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Nel Bengodi di pelli e metalli (Odwalla e dintorni)

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Il testo che segue costituisce il saggio introduttivo del volume, prevalentemente fotografico (immagini di Luca D'Agostino), cui si fa più volte cenno nello stesso. Tale volume è piuttosto recente (inizio 2009), ma alcune delle annotazioni fatte lungo le righe che seguono (specificatamente riguardo alla/e formazione/i di Odwalla) sono divenute nel frattempo qua e là superate dagli eventi. Il testo, che viene pubblicato per gentile concessione dell'autore e di Massimo Barbiero, per contro conserva integralmente la sua forma originaria.

Odwalla 1: termine africano, di forte connotazione esoterico-ancestrale, che sta a indicare il luogo in cui si va dopo la morte, l'oltretomba, in pratica il corrispettivo dell'Ade greco-romano che la "Commedia" dantesca mutua da Virgilio e, per suo tramite, da Omero, nonché dell'Eden cristiano. Odwalla 2: brano composto da Roscoe Mitchell per l'Art Ensemble of Chicago, che lo incide una prima volta nel settembre '72, per l'album Bap- Tizum (Atlantic), e lo erge poi a suo autentico brano-totem, immancabile suggello di ogni sua live performance. Odwalla 3: nome scelto da Massimo Barbiero, su questa duplice suggestione, per il gruppo di sole percussioni fondato nel 1989. Odwalla 4: volume, in prevalenza fotografico, pubblicato nel 2009 per celebrare i vent'anni di attività del gruppo succitato. Cosa sono vent'anni in confronto ai millenni che una parola tanto "pesante" si porta appresso? Ben poca cosa, va da sé. Ma cosa rappresentano nel panorama jazzistico (per quanto, come vedremo, tale appartenenza calzi solo in parte per Odwalla) nazionale, in termini di longevità di una formazione? Parecchio, è altrettanto evidente.

La storia di Odwalla recita di sei CD, di cui l'ultimo, Live at Musica sulle Bocche (2007), con DVD annesso, e appena prima (2006) un DVD sic et simpliciter, Panta Rei, che del gruppo rappresenta il primo veicolo—a quel punto ineludibile—per trasmettere al fruitore anche quella componente visivo-mimico-gestuale di cui l'ormai consolidato abbinamento con la danza non costituisce che la cartina al tornasole più evidente: c'è immagine, e movimento, e, quindi, ritualismo mimico- gestuale, in tutto ciò che Odwalla produce in scena. Con o senza danza.

La partenza, discograficamente parlando, risale al febbraio 1990, una manciata di mesi dopo la costituzione del gruppo. Chi scrive, accogliendo con curiosità e interesse quello che appariva come uno dei rarissimi pendant al formidabile M'Boom Re: Percussion di Max Roach (su cui torneremo), commentava così il disco, Schiuma d'onda: "Formula sempre insidiosa, quella di un ensemble di sole percussioni, che tuttavia Odwalla conduce in porto con mano felice, grande attenzione alle architetture interne, eleganza e rigore". Questa veloce nota, datata febbraio '91, avrebbe avuto di lì a un annetto un seguito nell'ambito del programma radiofonico "Troppe cravatte sbagliate," dedicato, presso la sede RAI di Torino, a qualcosa che il sottotitolo illustra eloquentemente: "Piemontesi—veri, falsi, d'adozione—sulla scena del jazz contemporaneo". Odwalla compariva in una puntata divisa fra i due gruppi di Massimo Barbiero (l'altro, com'è noto, era—ed è—Enten Eller), in particolare con la messa in onda di quello che al sottoscritto appariva il brano più rappresentativo di quel primo lavoro (il secondo, Prima che il gallo canti, era del resto ormai in rampa di lancio), "Ragno rosso". Sarebbero seguiti numerosi altri scritti, qualche nota di copertina, un invito (2005) alla rassegna "Jazz fuori Tema," in quel di Tortona, altre collaborazioni con Massimo. Insomma: una strada percorsa almeno in una sua parte infinitesimale gomito a gomito. Detto ciò, passiamo dal particolare, dal personale, al generale, spendendo per esempio qualche riga sui più o meno congrui e consapevoli punti di riferimento di un gruppo che non ha eguali nel panorama jazzistico (e ridagli...) nazionale. In tal senso Odwalla, nell'attenzione posta all'universo percussivo nella sua interezza (non solo nella pura, e di fatto semplicistica, accezione ritmica, quindi), si rifà tanto a modelli afroamericani quanto occidentali (nel senso di "colti"), quanto popolari, o etnici che dir si voglia. Orientali, soprattutto. Quindi nel suo retaggio convive l'Africa della tribalità ancestrale (oggi due dei suoi membri sono senegalesi, e soprattutto dal vivo tale elemento ha il suo peso) così come quella che ha dato origine al jazz, l'America del jazz, appunto, come quella di tradizione occidentale, naturalmente l'Europa, e altrettanto naturalmente l'Asia.

