Sotto la direzione artistica di
Enrico Rava per il quarto anno consecutivo, Bergamo Jazz 2015 ha proposto un ampio ventaglio di espressioni jazzistiche, ognuna delle quali fortemente caratterizzata; quasi a ribadire la natura poliedrica di questa musica, la ragione stessa della sua sopravvivenza, vale a dire la sua tentacolare commistione di generi, approcci e forme diverse, dal mainstream al funky, dalla sperimentazione più dialettica alla solida tradizione, dalla dimensione cameristica alla squassante energia di gruppi decisamente compromessi con il rock e il folk.
La qualità delle esibizioni degli ultimi tre giorni (20-22 marzo), ospitate di sera al Teatro Donizetti e di pomeriggio all'Auditorium di Piazza della Libertà, è risultata prevalentemente alta. A deludere le aspettative è stato proprio il concerto d'apertura al Donizetti, affidato al
Jeff Ballard Fairgrounds.
Per buona parte esso si è trascinato in modo dispersivo e frammentario, con idee approssimative che davano l'impressione di essere tentate a mo' d'assaggio dai due tastieristi (
Kevin Hays e
Peter Rende), dalla chitarra sottoutilizzata di
Lionel Loueke, da
Reid Anderson (il bravo bassista dei
The Bad Plus, in questo caso seduto al tavolo dell'elettronica). Dal canto suo la batteria del leader a cercare di ricucire un tessuto irrimediabilmente sfrangiato. Nel finale un brano dall'andamento più bluesy e funky ha preso un groove più esplicito, venendo però impoverito dalla voce inconsistente di Hays.
Dopo l'intervallo, decisamente più convincente per l'apprezzabile professionalità si è rivelato il set di
Dianne Reeves, contornata dai suoi quattro abituali ed efficaci partner. Certo un déjà vu, per l'intenzione di muoversi all'interno della tradizione classica del canto afroamericano, con un mirato recupero di riferimenti etnici: si sono alternati brani tonici e ballad avvolgenti (la stupita atmosfera piovosa di "Stormy Weather"), suadenti e pigre melodie brasiliane e scandite cadenze afrocubane. La voce della Reeves tuttavia, pastosa e brunita, dagli acuti decisi, si è attenuta a una disadorna concretezza, a una centralità di pronuncia esente da modulazioni eccessivamente virtuosistiche e ammiccanti, garantendo così una comunicativa onesta e autentica. Scontata e al tempo stesso da manuale la presentazione finale dei quattro accompagnatori.
Il settetto
Fred Wesley & The New JBs, pilotato dal settantenne ex trombonista di James Brown, ha profuso un funky torrido e motorio. Anche in questo caso si è trattato di un déjà vu, nel senso che proprio la rituale, quasi fideistica aderenza ad una specifica tradizione, riconosciuta e da rinverdire continuamente, ha comportato una professionalità ineccepibile, una granitica compattezza, un'infallibile spettacolarità.
Per quanto attiene l'attualità jazzistica, altri sono stati i piatti più saporiti offerti dal festival: innanzi tutto il trio di
Vijay Iyer, risultato al di sopra delle attese. L'originalità del pianista americano nell'affrontare il canonico e sfruttato trio piano-basso-batteria consiste in primo luogo nella qualità melodica dei suoi brani e del suo pianismo persuasivo, evocativo e affermativo al tempo stesso, sottoposto all'influenza di varie culture e di vari modelli storici del jazz. Ma, soprattutto, emerge in evidenza il modo fluido e divagante, apparentemente estemporaneo, di assemblare temi e sviluppi improvvisativi, di transitare da una situazione ad un'altra con spontaneità, senza interruzioni.
In questo contesto s'inserisce il contributo dei partner: classicissimo il ruolo affidato al drumming continuo, propulsivo, frastagliato di
Marcus Gilmore; più aggiornata la pronuncia del contrabbasso di
Stephan Crump, dura, selettiva, pausata da frequenti intervalli. A ben vedere, che remora dovremmo avere ad affermare che una simile impostazione del trio deriva dal Jarrett migliore?
Forse Iyer non è uno strabiliante virtuoso della tastiera, forse le sue idee interpretative non sono tutte dello stesso livello, ma il concerto bergamasco del suo trio è risultato concentrato e coinvolgente, ben articolato in fasi diverse, ora intense, ora narrative, ora incantate, raggiungendo nel finale reiterati e possenti crescendo. Un concerto generoso per la sua durata di un'ora e cinquanta minuti e per la genuina carica umana che lo ha sostenuto.