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Joe Daley Tuba Trio al Teatro Manzoni di Milano

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Joe Daley Tuba Trio
Aperitivo in Concerto
Teatro Manzoni
Milano
22.01.2017

Ancora una volta, la rassegna Aperitivo in Concerto ha proposto un inizio di giornata intrigante ed impegnativo. In questa occasione con il concerto del Joe Daley Tuba Trio. In verità non un trio, ma un quintetto. Sul palco, infatti, oltre al leader a basso tuba e flicorno basso c'erano Warren Smith a vibrafono, marimba, batteria e percussioni, Craig Harris a trombone e didgeridoo, Scott Robinson ai sassofoni -tra cui anche un inconsueto e decisamente ingombrante sax sub-contrabbasso, e Althea Sully Cole a kora, danza e voce.

In programma la prima assoluta di Prayer Rituals (A Quest for Inner Peace), lavoro che Joe Daley ha dedicato alla moglie Wanda, mancata lo scorso anno a seguito di un incidente.

Un lavoro fortemente drammatico, che attinge a una molteplicità di culture differenti (da leggersi in questa chiave l'uso di strumenti come la kora o il didgeridoo) e ai relativi rituali di elaborazione del lutto. Rituali non necessariamente religiosi.

Il concerto inizia con una evidente simbologia del ciclo della vita e della morte. Si inizia con la sola Althea Sully Cole sul palco, che sarà successivamente raggiunta da Craig Harris. Dopo un breve momento in duo, la Cole lascia il palco al solo Harris che, successivamente, sarà raggiunto da Warren Smith per un breve frammento. Dopo di che Harris lascerà il palco al solo Smith, e così via fino a quando tutti i componenti della band avranno compiuto il loro ciclo.

Si prosegue poi con un brano dominato dalle frequenze basse, che evolve in un lamento funebre e sfocia in un pedale ritmico, e con un blues lento che finisce con il prendere i colori di una festosa marching band.

Il finale, lieve e disteso, segnerà il raggiungimento di quella pace interiore invocata nel titolo dell'opera. Un'opera con una sovrastruttura teorica importante e che merita profondo rispetto per la delicatezza del tema trattato.

Al netto di ciò, il risultato musicale ci è sembrato convincente solo a tratti. Per l'eccessiva disgregazione del quintetto, poco usato come tale ma principalmente come sottoinsieme di uno-due-tre strumentisti. E per una scrittura che fatica a raggiungere una sintesi. I frammenti più riusciti del concerto sono dunque stati quelli più genuinamente jazz peraltro risultati, paradossalmente, quelli più strutturati.

Foto: Roberto Cifarelli.

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