontro offre all'ascoltatore situazioni estremamente diversificate e coinvolgenti. Innanzi tutto per le peculiarità prettamente musicali che caratterizzano questa formazione, la sonorità e il fraseggio, oltre ai diversi repertori affrontati. Ma, soprattutto, per quel tipo di confronto, di tensione, di rapporto più o meno equilibrato o imponderabile che anima sempre ogni esibizione concertistica ancor più dell'incisione discografica, che rappresenta comunque una cristallizzazione, una definizione di un rapporto musicale cercato e ormai collaudato.

Il sodalizio fra il trombettista sardo e il banboneonista Daniele di Bonaventura, ormai consolidato e ascoltato in concerto numerose volte in Italia (lo abbiamo recensito in occasione dell'ultimo Umbria Jazz Winter), viene ora documentato da una prestigiosa produzione discografica: In maggiore, edito dalla ECM e distribuito in Italia dalla Ducale. Nell'intervista che segue, abbiamo avuto modo di approfondire con Fresu la genesi del disco, le intenzioni musicali che stanno alla base del rapporto con di Bonaventura e più in generale le dinamiche e gli equilibri che guidano un confronto in duo.

All About Jazz: Dove e quando è stato registrato In maggiore? Come hai trovato le condizioni ambientali e organizzative della seduta d'incisione?
Paolo Fresu: Il CD è stato registrato nel mese di maggio scorso negli studi della Radio di Lugano da Stefano Amerio, con il quale collaboro per molte altre cose (tra cui anche i progetti della Tuk Music) nel suo studio di Cavalicco alle porte di Udine. L'idea di Manfred Eicher, fin dall'origine, era quella di una registrazione molto sobria e completamente acustica, lavorando solo sui suoni naturali di tromba, flicorno e bandoneon. Questa è stata la cifra di partenza dell'intero lavoro discografico.

AAJ: Alcuni sostengono che nelle incisioni ECM ci sia sempre un condizionamento, più o meno rilevante, da parte di Manfred Eicher. Per altri si tratta di un valido aiuto tecnico. Altri ancora assicurano di aver goduto della più ampia libertà. Nella vostra esperienza che tipo di intervento ha esercitato il produttore?
P.F.: C'è da dire che Eicher è uno degli ultimi veri produttori rimasti. Almeno nel jazz. Per lui è impensabile non partecipare alla seduta di registrazione; dunque è normale non solo che dia dei consigli, ma anche che porti un po' la musica verso la sua idea, intesa non soltanto come l'impronta sonora che l'ha resa celebre.
Inoltre lavora moltissimo prima della registrazione alla presa del suono e alla sua spazialità, partendo dall'assunto che l'essenza della musica stia prima di tutto nel suono. Mi sembra questo un concetto molto importante che mi trova d'accordo. Se avessimo fatto un CD con l'utilizzo delle strumentazioni elettroniche, come ad esempio facciamo solitamente in concerto, la musica e il repertorio avrebbero assunto un significato diverso e l'inter disco sarebbe risultato diverso.
Tutto questo è ben raccontato in "Figure musicali in fuga," il bel film che uscirà nelle sale contemporaneamente al CD nel mese di marzo e che verrà presentato a Parigi al Centre Pompidou. Con la regia di Fabrizio Ferraro esso racconta non solo la seduta di registrazione, ma, attraverso un'ulteriore narrazione, tutto il percorso preparatorio tra Fermo (città di Daniele) e Parigi.

AAJ: Come avete concepito il repertorio?
P.F.: Ognuno di noi ha scritto delle cose appositamente, ma abbiamo poi inserito diversi materiali che già utilizziamo nei numerosi concerti che teniamo. Il mio brano "In maggiore," scritto e pensato appunto per il CD, è diventato il titolo dell'album.

AAJ: La collaborazione fra te e Daniele è ormai consolidata (eravate assieme anche in Mistico Mediterraneo con il coro corso A Filetta, sempre per l'etichetta tedesca). Quando e come avete avviato il duo?
P.F.: Può sembrare incredibile ma io e Daniele abbiamo iniziato a collaborare proprio grazie all'invito fattoci da A Filetta una decina di anni fa e l'incontro è avvenuto in Corsica... Sì, ci conoscevamo già ma non avevamo fatto praticamente quasi niente assieme. Lavorando con A Filetta nel progetto di Mistico Mediterraneo ci siamo ritagliati un paio di brani in duo. Da lì è nata l'idea di fare dei concerti con questa formazione scarna, ampliando il suono con una serie di effetti sia sulla tromba che sul bandoneon, anche se l'anima acustica è alla base del nostro incontro.

