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Metastasio Jazz 2018

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Metastasio Jazz 2018
Varie sedi
Prato
26.1-19.2.2018

"Lingue oltre i confini" era il tema attorno al quale si è quest'anno strutturata la rassegna pratese Metastasio Jazz, giunta alla ventitreesima edizione e della quale ci ha parlato Stefano Zenni in una recente intervista. Un tema ben incorniciato dai concerti d'inizio e di fine, ma che si è sviluppato coerentemente in tutti i moltissimi appuntamenti di un festival che si allarga ogni anno di più, grazie alle collaborazioni con altre realtà locali, diventando una ricchissima rassegna dell'area metropolitana Firenze-Prato, svoltasi quest'anno tra il 26 gennaio e il 19 febbraio.

Il primo appuntamento era appunto una di queste collaborazioni, con il Museo del Tessuto, ove si è esibito il duo Bach In Black (clicca qui per la recensione dell'omonimo disco), composto da Achille Succi e dal sassofonista classico Mario Marzi, coppia perfetta per mettere in scena un progetto di continuo sconfinamento di lingue tra la musica di Johan Sebastian Bach e il jazz.

Dopo il primo "incrocio" con Firenze, il concerto di Alberto Achille Toroya al Pinocchio Live Jazz sabato 27, altro appuntamento di confine, tra jazz e letteratura, la mattina successiva alla Scuola di Musica Giuseppe Verdi, dove il duo dei fratelli Andrea e Nino Pellegrini ha eccellentemente accompagnato la lettura, da parte dell'autore Alessandro Agostinelli di alcuni brani del libro Benedetti da Parker, nel quale si narra, romanzandola, la singolare vicenda di Dean Benedetti, livornese emigrato a New York e a tal punto fanatico di Charlie Parker da essere ricordato per la sua registrazione di una impressionante mole di suoi assoli.

L'apertura vera e propria della rassegna, lunedì 29 gennaio al Teatro Metastasio, era affidata in esclusiva italiana alla formazione forse più interessante del programma: il quintetto Sicilian Defense del trombettista Jonathan Finlayson, composto da musicisti piuttosto giovani e -come il leader -con esperienze assieme ad alcuni dei musicisti più stimolanti e creativi del jazz statunitense. Finlayson è uno dei trombettisti più stimati sulla scena d'oltreoceano e fa parte di alcuni gruppi di punta come quelli di Steve Coleman e Steve Lehman: con la Sicilian Defense ha finalmente potuto mettersi alla prova anche come leader, scegliendo una delle strade su cui si muovono i suoi colleghi. Come nel caso dell'ultimo Coleman, ma ancor più di Henry Threadgill, Tim Berne e Craig Taborn, la formazione di Finlayson si è mossa su atmosfere a bassa dinamicità, frammentando le composizioni e cesellandone reiteratamente, con pazienza, i dettagli. Esemplare, da questo punto di vista, il solo brano non originale del concerto, l'ellingtoniana "Sophisticated Lady," che è stata letteralmente smontata, facendole precedere un'introduzione astratta che a fatica faceva immaginare il tema e poi condotta brano a brano dalla formazione in gruppi separati, duetti, trii, senza mai liberarne la liricità e viceversa sempre sviscerandone la struttura e gli elementi ritmici. Operazione di indubbia suggestione, anche grazie alla grande qualità dei musicisti -su tutti sono spiccati il chitarrista Miles Okazaki e soprattutto il superbo contrabbassista John Hébert -ma che, se ripetuta lungo tutto l'arco del concerto, com'è stato in questo caso, può finire per dare l'impressione di una eccessiva uniformità e di una certa ridondanza, anche stante l'apparente assenza di un chiaro piano drammaturgico. Impressione, comunque, che non tutto l'ampio pubblico deve aver avuto, stante la soddisfazione che si respirava all'uscita dal concerto.

Nel successivo fine settimana la rassegna si è spostata di nuovo a Firenze, venerdì 2 febbraio in sinergia con il Musicus Concentus per presentare alla Sala Vanni l'originale e suggestivo duo di Stefano Battaglia e Elsa Martin (clicca qui per leggere la recensione del concerto), sabato 3 di nuovo al Pinocchio Jazz per una singolare rilettura dei Beatles e dei The Rolling Stones per opera dei Di Vi Kappa 3 (clicca qui per leggere la recensione del concerto).

