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Jazzfestival Saalfelden 2013

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Si dice che il modo peggiore di raccontare un festival sia quello del compilatore ossessivo. Inventario, classifica e magari pure i voti. Orrore! Il jazz è una cosa seria. L'arte, per Giove e per Diana, è una cosa seria. Ma classificare e giudicare è divertente. Per chi scrive e per chi legge. E allora prendiamoci qualche rischio (togliendoci pure lo sfizio di buttare lì qualche giudizio). Il 34esimo festival di Saalfelden ve lo raccontiamo dando i numeri. Chi ha entusiasmato, chi ha convinto, chi è passato senza lasciare il segno, chi ha deluso.

Il cartellone, anche se un po' meno entusiasmante di quello stellare targato 2012, ha offerto stimoli e spunti in quantità. D'altronde Saalfelden è Saalfelden. La terra dell'abbondanza per chi è abituato alle italiche miserie. Tranquilli: niente geremiadi sulla pochezza delle rassegne di casa nostra. Cose che si sanno. Stavolta tiriamo dritto, apriamo il registro e veniamo al dunque.

DIECI PIÙ

Agli Angles 10. Massimo dei voti con lode. Il concerto che più ha entusiasmato. Per la potenza, la forza d'urto, l'intensità. E pensare che Martin Küchen e soci erano fermi ai box da qualche mese. «Non ci esibivamo da un pezzo», ha svelato a sipario abbassato il sassofonista svedese. Nessuno se n'è accorto. Fin dall'attacco dell'iniziale "By Way of Deception," che abitualmente apre i set degli scandinavi, l'aria si è fatta tesa, l'atmosfera incandescente. Non una sbavatura, non un riff buttato lì a gratis. Un copione preciso, impeccabile. Eppure così naturale, fluido, travolgente. Nel calderone Mingus, l'Art Ensemble, l'Africa di Fela e i Balcani, un pizzico di Sud America, Sun Ra e chissà che altro ancora. Un intruglio infernale, portato alla massima temperatura da una formazione allargata a due ulteriori elementi rispetto alle ultime uscite: una batteria in più, quella del Fire! e Wildbirds & Peacedrums Andreas Werliin, e una seconda tromba, il fido Magnus Broo, tornato all'ovile a fianco del suo rimpiazzo pro tempore Goran Kajfes. Dieci teste, venti mani, un suono soltanto. C'è sangue nella musica degli Angles. Andrebbe sguinzagliata per le strade, urlata nelle piazze. È il jazz che ancora stura le orecchie e smuove le coscienze. "Every Woman Is a Tree" e "Today Is Better Than Tomorrow" i momenti da incorniciare e appendere al muro. Presto in Italia, si dice. E presto un nuovo disco, con nuove composizioni. Che Iddio ce li conservi.

NOVE E MEZZO

Al Tower Bridge di Marc Ducret. Che a Saalfelden ha portato la versione extra large, quella con dodici elementi, del progetto già declinato in solo, in quartetto, quintetto e sestetto. Una sventola mica da ridere l'esibizione del super gruppo franco-danese-americano (ospiti, tra gli altri, Tim Berne, Tom Rainey e Dominique Pifarély). Ancorata a una sezione fiati tendente all'oscurità - tre tromboni tre e un sassofono basso -, la formazione ha cavalcato le fitte partiture del chitarrista con passo marziale. Pulsazioni urbane in sottofondo, metriche zoppicanti, melodie strascicate, improvvisi deragliamenti, spuntoni e spigoli a bizzeffe. Un gioco di contrasti, di collisioni. È il jazz dei giorni nostri. Velenoso e problematico senza perdere la tenerezza. E i dettagli, come sempre, a fare la differenza. Presto su disco.