AAJ: Attraverso il repertorio e la vostra interpretazione, che messaggio cercate di far emergere in evidenza?
P.F.: Ciò che emerge secondo me è una passione per la musica a 360 gradi: una sorta di viaggio che, partendo dal Sudamerica (..."ma non suoniamo il tango," come dico sempre scherzosamente durante i nostri concerti!), va in giro per il mondo tra Bach, Puccini, la canzone italiana, il Brasile e le nostre composizioni. Fra queste, un mio brano scritto per l'ultimo film di Ermanno Olmi sulla Grande Guerra. Inoltre siamo particolarmente legati al famoso "Te recuerdo Amanda" di Victor Jara: lo abbiamo eseguito proprio in Cile un paio di anni fa davanti a seimila persone che, dopo le prime note della melodia, si sono tutte alzate in piedi...
Il viaggio che intraprendiamo è simile a quello del bandoneon, che (forse pochi lo sanno) nasce in Germania come organo portatile per le piccole chiese di campagna, per poi approdare in Argentina diventando, per così dire, lo strumento della perdizione.

AAJ: Sono ormai molti i musicisti che hai incontrato in duo. Mi pare che ogni volta si tratti sostanzialmente di affrontare con disponibilità e creatività un confronto/incontro fra diverse culture.
P.F.: È esattamente così. Quando si è in due non ci sono scuse: o funziona o non funziona. E non c'è nessuno che può dire "scusa vado in camerino a prendere aria." È un dialogo serrato che si mantiene vivo grazie alle parole di ognuno, una sorta di pallina da ping-pong che ci si passa sempre evitando di farla cadere per terra. Il duo è una bella lezione di vita e inoltre una lezione di silenzio misurato che porta al suono, in quanto non intervengono i suoni degli altri strumenti che mangiano le frequenze. Si è completamente a nudo e questo è l'aspetto interessante, costituendo una bella sfida.

AAJ: Come definiresti il polo culturale rappresentato da te, partito da una genuina e antica matrice sarda, che conservi, per poi cogliere vari stimoli dal mondo intero e proiettarti operativamente in varie direzioni?
P.F.: Una volta avevo una risposta precisa a questa domanda. Più si va avanti nel tempo e più credo che questa risposta debba divenire evasiva. La musica circola e si muove: se una volta il punto di partenza era chiaro e definito, questo diventa sempre più lontano quando si viaggia tanto. Pur volendo ritornare un giorno al punto di partenza... ovviamente diversi.
In poche parole credo che la Sardegna mi abbia offerto l'opportunità di vivere una differenza da condividere. E non solo quella musicale. Oggi questo divario è totalmente metabolizzato; forse risulterebbe sbagliato continuare a sentirsi diversi se si è passata una vita a condividere questa diversità ormai assorbita dalla pelle. Ovvio che su questo argomento, che meriterebbe più tempo, la mia è una risposta epidermica...

AAJ: Nella maggior parte delle collaborazioni sopra ricordate c'è comunque un'improvvisazione di matrice jazzistica come elemento unificante, come denominatore comune. Secondo la tua esperienza ci sono stati di volta in volta altri aspetti, anche extramusicali, che hanno alimentato e permesso il dialogo?
P.F.: Assolutamente sì. Il jazz è il linguaggio predominante, ma credo sia sbagliato pensarlo come unico attore. Oggi la musica si muove e va lontano; solamente alimentandosi attraverso l'altro e il nuovo è possibile andare avanti. Altrimenti si fanno solo operazioni di lifting. È ovvio che non sempre ci si riesce, ma questa è un'altra storia.
Del resto il messaggio storico del jazz è proprio questo: l'apertura totale! Non dimentichiamo che i grandi del passato, da Miles a Mingus passando per Coltrane, hanno sentito il bisogno, soprattutto verso la fine della loro carriera, di cercare altrove. E non solo nella musica ma negli altri linguaggi dell'arte, nel mistico, nel religioso, nel sociale...
Mi fanno sorridere quelli che credono che il jazz sia morto con Coltrane. Noi proviamo a prendere un sacco di medicine... non si sa mai che si debba dare ragione a Zappa quando diceva che "il jazz non è morto ma ha un odore curioso...." È l'aforisma che ho voluto usare nel CD della Brass Bang! pubblicato nel novembre scorso per la Tuk Music.

AAJ: Quanto t'interesserebbe misurarti in duo con esponenti di formazione totalmente diversa dalla tua, per esempio protagonisti del Pop, o della musica elettronica più impegnata, o del canto etnico più autentico?
P.F.: Mi interessa sì, ma dipende sempre da chi e come. Non sono per le cose da fare per forza, ma per le cose da fare se si accende una scintilla. Soprattutto in un duo è fondamentale che ci sia non solo la voglia ma la disposizione all'incontro e questa non può nascere a tavolino. Nessuno dei miei progetti è nato a tavolino. Anzi uno sì: la Brass Bang!, dove il tavolino era il tavolo di un ristorante tra una Wienerschnitzel e una pinta di birra.

AAJ: Ci sono duetti che avresti voluto sperimentare, ma che per varie ragioni non hanno mai avuto modo di realizzarsi? Ed altri che speri/prevedi che si possano praticare nel futuro?
P.F.: Boh!...

Foto
Roberto Cifarelli

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