Nuovo appuntamento di domenica mattina il 4 febbraio, stavolta per una conferenza del Direttore Artistico del festival Stefano Zenni, in una sala completamente gremita della Scuola di Musica Giuseppe Verdi. La scelta del tema -l'analisi del capolavoro del Modern Jazz Quartet "Concorde" -era doppiamente motivata: da un lato dall'essere quel brano, scritto dal grande John Lewis, un canone di ispirazione bachiana calato in un contesto jazz; dall'altro dalla presenza in programma, dieci giorni dopo, di un progetto originale dedicato proprio a John Lewis. In ogni caso, come sempre nel caso delle conferenze di Zenni, la mattinata è stata interessante e piacevole non meno di un bel concerto.

Lunedì 6 la rassegna si è spostata al Teatro Fabbricone per un doppio concerto di formazioni italiane: il trio di Simone Graziano, fresco di uscita del disco Snailspace, e Ghost Horse, formazione nata di recente come ampliamento del ben noto trio Hobby Horse.

Il trio di Graziano si presentava con Enrico Morello alla batteria al posto di Tommy Crane, ovviamente sempre con Francesco Ponticelli al contrabbasso e all'elettronica. La formazione ha riproposto il materiale del recente CD: musica perlopiù abbastanza rarefatta, nella quale i silenzi contano quanto i suoni, e che unisce in modo organico e molto equilibrato acustico ed elettronico, melodia e frammentazione sonora. Per chi conosceva quel lavoro è forse mancata un po' la sorpresa, anche perché la musica è molto "costruita" dal punto di vista organizzativo -stacchi e pause sono ben ponderati e, pertanto, previsti -ma l'esecuzione dal vivo, con la percezione diretta del modo in cui è di fatto la musica scaturisce, ha fatto apprezzare ancor più la proposta artistica, senz'altro dotata di una sua originalità e che spinge la formula del piano trio un po' oltre i suoi perimetri abituali.

Ghost Horse, come accennato, è un sestetto formatosi lo scorso anno allargando Hobby Horse, uno dei gruppi più interessanti oggi sulla scena; il suo nucleo è pertanto composto da Dan Kinzelman al sax tenore e al clarinetto, da Joe Rehmer, qui impegnato al solo basso elettrico, e da Stefano Tamborrino alla batteria; vi si aggiungono poi Filippo Vignato al trombone, Glauco Benedetti alla tuba e Gabrio Baldacci alla chitarra. E, almeno in certa misura, anche la musica si ispira a quella del trio preesistente, sebbene -anche per ovvie esigenze legate all'organizzazione di un gruppo più ampio -con minore libertà e colpi di scena e, viceversa, con una scrittura più serrata. Quindi scarti anche bruschi tra frammentarietà sospesa e intensa dinamicità, e -pur senza disdegnare spazi alle inventive individuali -grande lavoro sinergico del gruppo, con particolare riguardo ai tre fiati, spesso impegnati in modo molto compatto. Quest'ultimo aspetto ha forse un po' sacrificato le voci più scure, vale a dire il trombone di Vignato e soprattutto la tuba di Benedetti, appiattendo in qualche caso la sonorità complessiva della formazione, ma ha consentito di mantenere sempre una forte coerenza e di far risaltare gli assoli di Kinzelman -come sempre sorprendente e appropriato in ogni intervento -e della chitarra di Baldacci. Eccellente la ritmica, con Rehmer a fare da pernio del gruppo e la usuale abilità creativa di Tamborrino. Complessivamente un concerto con momenti davvero esaltanti da parte di una formazione che, probabilmente, in futuro potrà fare ancora meglio.

