Il ventisettenne pianista danese Christian Balvig, qui al secondo album a suo nome, riunisce un quartetto d'archi (contrabbasso compreso) e una batteria per firmare un'opera svolta nel segno dell'ibridazione idiomatica. L'iniziale "Body Blankets" ce lo dice già piuttosto eloquentemente: l'attacco è squisitamente jazzistico, poi entrano gli archi e il clima si fa fisiologicamente più cameristico, di un'eleganza un po' asettica, esangue, per quanto senza particolari eccessi. Da un lato c'è quindi il trio (anche in questo caso contrabbasso compreso, di fatto anfibio), che per esempio riemerge in tutta la sua jazzisticità in avvio di "Froid," dall'altra gli archi, a stendere una patina di convenzionalità di troppo, di calligrafismo e maniera, su un prodotto già di per sé, sempre jazzisticamente parlando, non particolarmente originale o innovativo.
Si procede così, in un ascolto anche gradevole ma sempre un po' prigionieri di quel senso di vacuità, di epidermicità, di manierismo, sino al termine del disco (peraltro breve: poco più di trentasette minuti), con episodiche risalite, tipo la prima parte (contrabbasso solo) di "How Many Eyes Are Mirrored in the Moon?," o ancora "Earth Muscles," posto a suggello di un album in cui non possiamo tuttavia negare di aver ravvisato più ombre che luci.
Track Listing
Body Blankets; Rocks Are Bones; Froid; 1:1 Map of the World; How Many Eyes Are Mirrored in the Moon?; Human Flow; Like a Caveman; Circle Song; Earth Muscles.
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Ecumenico ma (abbastanza) esclusivo, non sopporta la musica – e l’arte in generale – di routine, rassicurante e dozzinale, preferendo, se proprio deve, il brutto all’inutile. Un ideale spaccato dei suoi amori musicali (che non si limitano al jazz; e più o