OTTO

A una doppia coppia. Han Bennink - Uri Caine e Tony Malaby - Tom Rainey; pianoforte- batteria e sax-batteria. Geometrie standard, linguaggi consolidati. Eppure, quando la classe va a braccetto con l'integrità, il già sentito cede il passo allo stupore. Malaby e Rainey, che incrociano spesso gli strumenti, hanno dato vita a un dialogo struggente, intenso. Nei pieni e nei vuoti. Figlio di Coleman Hawkins, Malaby è uno dei tenoristi più completi ed emozionanti che ci siano in circolazione; elegantissimo e implacabile, Rainey è dotato di una sensibilità prodigiosa. Risultato: un'ora abbondante di jazz con la "J" maiuscola. Più scoppiettante il duo Bennink-Caine (all'attivo il CD Sonic Boom). Un po' per il consueto e irrefrenabile istrionismo del lungagnone olandese (sdraiato, in piedi, dietro il sipario, solo con il rullante, senza rullante, tavolino al posto del rullante, bacchetta infilata in bocca e poi dietro la testa a mo' di penna indiana); un po' per le squisite venature "stride" del pianoforte di Caine, perfettamente a suo agio con il più "retrò" dei batteristi d'avanguardia. Ellington, Earl Hines, Horace Silver, Monk. Sinistra martellante, destra libera di svolazzare. Tenere testa a un Bennink in versione Gene Krupa non è facile. Il rischio è di essere travolti, persino ridicolizzati. Ma Caine è un signor pianista, credibile persino nella sciancata rilettura di "Maple Leaf Rag". Sorriso largo e cuore leggero. Il jazz è anche questo.

SETTE E MEZZO

Strameritato per il batterista tedesco Christian Lillinger, calato in Austria con il settetto Grund (al debutto nel recente Second Reason, uscito, non a caso, per la portoghese Clean Feed). Ciuffo a parte (un colpo di spazzola e una sistemata ai capelli; una rullata e una sistemata ai capelli; charleston-ride-charleston e una sistemata ai capelli), il giovanotto è un signor musicista, dotato di un drumming ipercinetico e di una felicissima vena compositiva. Siamo dalle parti della meglio New York, quella che si specchia nella nuova scena di Brooklyn. Ritmica pesante: batteria, due contrabbassi, pianoforte e vibrafono. Strutture, strutture e ancora strutture. Gabbie e reticolati che i sette sul palco (ottimi Pierre Borel e Tobias Delius alle ance) si sono divertiti a fare a pezzi. Sorprendente, inatteso. Forse anche per questo ha scalato la classifica.

SETTE

La schiera dei «bel concerto!» è piuttosto nutrita. Iniziamo dal trio Plutino: Bobby Previte alla batteria (tutte sue le composizioni), Beppe Scardino al sax baritono e al clarinetto basso e Francesco Diodati alla chitarra elettrica. Strana triangolazione quella italo-americana. La penna di Previte ha tracciato percorsi accidentati per i compagni di viaggio: sferraglianti e rugginose le sei corde di Diodati; intenso Scardino, implacabile nella logica dei suoi assoli. Tendente al "dark" l'impasto, un'oscurità strisciante che sa di Morphine e Downtown. A bersaglio, insomma. Molto meglio dal vivo che su disco. Unico neo la presenza di un quarto incomodo: il sassofonista Fabian Rucker, ospite a sorpresa. Non che l'austriaco trapiantato a New York manchi di stoffa. Ma nel complesso l'esibizione ne ha risentito, sfilacciandosi qua e là.

Sette pieno anche per il bis concesso da Previte, risalito sul palco nelle fila del quartetto Omaha Diner, completato da Steven Bernstein alla tromba (slide e a pistoni), Skerik al tenore e Charlie Hunter alla chitarra. In scaletta solo brani che hanno raggiunto la prima posizione nelle pop chart americane: da Terence Trent D'Arby a Eminem, dai Duran Duran ai Guns N' Roses. Evidente l'intento parodistico: faccia tosta, un pizzico di sano esibizionismo e tanto divertimento. Ovazione più che meritata.

Altamente energetica pure la proposta di Jon Madof e dei suoi Zion80. Il sottotitolo, Jewish Afro Beat, dice praticamente tutto. Portentosa la sezione fiati (Matt Darriau e Sarah Manning al contralto, Ben Holmes alla tromba e Briggan Krauss al baritono); tre chitarre (compresa quella del leader, a conti fatti la meno ispirata), batteria, percussioni e il basso elettrico del mai meno che fenomenale Shanir Blumenkranz. Piedino a tenere il ritmo e pubblico in visibilio. Ricetta gustosa cucinata come si deve.

