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La canzone popolare

La canzone popolare
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Alzati che si sta alzando la canzone popolare
se c'è qualcosa da dire ancora, se c'è qualcosa da fare
alzati che si sta alzando la canzone popolare
se c'è qualcosa da dire ancora, ce lo dirà


Dire che la canzone popolare (in un senso magari anche più stretto di quello presupposto dall'omonimo brano di Ivano Fossati di cui abbiamo ripreso l'incipit) si stia (ri)alzando sarebbe eccessivo e certamente forzato: è da tempo—per fortuna—immemorabile che ciò accade. Il nostro, ben più semplicemente, è un taglio molto orizzontale nel presente (o passato molto prossimo), come usiamo fare nei nostri periodici intrufolamenti entro l'universo-canzone, nella sua più vasta accezione.

Oggi, in effetti, abbandoniamo per una volta (e comunque neanche del tutto) la canzone d'autore nel senso proprio del termine per aprirci, appunto, a quanto affonda le radici nella nostra storia, spesso tutt'altro che recente. La canzone popolare, in tal senso, ha avuto di recente alcuni significativi riconoscimenti, e anche qualche anniversario. È accaduto, per esempio, che all'ultimo Premio Tenco, in ottobre, uno dei suddetti premi sia stato assegnato a Otello Profazio (che ci promette un nuovo disco per il 2017, ciò che non accade da una vita), mentre Peppe Voltarelli, nato il suo stesso giorno (26 dicembre) ma di trentatré anni dopo (1969 contro 1936), si è portato via la targa destinata all'interprete col suo recente album dedicato proprio al repertorio profaziano. E c'era poi la Nuova Compagnia di Canto Popolare (per chi ama la sintesi NCCP), che arrivava per la prima volta al Tenco a festeggiare i suoi cinquant'anni di attività, subito dopo averlo fatto con un doppio album di brani vecchi e nuovi.

Al 1968 risalgono invece i primi vagiti del glorioso gruppo marchigiano La Macina, appena uscitosene con un lussuoso progetto di quelli che ama di questi tempi produrre Squi[libri] (da lì proviene anche il citato album di Voltarelli su Profazio), CD più DVD più booklet di ottanta pagine con scritti vari e belle immagini. L'opera s'intitola Nel vivo di una lunga storia, a sottintendere quanto l'esperienza sia ancora vitale nonostante le quarantotto primavere. Il CD, per quanto incredibile possa apparire, è il primo live del gruppo (anche su questo gioca naturalmente il titolo), sedici brani intercalati da generosi parlati in cui si passa al vaglio il repertorio del gruppo (con un inedito), in un clima ruspante, "sporco," che dà energia e vivezza al tutto.

Il DVD è quanto mai prezioso complemento del CD in quanto, in ventinove stazioni (tante quante le località delle Marche che intitolano i vari quadri, anzi ventotto perché Iesi ne ha due), Gastone Pietrucci, deus ex-machina della Macina, ne ripercorre la storia, da quando il gruppo si costituì sulla suggestione (dichiarata) dell'epocale Bella ciao portato nel '64, fra lo scandalo generale, al Festival dei Due Mondi di Spoleto dal Nuovo Canzoniere Italiano (Leydi, Bueno, Marini, Straniero, Daffini, Piadena, ecc.), a tutti gli incontri con gli "informatori," cioè coloro che trasmettevano ai ricercatori, quali Pietrucci e soci voracemente erano (e sono), gli antichi canti che, smarrita tale trasmissione orale, si sarebbero persi nell'oblio, senza dimenticare una serie di incontri decisivi come ad esempio con i Gang e Valeria Moriconi, lei pure marchigiana. Documento veramente goloso.

Sempre Squi[libri] ha edito in parallelo un bel volume su Riccardo Tesi a firma di Neri Pollastri (Una vita a bottoni), in cui biografia e arte del neosessantenne organettista pistoiese (sei giorni in più di chi scrive, per quei pochi a cui potesse interessare) vengono passate al setaccio con gran dovizia di particolari, scandite per lo più (ma non solo) dalle numerose incisioni, una generosa selezione delle quali (anche qui sedici brani) è raccolta nel CD allegato al libro. Con un inedito, curiosamente legato all'esperienza più prossima al jazz abbracciata da Tesi, vale a dire il trio con Trovesi e Vaillant. Bellissime pure le foto che corredano parole (scritte e cantate) e suoni.

Tornando ai gruppi di emanazione scopertamente popolare (etno-folk, se preferite), ci spostiamo in Lombardia per dire del nuovo CD (doppio) dei Luf (cioè i lupi), intitolato Delalter—Verso un altro altrove e autoprodotto dal gruppo riunito attorno a Dario Canossi, nativo dell'alta Val Camonica, chitarrista e cantante dell'ottetto che (con ospiti) ha realizzato il lavoro. Il primo CD comprende undici brani (uno in duplice versione, quindi dodici tracce), in italiano e lombardo, otto dei quali vengono riproposti nel secondo CD in versione definita "acustica," in realtà solo un po' più magra, pulita, perché l'impianto acustico è palese anche nel primo CD. Completano il secondo dischetto due brani assenti dal primo.

