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L’âme des poètes (en musique)
ByI poeti di Trenet, com'è facile intuire, sono in realtà i cantautori (più o meno ante litteram), i poeti in musica. Un po' come accade appunto in una serie di dischi tutti di recente emissione che hanno - fra le eventuali altre - una particolarità in comune: ridare alla poesia (o comunque alla letteratura) in senso stretto una nuova vita in quanto "oggetto musicale".
È in fondo curioso notare come l'album della succitata serie che più si allontana da noi come fonti letterarie (Euripide, quindi quinto secolo a.C., e poi Meister Eckhart e Shakespeare) sia in realtà il più spinto in avanti sul piano estetico. Stiamo parlando di Ninshubar (Unhortodox) del percussionista (e manipolatore elettronico) fiorentino Alessio Riccio (già membro - fra l'altro - del Theatrum di Stefano Battaglia), affiancato per l'occasione dal chitarrista danese Hasse Poulsen e da due voci, Monica Demuru e Catherine Jauniaux.
L'interazione fra parte letteraria e impianto sonoro ha in realtà un tono prettamente contemporaneo-concreto, non certo di song, pur nell'accezione più ampia del termine. I testi (in italiano), smembrati e ricomposti, incuneati nel tessuto complessivo come schegge a loro volta essenzialmente sonore, sono quasi sempre detti, o meglio sussurrati, secondo i dettami propri del teatro d'avanguardia (e una comprensione degli stessi piuttosto episodica), non certo cantati, o comunque modulati. L'andamento è nervoso, frastagliato, a tratti grumoso, in una sorta di puzzle in continuo divenire (anche se le atmosfere tendono a riprodursi), con effetti complessivi assolutamente degni di nota.
Un impianto per più di un verso analogo informa pure Mnemosyne (Leo) dell'Ensemble X diretto dal multisassofonista tedesco Joachim Gies. Qui gli autori riletti sono Hölderlin e Kafka (entrambi in lingua originale, quindi in tedesco), ben più prossimi a noi. Anche qui il recitato (l'attore Gerd Wameling) gioca un ruolo centrale, benché il cantato (il soprano Gesine Nowakowski) abbia i suoi congrui spazi.
In realtà, solo due dei sei brani complessivi (per un totale di circa 35 minuti, peraltro) battono la via "poetica": appunto uno per autore. Così in "Mnemosyne" (da Hölderlin), di impianto lirico-contemporaneo, troviamo entrambe le voci, in un clima a tratti stimolante, altrove un po' prolisso, faticoso, mentre "Das Leben ist eine fortwährende Ablenkung" (ovviamente da Kafka), alquanto torvo, un po' privo di sbocchi, vede all'opera il solo Wameling (la Nowakowski torna a vocalizzare, abbastanza sommessamente, nei due episodi conclusivi, peraltro esterni al nostro assunto). Da sottolineare, globalmente, il ruolo giocato dal vibrafono (Franz Bauer), di invidiabile aplomb e felicità timbrica, ad accentuare l'humus cameristico-contemporaneo del tutto, e il fatto che, a conti fatti, le cose migliori del CD arrivano proprio dai brani non "poetici".
Voltiamo pagina, notando come, nel momento in cui il bastone del comando (si fa per dire, ovviamente) passa nelle mani delle donne, anche le fonti letterarie si spostino di conseguenza. A esser largamente privilegiata è in tal senso Emily Dickinson, alla quale è dedicato quasi monograficamente il nuovo album di Susanne Abbuehl, The Gift (ECM), nonché un episodio dell'a sua volta notevole Laut (Improvvisatore Involontario) di Gaia Mattiuzzi.
Gli organici sono molto simili - voce, piano e batteria in entrambi i casi, più flicorno nel primo, ed episodicamente contrabbasso nel secondo - ma profondamente diverso è l'approccio, l'humus: nel CD della Abbuehl domina la consueta pacatezza ondulatoria, quasi sonnacchiosa (quanto straordinariamente ricca di pathos) che le conosciamo, mentre Laut è lavoro molto più sfaccettato, ora incalzante e nervoso, ora a maglie più larghe. La cantante svizzera si avvicina molto di più - pur dalla sua originalissima prospettiva - alla forma canzone, la bolognese a un'avanguardia abbastanza onnicomprensiva, da scampoli di Novecento eurocolto ai fermenti del nuovo jazz (nel senso più storicamente radicato del termine).
Anche circa la scelta del materiale tematico, al di là della convergenza sulla poetessa americana, l'angolo visuale è assai diverso. Susanne Abbuehl musica la bellezza di dieci testi (sui quindici complessivi, più uno suo su musica di Wolfgang Lackerschmid) della Dickinson, aggiungendone due a testa di Emily Brontë (inglese, lei, com'è noto autrice di Cime tempestose) e Sara Teasdale, altra poetessa statunitense, vissuta a cavallo fra Otto e Novecento, oltre all'unico maschietto della compagnia, Wallace Stevens, connazionale e coevo della Teasdale. Gaia Mattiuzzi, per contro, di Emily Dickinson sceglie "The World Feels Dusty", già musicata niente meno che da Aaron Copland, e per il resto spazia dall'accoppiata Brecht/Eisler a Nina Simone, da Steve Lacy a Mal Waldron, ecc. L'unica elaborazione originale si deve a Fabrizio Puglisi, più che prezioso partner nel lavoro (con Cristiano Calcagnile), che "sonorizza" "Harmonie" di Baudelaire.
Fatto un minimo d'ordine, entriamo un po' più nelle pieghe dei singoli lavori. Per dire, ad esempio, del ruolo precipuo giocato da tutti e tre i partner della Abbuehl in The Gift: il morbido flicornista Matthieu Michel, principale alter ego della voce, il pianista (impegnato qua e là anche al suggestivo harmonium indiano) Wolfert Brederode, che macina note senza sosta, e il batterista Olavi Louhivuori (uno svizzero, un olandese e un finnico, quindi), sempre perfettamente sul pezzo, discreto quanto incisivo.
L'incedere del lavoro è da subito finemente sospeso ed evocativo, spesso attraversato da una danzabilità serpeggiante, come sottopelle. Ci sono momenti più estatici e altri più ritmici (limitatamente), sempre nel segno di un lirismo prezioso, rilasciato ma in fondo al tempo stesso asciutto, essenziale. Olimpico, ecco. E sinuoso, elegantemente sensuale. Un gioiellino, l'avrete capito.
Notevole, come si diceva, anche il CD della Mattiuzzi, che si muove su uno spettro vocale ben più variegato, fra una teatralità a volte persino solenne, vocalizzi più squisitamente lirici (nel senso di operistici), quasi-recitativi e altro ancora, spaziando dal tedesco al francese (di Baudelaire, ma anche del lacyano "Prospectus," che si muove su terreni tipici del sopranista, e vocalmente memori - inevitabilmente - di Irene Aebi), dall'inglese a una sorta di eterodosso scat.
Ogni disco ha la sua specificità. E ognuno merita, conseguentemente, di essere attentamente (e variamente) ascoltato e assaporato. Come sempre qualche piccolo input vi può giungere dal materiale qui sotto selezionato (partendo da Trenet), salvo Ninshubar, circa il quale non abbiamo trovato nulla di specifico e rappresentativo.