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La via dei suoni di Luca Aquino

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Poliedrico esploratore di esperienze musicali, adogmatico ascoltatore di musiche, trombettista molto ricercato per la sua tendenza a conciliare in forma sempre originale istanze sonore provenienti da ambiti musicali diversi e spesso lontani tra loro, Luca Aquino incarna l'immagine esemplare dell'esploratore sonoro contemporaneo, che pur rivolgendo lo sguardo ad un ampio panorama musicale -alla storia del jazz quanto al rock—sa focalizzare l'attenzione e l'interesse verso un obiettivo preciso, costruendo progetti di indubbie qualità espressive, ben sorretti da un sound originale, dal gusto per la cantabilità e da idee che risultano essere una sintesi riuscita del suo eterogeneo universo musicale.

All About Jazz Italia: Quali sono stati i modelli musicali che maggiormente ti hanno ispirato/influenzato?
Luca Aquino: Ho cominciato a studiare la tromba all'età di venti anni, quasi per caso. All'inizio pensavo fosse uno strumento lontano dai miei ascolti, dato che dedicavo ore al rock, ma grazie a Miles Davis sono poi riuscito ad accostare lo strumento che mi aveva scelto ai suoni che amavo. I Doors, AC/DC, Jefferson Airplane, Muddy Waters, Little Steven ma anche Axl Roses, Duran Duran e Pet Shop Boys sono le band e i musicisti che hanno segnato il mio percorso musicale.

AAJI: Qual è il rapporto con i musicisti che collaborano con te? Credi che lavorare con un gruppo stabile favorisca positivamente l'esito della tua musica? Se si, in che termini?
L.A.: Ritengo che il rapporto umano sia fondamentale per la realizzazione di qualsiasi progetto, specialmente se ambizioso. In musica, una band stabile che non evita il confronto può solo crescere o sciogliersi, evitando la noia, sentimento atroce e deleterio per la creatività.

AAJI: Cosa dovrebbe avere un musicista per essere considerato un buon musicista?
L.A.: Conoscere tutte le scale, tutti gli accordi e saper leggere benissimo a prima vista. Poi serve dell'altro, questo può sicuramente essere un buon inizio ma non basta.

AAJI: Quale criterio utilizzi nei tuoi progetti per individuare i musicisti con cui collaborare?
L.A.: Guardo la persona, il suono e l'entusiasmo.

AAJI: Quali sono le esperienze che non hai ancora fatto e che ti piacerebbe fare?
L.A.: Registrare un album a Petra e poi a Cuba.

AAJI: Con quali musicisti ti piacerebbe suonare?
L.A.: 50 Cent e Snoop Dogg.

AAJI: Cosa pensi del jazz italiano? Credi che esista una qualche estetica distintiva e peculiare?
L.A.: La caratteristica del nostro jazz è la melodia. Vedi Enrico Rava. Una nota e emoziona. Per non parlare di Paolo Fresu. Oggi è molto interessante notare l'influenza che ha la musica balcanica sulle produzioni dei musicisti italiani che, prendendo spunto da quella fascinosa e misteriosa terra dove si incrociano le culture ortodossa, cattolica e musulmana, producono album pazzeschi.

AAJI: Più in generale, cosa pensi della realtà musicale italiana?
L.A.: In Italia impera il Pop. Ora lo chiamano Indie ma sempre Pop è. Il motivo è che qualche volta il jazz viene congelato. Quando viene contaminato e reso attuale capita che anche i giovani acquistano dischi e vanno ai concerti. Certo, quando accade c'è poi da chiedersi: è ancora jazz?

AAJI: Nella tua visione musicale, che peso dai alla scrittura?
L.A.: Ancora non sono un gran compositore. Cerco di raccontare storie, le mie.

AAJI: Quale parametro musicale ti piace esplorare in fase improvvisativa?
L.A.: La forza dell'improvvisazione è nel momento. Un'ora sola di concerto per raccontare un intero giorno in viaggio o una settimana di studi. Il cliché è sempre in agguato e racconta solo storie noiose, alle quali neanche tu credi più. A me piacerebbe sempre stupirmi ma è difficile, ci sono serate dove manca qualcosa e la forza è nel superarle la sera dopo, con qualcosa di bizzarro.

AAJI: Leggendo la tua biografia emerge un dato preciso, la totale apertura ad ogni forma di espressione sonora. Come riesci a sintetizzare la tua vocazione eterodossa nei tuoi progetti?
L.A.: Suonando sempre progetti differenti, focalizzandomi su un progetto alla volta.