Cosa comporta, il tutto? Intanto un oggetto di aspetto e confezione inusuali: più grande della norma (cm. 14x15,5), con un fumetto sopra la tasca di sinistra, dentro cui è riposto ben piegato un manifestino con testi e immagini (una), e doppia tasca sul centro-destra con dentro i due dischetti. E la musica? È quasi sempre ballabile, non di rado saltellante (specie i brani in dialetto), per così dire—come possibili referenti—fra Lou Dalfìn (il delfino, qui; sempre di animali si tratta) e Guccini (a cui I Luf hanno del resto dedicato un intero album nel 2012), magari via Nomadi. Le melodie sono spesso di quelle che ti si conficcano in testa (e comunque repetita juvant, e "Verso un altro altrove" è addirittura in tripla versione), con uno strumentario ricco e molto aromatico (cornamusa, fisarmonica, violino, e altre corde più "povere": mandolino, banjo, dobro...). I pezzi sono tutti originali (per lo più di Canossi), il che rappresenta la principale differenza da La Macina (I Luf sono del resto molto più giovani, essendosi costituiti solo nel 2000), ad eccezione di "Camminando e cantando" di Endrigo, di fatto a sua volta traduzione di un brano del 1968 di Geraldo Vandré, "Pra não dizer que não falei de flores" (o "Caminhando"), sorta di inno contro la dittatura militare che dilaniava all'epoca il Brasile.

Sempre da Brescia proviene Michele Gazich, singolare figura di cantautore/violinista che ha collaborato negli anni (non è proprio uno sbarbatello) con Michelle Shocked e Eric Andersen, fra gli altri, e ora se ne esce con un nuovo lavoro, La via del sale (FonoBisanzio/IRD), che così introduce: "Un tempo il sale era prezioso come l'oro e preziose erano le vie attraverso cui veniva trasportato. Oggi queste vie hanno perso il loro senso originario e i luoghi che percorrevano sono abbandonati, quasi dimenticati. Sopravvivono ancora, tuttavia, musicisti e strumenti tradizionali legati ai tempi che furono. Ho recuperato questi strumenti arcaici e li ho accostati al mio violino, alla mia voce e ad altre voci e strumenti decisamente contemporanei, strappandoli alle loro terre e contestualizzando il loro rimpianto, il loro grido e il loro lamento in musiche e parole che ho composto per raccontare l'Europa di oggi, fatta di resti industriali, maestose rovine del terziario, biblioteche sommerse dalle acque, città distrutte, migrazioni e barricate."

Una descrizione veramente esauriente di quanto ritroviamo nel disco, di grande fascino, con quell'incedere a volte cantilenante, per così dire "sacrale," liturgico e ancestrale, atavico. Sono brani che dopo un paio di ascolti ti entrano dentro, con la loro urgenza discreta, incruenta ma implacabile. Qualche titolo? La titletrack, ovviamente, quasi una nenia, col suo fascino circolare, e poi "Viaggio al centro della notte," ancora trascinata, fortemente evocativa, "Dia de Shabat," in ebraico-spagnolo, "Collemaggio," sorta di singolare tango a tempo di marcia con tanto di zampogna, "Barcellona, Sicilia," con bel clarinetto e parlato in siculo di Salvo Ruolo, "Una lettera dalla barricata," ampia e fascinosa, con belle dinamiche fra cantato e strumentale, e il conclusivo "Fontanigorda," per violino solo.

Fontanigorda, già. Per chi non lo sapesse è una località dell'entroterra (molto entro) genovese, a nord-est, lungo una di quelle direttrici che, un po' di qua un po' di là, s'intersecano con le vie (del sale e non) provenienti da alessandrino, pavese e piacentino (le quattro province, già, di cui esiste anche una musica specifica). Genova e la Liguria erano largamente attraversate dalle vie del sale, e la loro forma musicale più tipica è il trallallero, di cui è attuale esemplificazione fra le più significative il Gruppo Spontaneo Trallalero (qui con una sola L), ensemble ovviamente polivocale a netta prevalenza maschile, secondo tradizione, che celebra i suoi primi trent'anni col CD CantöRiöndö (pronuncia cantu riundu), in cui trovano posto incisioni vecchie e nuove, fra pagine tradizionali e composizioni originali, più un paio di pezzi di Bixio Cherubini e, un po' a sorpresa, "Dolcenera" di De André e Fossati.

Lavoro di grande rigore e indiscutibile impatto, CantöRiöndö è edito da Felmay, così come Mandolini al cinema della Napoli Mandolinorchestra, in cui non c'è canto, ma c'è innegabile "popolarità," dalla specificità strumentale (mandolini, ma anche archi, chitarre e clarinetto) alla scelta del repertorio che, per singoli brani o medley, attraversa temi di Morricone, Rota, Rustichelli, Bacalov e Piovani fra i più amati da cinefili e non. Il tutto genera un piacere assicurato, come una sorta di coperta di Linus in cui fa sempre piacere avvolgersi.

Chiudiamo recuperando, seppur di sbieco, il discorso "gruppistico" da cui siamo partiti. Di sbieco perché il gruppo a cui ci riferiamo non ha matrice strettamente popolare, e poi perché l'album di cui ci occupiamo riguarda un singolo. Ci riferiamo a Giano (River Nile/Ala Bianca) di Fabio Testoni, alias Dandy Bestia (ecco il perché del titolo... bifronte), già chitarrista degli Skiantos che ora se ne esce con questo lavoro in proprio e spiazza non poco i suoi estimatori, visto che si respira una leggerezza del tutto inattesa, una disinvoltura veramente eccessiva, nei nove brani che lo compongono, al punto di indurci a salvarne non più di un paio: "Io dentro," di tono quasi ciampiano ed elegante mise musicale, e, almeno parzialmente, la conclusiva "Storia furba." La legge di Giano, quindi, sembra fotografare l'imprevedibile discrasia fra passato e presente in Testoni: l'arguta, caustica irriverenza dell'era-Skiantos (ma lì c'era un certo Freak Antoni a soffiare sulla brace) di contro all'ovvietà persino disarmante—testi e musiche—dell'oggi. Sarà per un'altra volta.

Foto di Alberto Bazzurro

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