Quasi dieci giorni di pausa hanno separato gli appassionati dal successivo appuntamento, al Teatro Politeama pratese: "Blues on Bach. John Lewis e il Modern Jazz Quartet," produzione originale del festival assieme alla Camerata Strumentale Città di Prato, che vedeva di scena appunto un ensemble classico a rileggere, assieme al trio di Enrico Pieranunzi, composizioni di John Lewis. Ancora una volta, dunque, un tentativo di far dialogare il linguaggio classico e quello jazzistico facendo far da tramite a Johann Sebastian Bach, autore classico al quale il jazzista Lewis (musicista dalla vasta cultura classica e ammiratore dell'Europa) si è più volte ispirato nelle sue composizioni. Gli arrangiamenti dei brani e la direzione erano affidati a Michele Corcella, che ha fatto interagire Camerata e trio jazzistico (completato da Luca Bulgarelli al contrabbasso e Mauro Beggio alla batteria), lasciando ad esso i debiti spazi. In programma brani più o meno famosi di Lewis, di periodi molto diversi -"Three Windows," che concludeva lo spettacolo, era anche l'ultima composizione da lui scritta -inclusi alcuni brani notissimi, come "Django" o "Skating in Central Park," e altri dedicati all'Europa, come "Milano," "Vendome" e quel "Concorde" attentamente analizzato dieci giorni prima da Stefano Zenni. E proprio "Concorde" ha messo in luce meglio di altri i pregi e i difetti di un'operazione che, come tutte quelle dello stesso genere, da un lato ampliava le sonorità e mostrava complessità e ricchezza di musiche altrimenti trascurate da ascoltatori lontani dal jazz -non a caso il teatro era in larga parte occupato da appassionati di classica, soliti seguire la Camerata Strumentale, che molto hanno apprezzato lo spettacolo -ma dall'altra ne diluiva e talvolta sminuiva aspetti essenziali. Infatti, nonostante la presenza di un eccellente trio di musicisti -con un Pieranunzi, inoltre, solito a costruire "ponti" del genere, come mostrano il suo progetto su Scarlatti e quello su Gershwin assieme a Bruno Canino -i pur eccellenti arrangiamenti tendevano fatalmente a uniformare le atmosfere sonore e a farne scomparire i dettagli, effetto che nel caso di "Concorde" -caratterizzato da canoni ripetuti, variazioni dei ruoli, sovrapposizioni e interventi decisivi della batteria -era particolarmente evidente: il largo ensemble di archi e fiati, pur arricchendo i suoni, contribuiva però a disperderne gli elementi distintivi. Una sfida persa, dunque? No, perché l'operazione è stata comunque interessante e apprezzabile, ma soprattutto perché, come accennato, il "ponte" ha mostrato di funzionare senz'altro a livello di coinvolgimento del pubblico, che è parso apprezzare davvero molto la serata.

Scenario completamente diverso, solo il giorno successivo, nel secondo "incontro fiorentino" alla Sala Vanni, di scena uno dei gruppi più in vista della scena europea: il trio svedese Fire!, del quale parliamo in altra pagina . E ancora diverso l'appuntamento conclusivo del festival, a conferma della pluralità di lingue che hanno avuto spazi nella rassegna pratese, con il quintetto di Yilian Canizares, di nuovo sul palcoscenico più prestigioso, il Teatro Metastasio.

Nativa de L'Avana e inizialmente formatasi come violinista classica con studi di scuola russa, la Cañizares si è poi trasferita in Svizzera per approfondire gli studi, ma vi ha viceversa incontrato il jazz e, in particolare, Stephane Grappelli. Ha allora iniziato anche a cantare e, presa la cittadinanza svizzera, a dar vita a proprie formazioni, nelle quali rielaborare in modo originale le molte culture che l'hanno influenzata, cantando in spagnolo, francese e anche yoruba. Nel concerto pratese, la Cañizares si è mostrata un grande animale da palcoscenico, dialogando con il pubblico, ballando in scena e duettando con i propri partner, ma anche esoprattutto un'eccellente violinista e una superba cantante, capace oltretutto di passare con assoluta nonchalance dallo strumento alla voce. Eccellentemente coadiuvata in ciò da un bel gruppo di musicisti, tra i quali hanno brillato in particolare il contrabbassista David Brito, solido nell'accompagnamento e autorevole in alcuni assoli dalla grande cantabilità e dal suono nettissimo, e il pianista David Stawinski, autore di alcune improvvisazioni degne della migliore scena jazzistica. Pur in un'atmosfera "leggera" e seduttiva, adatta al festoso rito conclusivo, uno spettacolo dunque di livello inequivocabilmente alto, nonché in piena coerenza con il tema della rassegna che andava a concludere, appunto quello delle lingue e dei confini.

Foto: Neri Pollastri

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