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Open Jazz Festival 2015

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Teatro Giacosa, Sala S. Marta e Spazio Bianco
Ivrea
19-21.03.2015

Dopo tanti anni di decentramento, e dopo la non indolore decurtazione della sua costola autunnale, l'Open Jazz Festival si è ripresentato al via in quest'inizio di primavera 2015 concentrando l'intero programma su Ivrea. Alla base di tutto c'è ovviamente una crisi che non sta di sicuro risparmiando (semmai il contrario) quelle rassegne che, a fronte di una storia largamente consolidata (nello specifico ultratrentennale), non pretendono certo budget faraonici. L'inghippo è noto: meno soldi ci sono e più si punta sui cavalli (presunti) sicuri. Che naturalmente costano di più, ma portano anche la tanto agognata (da sponsor pubblici e non) "visibilità."

Quella stessa visibilità che, essendo di pura facciata (e proprio in quanto tale così plebiscitariamente—appunto—agognata), l'OJF 2015 ha inteso negare, programmaticamente, centrando il cartellone—e una tavola rotonda specifica, che prendeva le mosse da Uomo invisibile di Ralph Ellison per andare decisamente oltre—sul concetto di invisibilità nel contemporaneo.

Si è partiti giovedì 19 marzo in Santa Marta con tre coreografie cucite addosso ad altrettanti episodi del recente CD (per sola marimba) Simone de Beauvoir di Massimo Barbiero, punta dell'iceberg organizzativo del festival (col Music Center), per proseguire col coro tutto al femminile (come le succitate coreografie, per ideazione e realizzazione: non a caso il titolo della serata, di contiana memoria, era Le donne odiavano il jazz, non si capisce il motivo) Les Voix Qui Dansent, due delle cui esponenti, Lisa Gino e Simonetta Valenti, hanno dato vita ai prologhi (recitati) delle due successive serate al Giacosa, tratti rispettivamente da I vestiti nuovi dell'imperatore di Andersen ed Enrico IV di Pirandello.

Dopo la presentazione pomeridiana del libro di Guido Michelone George Gershwin e il jazz contemporaneo (Educatt) e, a seguire, un breve set del duo Nuit Française, vincitore del concorso bandito dal Barolo Jazz Club, con cui il festival eporediese era quest'anno di fatto gemellato (il pomeriggio seguente, dopo il Duo Artemisia allo Spazio Bianco e il convegno, si è in effetti esibito il secondo classificato Quartetto Pagliacci), la serata di venerdì 20 è stata illuminata da una brillantissima nuova performance di Odwalla, nella cui economia il quartetto vocale, ora diretto da Marta Raviglia (che si è prodotta anche, in avvio, con le già citate Voix Qui Dansent), assume un rilievo ancora maggiore, nonché un'interazione con l'elemento-danza molto più stretto.

Quattro erano anche i danzatori, appunto, con la costola africana ridotta a due unità, Sellou Sordet e Gérard Diby, e poi Giulia Ceolin, autrice delle coreografie, e la notevole danzatrice-improvvisatrice di flamenco Karen Lugo, messicana come Israel Varela, che appare oggi integrato magistralmente con l'estetica odwalliana, sulla base di un'attenzione certosina alle dinamiche (alle sonorità, al canto) della sua batteria, e che con lei ha dialogato in uno dei momenti più alti della serata (i due hanno anche tenuto un seminario la mattina seguente in Santa Marta). Le composizioni proposte sono sempre più o meno le stesse (del resto splendide), ma sono le dinamiche e gli equilibri interni allo spettacolo a variare di volta in volta, e in questo caso specifico più che mai.

La sera dopo, sempre al Giacosa, doppio concerto. Ha aperto il duo tutto chitarristico formato da Maurizio Brunod (altra anima del festival) e Garrison Fewell, tutto giocato sull'improvvisazione senza rete, con l'americano decisamente più spinto verso il rumorismo e i suoni desueti (campanelli, bacchette, un arco, e altro ancora, sono stati messi di volta in volta a decantare accanto, in mezzo e intorno alle corde) e l'italiano a contraccambiare con mai dimenticati scampoli rock, microcellule melodiche, loops, pedali, e chi più ne ha più ne metta.

Dopo tanta concettosità (peraltro molto appagante), ha chiuso il quartetto di Rosario Bonaccorso, che, forte di Fabrizio Bosso alla tromba, Javier Girotto, sax soprano e flauto andino, e Natalio Mangalavite, pianoforte, ha offerto un set di tutt'altro registro, largamente accattivante, melodicamente fluente, a volte persino un po' leggerino (due canzoni con testo in italiano dello stesso Bonaccorso, che le ha ovviamente cantate, hanno mostrato una volta di più quanto poco si addica—almeno di regola—la scrittura in canzone per la gente di jazz), ma suonato con indiscutibile perizia, ragguardevole interplay e un gustoso intercalare latineggiante.

Un altro paio di seminari (Fewell e Diby) ha alimentato anche la giornata di domenica. Ma noi avevamo già ripreso la via di casa. Ovviamente con tutta l'intenzione di tornare ancora per anni e anni in quel di Ivrea. Perché questo piccolo miracolo, come tanti altri che per fortuna ancora (r)esistono in giro per lo stivale, deve riprodursi e riprodursi ancora.

Foto
Alberto Bazzurro

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