Procedendo in ordine cronologico—e in tal senso tralasciando, almeno per il momento, la certo ben più remota matrice etnico-folklorica—non possiamo che partire dall'Europa. L'universo classico, di fatto, ha sempre teso a relegare in un angolo gli strumenti a percussione. E' negli occhi e nelle orecchie di tutti lo strano effetto di tante esecuzioni sinfoniche col colpo di gong, o di piatti, o di grancassa, al momento giusto (e come tale assolutamente raro, va da sé), o la quasi comica presenza del fatidico triangolo. C'è voluto il Novecento per emancipare l'universo percussivo dal suo ghetto. E il capostipite, in tal senso, è senza dubbio Edgard Varèse, compositore anticonformista e iconoclasta come pochi (guarda caso...), parigino di nascita e newyorchese d'adozione (dal 1915, poco più che trentenne, e fino alla morte, nel 1965), che proprio negli States, nel 1923, compone "Hyperprism," pagina seminale per la scrittura accademica (accademica?) per strumenti a percussione (in questo caso con piccola orchestra, come anche "Integrales," di due anni posteriore). Ma il capolavoro arriva nel 1931, ed è "Ionisation," per sole percussioni (oltre quaranta, per tredici esecutori), che, fra i vari meriti, avrà intorno al 1955 quello di "illuminare" un adolescente Frank Zappa, all'epoca a sua volta batterista-percussionista nonché autore con velleità contemporaneo-colte (peraltro mantenute anche in seguito), ispirandogli la sua prima composizione, "Mice," ovviamente per sole percussioni. In seguito (e comunque prima della nascita delle Mothers of Invention e del definitivo passaggio alla chitarra) Zappa, affiancato l'ascolto di Varèse con quello di svariata musica etnica (araba, bulgara, ecc.), nonché della musica concreta varata da Pierre Schaeffer a partire dal 1948, si produrrà in altre pagine (spesso istantanee) di analogo tenore, utilizzando spesso oggetti "poveri" (ciò che del resto faceva già da bambino), in particolare un paio di biciclette, in compagnia delle quali ha l'impudenza di presentarsi allo Steve Allen Show, programma TV fra i più popolari del tempo, dove, interagendo con alcuni nastri registrati (da lui, ovviamente) che si è portato appresso, dà di piglio a raggi, pedali, manubrio, camere d'aria e quant'altro, per quella che battezza ciclo fonia. Un altro grande iconoclasta—anzi, verrebbe da dire l'iconoclasta per eccellenza—come John Cage, ha del resto già da tempo raccolto l'eredità varèsiana: fin dal 1939, ventisettenne, ha fondato un'orchestra di sole percussioni, per la quale scrive la celebre "First Construction (in Metal)," altra imprescindibile icona della letteratura di settore, dove a sua volta utilizza fra l'altro dei cerchioni d'automobile. Fra il 1940 e il '43 nascono quindi le sue pagine più note rivolte al "percuotere" (ovviamente nel senso più ampio del termine: "Second & Third Constructions," "Dance Music," "Credo in Us," "She's Asleep"), dopo di che il singolare prurito recupera più o meno uno stadio di latenza. Il danno, sia quel che sia, è ormai fatto: le pagine cageane rimangono, con quelle di Varèse, modelli imprescindibili per chiunque voglia operare nel ramo. Fra quanti lo fanno, citiamo almeno Iannis Xenakis ("Perséphassa," 1969; "Psappha," 1975; "Okho," 1979) e Steve Reich (la composita "Drumming," del 1970/71, più alcune composizioni per marimbe).

