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Jazzista, ma non solo: intervista a Paolo Damiani

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La cultura è incontrarsi, ascoltare musica, sentire una poesia, vedere un pezzo di teatro o un film. Se manca questo un Paese è morto.
Docente di jazz presso il Conservatorio di Santa Cecilia di Roma, musicista, compositore, direttore d'orchestra, ma anche direttore artistico e produttore di eventi. Paolo Damiani ci ha parlato del nuovo progetto didattico per le scuole italiane portato avanti con Luigi Berlinguer, del suo modo di intendere la musica e della sua idea dell'essere jazzista.

All About Jazz Italia: Sei il coordinatore del "Nucleo tecnico-operativo del Comitato Nazionale per l'apprendimento pratico della musica nelle scuole". Ci parli di questo progetto?

Paolo Damiani: Stiamo andando molto avanti. Il comitato è diretto da Luigi Berlinguer e il mandato è stato prorogato dal ministro Gelmini, quindi siamo fiduciosi. Luigi è un personaggio trasversale, la sua cultura è tale che mette d'accordo tutti. La Gelmini è stata intelligente, ha capito la qualità del personaggio e delle sue idee. Vogliamo mandare avanti questo progetto che abbiamo chiamato "Fare musica tutti," cioè portare la musica nelle scuole in modo diverso da come è stato fatto finora, quindi non più parlare di solfeggio, storia della musica e sapere a memoria la data di nascita di Giuseppe Verdi, ma imparare proprio a suonare, a cantare. "Un coro in ogni scuola" non è solo uno slogan, ma è un progetto operativo, un'idea di fondo dove ogni bambino può appropriarsi del suono, della bellezza del suono. La musica, non dovendo avere a che fare con le parole, è un linguaggio straordinario per consentire l'integrazione. Ormai nelle nostre scuole ci sono bambini che arrivano da ogni parte del Mondo e che magari sono penalizzati perché non parlano perfettamente l'italiano: secondo noi questo non è un problema. Sono portatori di una cultura musicale di altissima qualità che possono insegnare ai loro compagni italiani, quindi c'è veramente una trasmissione a più livelli del sapere artistico, che poi è il modo di fare un altro tipo di scuola.

AAJ: State cercando degli insegnati pronti a questo genere di approccio?

P.D.: Sì, con il progetto Musica 2020, che individua cento insegnanti bravi per le scuole italiane. Per ora sono arrivate ottocento domande, quindi sarà dura selezionare i cento, però questo significa che c'è un grande fermento.

AAJ: Al seminario di Bologna del maggio scorso, relativo al progetto scuola, prima del tuo intervento sei stato presentato come "Il grande jazzista Paolo Damiani". Mentre tu non ti consideri un musicista di jazz a tutti gli effetti.

P.D.: Il jazz è una delle tante possibilità, ci sono molti colleghi valorosissimi che suonano jazz di estrazione americana e che rispetto tantissimo. Io lavoro più sulle nostre radici, che non sono soltanto la musica lirica, ma soprattutto la musica etnica italiana, e in particolar modo dell'area mediterranea. Sono trenta anni che faccio una ricerca di questo tipo. Il jazz è un contenitore vasto dove possono rientrare tantissimi linguaggi diversi. Possono benissimo definirmi un jazzista. Duke Ellington rifiutava questa definizione perché la riteneva un po' ghettizzante, però era un'altra epoca, erano gli anni Trenta, Quaranta, oggi per me va benissimo. Il jazz è una musica meravigliosa, in cui ogni musicista è anche compositore, perché improvvisa e inventa la musica in ogni istante, e questa è una valenza bellissima, unica, nella quale mi riconosco totalmente.

AAJ: Tu improvvisi servendoti di alcuni strumenti elettronici.

P.D.: Mi diverto a utilizzare un loop, una macchina che mi permette in tempo reale di registrare delle frasi ritmiche che poi vengono messe in sequenza e sulle quali improvviso liberamente. Il ritmo è una dimensione fondamentale, e spesso quando lavoro con la danza, il teatro e la recitazione questo elemento mi permette, pur essendo da solo, di dare un'idea polifonica della musica. Con uno strumento monodico come il violoncello non è semplice ottenere questa idea.

AAJ: A che punto l'elettronica termina di essere un'alleata?

P.D.: Dipende da quello che vuoi fare. L'elettronica può essere una grande alleata, può diventare una schiavitù, può essere un punto senza ritorno o una via d'uscita. Se ne diventi schiavo la musica che esce fuori dal tuo strumento non ha alcun senso, mentre se la utilizzi per ampliare il tuo vocabolario allora evviva l'elettronica e la tecnologia in generale.

AAJ: Hai lavorato anche molto all'estero. Quanto e in cosa siamo distanti dalle altre realtà europee?

P.D.: Siamo distanti, non solo come movimento jazzistico, ma come rapporto con la cultura, con l'arte. In altri paesi, soprattutto in Europa, hanno capito che l'arte è un grandissimo volano di energie e risorse economiche. Questa cosa in Italia non si è capita. Non si è capito che investire nella cultura nei tempi brevi, o medi, può garantire un ritorno anche economico, oltre che di valori suoi quali si dovrebbe fondare una società civile, come la comunicazione, l'incontro, la possibilità di parlarsi. La cultura è incontrarsi, ascoltare musica, sentire una poesia, vedere un pezzo di teatro o un film. Se manca questo un Paese è morto. Chi fa musica - si è dimostrato scientificamente - diventa una persona migliore, più aperta al prossimo. Del resto fare musica significa soprattutto ascoltare l'altro. Se io suono insieme a te, ti devo ascoltare, e in qualche modo devo accettare il fatto che tu porti la musica in un'altra direzione, per questo l'improvvisazione è fondamentale, perché si inventa insieme una cosa sola, e da lì nasce il rispetto per l'altro. Al di là delle culture, delle razze, dei linguaggi di provenienza. Una cosa meravigliosa che ha solo la musica, perché la musica non dipende dalla parola.

AAJ: Qualche anno fa hai dichiarato: «nella mia carriera non ho incontrato nessun ostacolo». Possibile?

P.D.: È vero, mi è andato tutto molto bene. Certamente ci sono stati momenti di dubbio, ma ostacoli veri e propri rispetto a un'idea di fare musica devo dire di no. Certo, poi ci sono degli ostacoli intorno all'essere musicista. Per esempio, due anni fa, quando il Comune di Roma è cambiato dalla giunta di centro-sinistra alla giunta di centro-destra ci ha tagliato un finanziamento e ha di fatto annullato un festival che esisteva da tredici anni e che era uno degli appuntamenti storici dell'estate romana. Ho tentato di parlare con l'assessore Croppi, ma non c'è stato niente da fare. Questo è stato un ostacolo spiacevole. Ma da queste situazioni nascono anche degli stimoli per andare avanti e creare qualcosa di nuovo. La scorsa estate, a Castel Gandolfo, insieme con gli organizzatori e con Danilo Rea, abbiamo cercato di inventare una cosa nuova, non solo con il jazz, ma anche con danzatori e angoli letterari. Questo tipo di iniziative hanno un futuro, magari sviluppando delle realtà didattiche nel territorio, sulle quali far leva per costruire cose più ricche, più importanti. Certo, oltre che agli investimenti, serve un sostegno culturale. Ma io sono molto fiducioso.

Foto di Roberto Cifarelli (la seconda, la terza e la quarta)

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