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John De Leo, una voce fuori dal coro

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Mi ingegno ogni giorno per fare arrivare al pubblico qualcosa di nuovo. Sempre partendo dalle canzoni, dalla musica popolare.
Definirlo solo un cantante sarebbe fargli un grandissimo torto. John De Leo, classe 1970, è infatti prima di tutto un compositore-performer che vanta sin dai tempi in cui era la voce-strumento dei Quintorigo collaborazioni di alto rango, soprattutto nel mondo del jazz (Rava, Fresu, Rea, Salis ecc.). Dal 2005, lasciati i Quintorigo, l'estroso ravennate, capace di passare senza soluzione di continuità da De Andrè al be-bop o dal soul al rock, ha fatto una moltitudine di nuove esperienze, lambendo i territori della musica contemporanea del XX secolo (con l'ensemble Alter Ego e Louis Andriessen), di quella "di scena" (il progetto "Omaggio a Nino Rota" con Gianluca Petrella), di quella di matrice letteraria (con Stefano Benni e Carlo Lucarelli) e, last but not least, anche di quella progressive come in "Progressivamente," progetto-tributo di Roberto Gatto ai big del movimento musicale fiorito negli anni Settanta. Abbiamo incontrato De Leo proprio alla fine del concerto che il batterista romano ha offerto lo scorso giugno a Fasano (Br) nel quadro della XIV edizione del Fasano Jazz Festival.

All About Jazz: Durante il concerto hai reso omaggio a due grandi artisti della voce: Robert Wyatt con "Sea Song" e Demetrio Stratos con "La Mela di Odessa". Due personaggi che credo siano stati due punti di riferimento nella tua evoluzione di vocalist.

John De Leo: A rischio di passare per antipatico devo chiarire una volte per tutte la questione dei cosiddetti miei maestri. La verità è che io non ho mai seguito il rock progressivo e anche da giovane le mie fonti d'ispirazione sono state altre. In particolare, Demetrio Stratos, di cui qualcuno dice sia il mio padre artistico, è stato fino a ieri un'entità lontana anni luce dalla sfera dei miei interessi musicali. Detto questo, una volta entrato in contatto con l'arte di Stratos ho apprezzato molto la sua attività di sperimentatore, nonché il lavoro con gli Area.

AAJ: Allora, quali sono i tuoi veri maestri?

J. D.L.: Sono nato ascoltando la musica popolare americana come Frank Sinatra, Nat King Cole, i Platters e molti altri artisti di quel periodo tra gli anni Quaranta e Cinquanta.

AAJ: Tra le tantissime collaborazioni che punteggiano la tua carriera, quali sono quelle a cui sei più legato?

J. D.L.: Le collaborazioni che ho fatto finora mi hanno tutte in qualche modo segnato indelebilmente. E, alla fine, ho sempre l'illusione di capire e di imparare qualcosa. Devo poi aggiungere che in questo periodo mi sento particolarmente fortunato per quanto riguarda l'attività artistica. Mi stanno capitando "cose strane": sono richiesto da artisti che ho sempre ammirato come, ad esempio, Stewart Copeland, l'ex batterista dei Police (De Leo è stato ospite in due concerti del "Strange Things Happen Tour," N.d.R.), che mi ha proposto qualcosa di piú di una semplice collaborazione. Devo inoltre incontrare nuovamente il trombettista francese Médéric Collignol e ho fatto anche una bellissima chiacchierata con Steven Bernstein, anch'egli trombettista e uno dei rappresentanti più interessanti e innovativi della nuova scena jazz americana.

AAJ: Dopo Vago Svenendo, il tuo primo album solista uscito nel 2007, stai preparando un nuovo CD?

J. D.L.: Tutte queste collaborazioni, alle quali francamente è difficile dire di no, interrompono il lavoro di gestazione del nuovo disco che però dovrebbe uscire sempre per Carosello Records entro la fine di quest'anno. L'ho pensato come una sorta di concept album e il mood ricorrente sarà quello di una specie di esplosione che irromperà nei brani facendoli deviare e cambiandone le sorti e i destini. Lavorerò ancora con il mio gruppo, già presente in Vago Svenendo e, ovviamente, parteciperanno in qualità di special guests anche gli amici musicisti con cui collaboro più frequentemente.

AAJ: E il progetto sulle musiche di Nino Rota?

J. D.L.: Va avanti. Mi piace molto perché insieme a Gianluca Petrella affronto l'opera di un compositore italiano e credo che sia tra le responsabilità di un artista promuovere la musica del proprio Paese e reinventarla.

AAJ: Tra gli incroci che recentemente hai sperimentato con maggiore successo e assiduità è quello che ibrida musica, letteratura e videoarte. Una specie di "videomusicazione dei testi," come tu stesso l'hai definita, che ti ha visto collaborare anche con lo scrittore bolognese Stefano Benni.

J. D.L.: Il progetto con Stefano Benni è un po' un sunto della mia carriera: letteratura e videoarte sono infatti linguaggi artistici che mi incuriosiscono molto. Si tratta di una ricerca continua che talvolta apre orizzonti inaspettati. Io e "il Lupo" Benni siamo veramente amici, amici con la a maiuscola: a Bologna ci incontriamo anche solo per fare quattro chiacchiere, senza parlare di lavoro. È un po' lo stesso rapporto che ho con il chitarrista Fabrizio Tarroni, il mio braccio destro musicalmente parlando. Artisticamente siamo cresciuti insieme poi per fortuna ognuno ha fatto le proprie esperienze e ciò ha arricchito la nostra collaborazione e il nostro interplay. Facciamo insieme molti concerti e Fabrizio sarà al mio fianco anche nel prossimo album.

AAJ: Avrai sicuramente altri progetti nel cassetto, ce ne puoi parlare?

J. D.L.: I progetti sulla carta sono in effetti numerosi. Vorrei solo accennarne alcuni: ad esempio, quelli che sto sviluppando con musicisti straordinari, ma sconosciuti al grande pubblico, come Achille Succi e Francesco Puglisi. Io e Puglisi facciamo una cosa che ormai nessuno fa quasi più: facciamo le prove anche se non abbiamo ancora una data o un posto dove andare a suonare. Oltre a provare, discutiamo anche di musica: atteggiamento questo che molti dei cosiddetti big o dei jazzisti "arrivati" hanno ormai perso. In fondo sono un idealista: mi ingegno ogni giorno per fare arrivare al pubblico qualcosa di nuovo. Sempre partendo dalle canzoni, dalla musica popolare. E anche nei concerti, ho sempre voglia di far succedere qualcosa, di sorprendermi e, quindi, allo stesso tempo, di sorprendere chi ascolta. Ho sempre la necessità, anzi l'urgenza, di far accadere qualcosa.

Foto di Luca D'Agostino (la prima)


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