Tutta un'altra storia è quella che lega il percuotere (in questo caso, per lungo tempo, soprattutto nella sua accezione prevalentemente ritmica) al jazz. Se però parliamo di attenzione unidirezionale, basteranno due nomi su tutti: Art Blakey e Max Roach. Se Roach è il primo a dedicare un intero brano alla sola batteria (la celebre "Drum Conversation," del '53, anche se il capolavoro sarà indiscutibilmente, nel 1966, l'album Drums Unlimited), relativamente agli ensemble percussivi il discorso procede più o meno parallelo, a partire dal 1957. Blakey, in questo senso, arriva per primo; Roach più lontano. Il primo, nel marzo '57, incide col Percussion Ensemble (fino a otto, fra batteristi e polipercussionisti) Orgy in Rhythm, doppiato nel novembre '58 da Holiday for Skins. Contemporaneamente aggiunge percussioni ai suoi Jazz Messengers (Drums Around the Corner) e nel '62, in The African Beat, dirige un ulteriore Afro-Drum Ensemble. Tutti questi lavori, peraltro, prevedono una pur abbondante, forse persino elefantiaca, appendice percussiva a gruppi in cui sopravvive la classica gerarchia fiato/piano/basso. Blakey vi guarda soprattutto all'Africa, non disdegnandone la propaggine latino-americana. Roach, per contro, è da subito più radicale e, insieme, multidirezionale: nell'agosto '58 si unisce al Boston Percussion Ensemble (con tanto di corno francese e soprano, peraltro), muovendosi in un ambito decisamente più contemporaneo-colto. E' però quindici anni dopo, col citato M'Boom Re: Percussion, che compie il grande salto: un gruppo di tutti percussionisti, per lo più di spiccata personalità (Ray Mantilla, Roy Brooks, Joe Chambers, Omar Clay, Warren Smith, Freddie Waits, Fred King, fra gli altri), che coprono l'intero spettro dello scibile musicale. Non solo (o soprattutto) ritmo, ma colore, quindi timbro, e persino melodia. L'ensemble si riunisce periodicamente per tour e incisioni discografiche (in totale quattro: nel 1973, 1979, 1984 e 1991), con piccole variazioni di organico che non ne deformano la linea estetica.