AAJI: Cosa ti piace ascoltare? Come una sorta di rifugio, c'é qualche musica alla quale ti piace tornare abitualmente?
L.A.: Amo la natura. Adoro le passeggiate in montagna e quei suoni che liberano la mente da jingle di cellulari impazziti e radio che trasmettono testi e melodie futili. Per quanto riguarda gli album dove posso trovare rifugio, certamente la discografia intera di Jon Hassell. Il suo suono ricorda i lupi.

AAJI: Dal punto di vista della fruizione, cosa deve avere la musica perché possa interessarti?
L.A.: Deve possedere un pensiero originale e incoerente.

AAJI: In questo momento cosa sta girando nel tuo lettore CD?
L.A.: "Baby I Love You" dei Ramones.

AAJI: Puoi indicare tre dischi, non necessariamente di jazz, per te fondamentali?
L.A.: L'album di debutto dei Doors, The Dark Side of the Moon dei Pink Floyd e Kind of Blue di Miles.

AAJI: Avendo fatto molti concerti fuori dall'Italia avrai, cosa pensi della musica che proviene da oltre confine? Quali differenze, anche organizzative ed estetiche, ci sono con il panorama italiano? Cosa pensi dei festivals della nostra penisola? Ritieni che vengano valorizzate tutte le forze creative presenti sul territorio?
L.A.: Quando partecipi ai festival europei non incontri quasi mai gli organizzatori o i produttori. Una macchina piramidale perfetta, con mansioni ben definite e collaudate. Soundcheck precisi. Trasferimenti rapidi e puntuali. Tutto cadenzato e ritmato. In Italia è diverso, ancora. Può essere lo stesso direttore artistico a venire a prendere all'aeroporto; capita anche al sottoscritto col mio festival Riverberi. Questo risalta sicuramente il lato passionale, rendendo tutto più umano e, volendo, godereccio ma rappresenta la fotografia di un Italia ancora in crescita. Specialmente al Sud i finanziamenti pubblici previsti per la cultura sono quasi inesistenti e mal gestiti da funzionari e politici e ci si trova costretti a marcare in grassetto l'arte di arrangiarsi, improvvisandosi autisti e tutto-fare.

AAJI: L'anno scorso hai suonato in duo a "Bari in Jazz," puoi parlare del progetto che proporrai nell'edizione del festival levantino che stai per affrontare?
L.A.: Sarò presente con due progetti diversi al Bari Jazz. Il quartetto di Manu Katchè e il nuovo progetto discografico OverDOORS, insieme a Dario Miranda, Lele Tomasi e Antonio Jasevoli. OverDOORS è maturato con forza tra alcune difficoltà. Il primo dubbio è sorto sulla scelta dei brani perché li avrei rivisitati tutti. L'altra profonda indecisione è stata, invece, alimentata dalle diverse possibilità di rilettura dei brani dei Doors. Seguire un approccio da cover o un'autonoma rielaborazione musicale? Alla fine ho percorso entrambi i sentieri, sentendomi libero di sviscerare e ricomporre "Light My Fire," ma anche di cantare alla lettera e soffiare melodie eteree ed eterne come "Blue Sunday" e "Yes," "The River Knows."

AAJI: A cosa stai lavorando in questo periodo?
L.A.: Al mio festival Riverberi, a Benevento, dal 15 al 19 luglio. Vi aspetto.

AAJI: La tua riconoscibilità musicale ha a che fare con una chiara inclinazione a lavorare sul suono e con un certo grado di propensione alla costruzione di fraseggi melodiosi -anche in contesti più estremi e di ricerca -, quanto è importante per te stabilire una relazione simbiotica con il pubblico?
L.A.: Per me il numero uno ora è Arve Henriksen, trombettista norvegese. È l'erede di Jon Hassell, suona cose mai ascoltate, tra l'altro molto difficili ma ad ogni concerto il pubblico resta a bocca aperta ed è super coinvolto. Ammiro tanto la sua arte ma sopratutto come riesce a divulgarla agli ascoltatori. Il pubblico va onorato.

AAJI: Cosa significa per te fare ricerca?
L.A.: Riflettere a loop, in viaggio a casa, su come e perché intraprendere un determinato studio su un distorsore, un bocchino diverso, un suono nuovo scovato tra i pistoni, un compagno di viaggio con uno strumento mai usato o una scala ascoltata da un Muezzin.

AAJI: Come vedi il futuro della musica di matrice jazzistica?
L.A.: Il jazz è la musica più viva, al momento. Frank Zappa aveva lanciato un campanello d'allarme e molti l'hanno ascoltato.

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