E' a partire di qui che bisogna andare a cercare la linfa seminale che genera anche Odwalla. Massimo Barbiero (per gli amici Max, curiosamente, come Roach...) ha certo ben presente M'Boom quando progetta e vara la formazione. Però nessun altro, o quasi, l'ha fatto, il che ci dice quanto profonde, e anche ad ampio raggio, siano le motivazioni che lo spingono in questa direzione. Collegare l'estetica di Odwalla troppo univocamente a quella di M'Boom sarebbe infatti improprio, semplicistico e persino banale: c'è una linea personale ben definita, che collega questo agli altri progetti di Barbiero (non c'è solo lui, del resto, a determinare tale linea, anche se, essendone l'indiscusso deus ex machina, lui soprattutto, sì); ci sono, addirittura, composizioni che trasmigrano da un gruppo all'altro, acquisendo aromi ovviamente diversi, ma condividendo, inevitabilmente, la stessa spina dorsale. E c'è sicuramente, fuori da Barbiero e soci, un pregresso che è anche altro: le menzionate esperienze di matrice occidentale, per esempio (o almeno alcune di esse), e poi il bagaglio etnico-popolare cui si accennava all'inizio. Qui, certamente, non è certo elusa una tribalità di matrice prevalentemente africana, ma più ancora si avverte l'adesione alla fitta trama timbrico-cromatica—e alla seduzione ipnotica, verrebbe da dire—che ha radici soprattutto orientali. Jazz e universo orientaleggiante, jazz e percussionismo coloristico, non sono più universi separati, del resto, ormai da decenni. A partire soprattutto dagli anni Settanta, la compenetrazione è massiccia. Pensiamo solo a quello che hanno saputo dire, sempre volendo emblematizzare mondi diversi, il brasiliano Nanà Vasconcelos, o l'indiano Trilok Gurtu, o il nostro Andrea Centazzo (per esempio in Tiare, del 1985, nel monumentale Indian Tapes, triplo del 1980, o anche nel Solo de la Passion selon Sade, 1982, da Bussotti, tutti lavori in cui, peraltro, la molteplicità percussiva si rifà a un unico performer, con copiose sovraincisioni, e non disdegnando il ricorso all'elettronica). Parlando di Oriente, una realtà forte a cui un ensemble come Odwalla ci pare faccia un qualche riferimento è comunque quella del gamelan indonesiano (Bali, Giava), universo in cui la componente coloristico-melodico-ipnotico-ancestrale a cui ci si è più volte riferiti trova una delle sue massime espressioni. Ed è da ricordare come un uomo di jazz particolarmente aperto a quanto ne sta al di fuori (la musiva corsa, per esempio) come il marsigliese André Jaume lavori periodicamente, a partire dal 1995, col Gamelan Project di Sapto Raharjo (per esempio in Borobudur Suite, doppio CD Celp).

Tiriamo dunque le fila di tutto questo lungo discorso: Odwalla ha realizzato, in vent'anni di attività, sette lavori, fra CD e DVD; vi hanno preso parte complessivamente, a diverso titolo e con diversa frequenza, quattordici percussionisti (da cinque a sette per volta), più due danzatrici (Cristina Ruberto e Cristiana Celadon, ormai presenze stabili del gruppo) e qualche voce. La formazione attuale comprende, oltre a Barbiero, Alex Quagliotti e Andrea Stracuzzi, presenti da sempre, Matteo Cigna, entrato a partire da In Brixen (1998), Stefano Bertoli, Doudù Kwateh e Lamine Sow, in forza da circa quattro anni. Ognuno ha un proprio ruolo, a disegnare quell'ampia tavolozza che abbiamo sommariamente cercato di descrivere: Cigna, specialista del vibrafono, è la principale voce melodica, in ciò ideale pendant di Barbiero, in particolare quando questi dà di piglio alla marimba (che affianca a batteria, gong, steel drum e quant'altro), Bertoli rappresenta la principale àncora ritmica (nonché jazzistica), sedendo regolarmente alla batteria, in ciò coadiuvato in primo luogo da Quagliotti, mentre Stracuzzi, percussionista tutto fare, funge in qualche modo da collante fra questa coppia e quella formata da Barbiero e Cigna. Tra i due senegalesi, infine, Sow è il più corporeo (anche fisicamente...), Kwateh il più aromatico e liquido. Il che non gli impedisce, nelle aperture tribali messe in scena principalmente dal vivo, di sprigionare una grande forza d'urto, in ciò, del resto, non senza l'apporto dell'intero organico. Questo libro offre un profilo diverso, se vogliamo, del lavoro di Odwalla: ce ne mostra la a sua volta fondamentale componente visivo-gestuale. Un tassello in più, per chi non ha avuto occasione di "assaggiare" il gruppo nella sua dimensione live, per fargli capire cosa sia effettivamente Odwalla (danzatrici comprese, s'intende). E magari fargli venire la voglia di andarsela a cercare, quella dimensione live, di persona o procurandosi quanto meno i due DVD di cui si è detto. La parola alle immagini, dunque.

Foto di Daniela Crevena (la seconda), Luca D'Agostino (tutte le altre tranne la prima)


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