In coda alle cose belle l'Uri Caine in salsa Gershwin. Notevole. Soprattutto nella prima parte, cadenzata da una complessa ed entusiasmante rilettura della "Rhapsody in Blue". Certosino l'arrangiamento per i fedelissimi Ralph Alessi (tromba), Chris Speed (tenore e clarinetto), Mark Helias (contrabbasso), Joyce Hammann (violino) e Jim Black (batteria). Rigida la partitura, sorprendente lo sviluppo. Decisamente più prevedibile la sezione "canzoni," con le voci di Barbara Walker e Theo Bleckmann a menare le danze. Godibili ma un tantino risapute le varie "Someone to Watch Over Me," "They Can't Take That Away from Me" e "Let's Call the Whole Thing Off".

SEI

Una mezza delusione. Vabbé, esibirsi dopo gli Angles 10 non sarebbe stato facile per nessuno. Ma dal quartetto Blazing Beauty di Brandon Ross era lecito attendersi qualcosa di più. Se non altro per i nomi dei sodali: Ron Miles (tromba), Stomu Takeishi (basso acustico) e Tyshawn Sorey (batteria). Una formazione stellare, che prometteva scintille. Ma di scintille, e di stelle, se ne sono viste poche. Qualche passaggio più che riuscito (soprattutto per merito di Takeishi), un paio di struggenti canzoni, ma la fiamma non si è accesa. Questione di pelle.

CINQUE PIÙ

Il più per la stima. Immensa, granitica. Ma non tutte le ciambelle, anche nelle migliori panetterie, riescono col buco. Wadada Leo Smith a Saalfelden ha deluso. Era l'evento più atteso in cartellone: la prima europea del progetto fiume dedicato alla lotta per i diritti civili degli afroamericani (immortalato dallo splendido quadruplo licenziato dalla Cuneiform). Sul palco il Golden Quartet (il trombettista, Anthony Davis, John Lindberg e Pheeroan akLaff) con il Pacifica Red Coral (due violini, viola, violoncello e arpa). L'avvio è rarefatto. Si attende il decollo. Ma la band non si stacca da terra. Smith suona poco, pochissimo. È teso, preoccupato. Suggerisce, impone, riprende i musicisti (soprattutto Davis, che ha passato più tempo a sfogliare gli spartiti che a pigiare i tasti del pianoforte). Si va. Non si va. Ecco, ci siamo. Niente da fare. La musica non gira. Spazi angusti per il quartetto, eccessivi quelli concessi alle asfittiche partiture per archi. Il disco vive di un (quasi) perfetto equilibrio; la versione live portata a Saalfelden quell'equilibrio l'ha smarrito per strada. Se ne accorge anche Wadada, che in un estremo tentativo di salvare il salvabile taglia in rigorosa diretta gran parte del finale. Poi gli applausi. Timidissimi. Leo Smith si gira verso il pubblico. Sembra quasi chiedere scusa. Un gesto umano e commovente. Bisbiglia qualcosa. Si inchina. È andata male.

CINQUE

I prescindibili. Primo fra tutti John Medeski. Fresco di battesimo discografico con A Different Time, il reuccio dell'Hammond ha ribadito un concetto stranoto: il piano solo non perdona. Se non sai dove andare, se non hai una "visone," se sei "soltanto" un ottimo pianista, finisci per appiattirti su luoghi comuni e cliché. Così è stato.

Dimenticabile pure il quintetto del contrabbassista Scott Colley. Mainstream di ottima fattura, per carità, suonato come dio comanda. Pulito Ralph Alessi; geometrico Antonio Sanchez. Ma alla fine che resta? Poco, quasi niente. Il cuore non batte.

Più calda la musica proposta dal trio Down Deep di Ernst Reijseger. Se non altro perché la presenza di Mola Sylla non può lasciare indifferenti. Stregone e incantatore, il cantante senegalese è in grado di evocare spiriti ancestrali e tribù danzanti. Peccato che il pianoforte di Harmen Fraanje, fuori luogo e pasticcione, abbia finito per mandare tutto a carte e quarantotto.

Infine gli Action Figures del pianista austriaco David Helbock, che ha voluto in squadra Tony Malaby, Marcus Rojas e Christian Lillinger. Il festival, come fa ogni anno per il primo artista di casa che sale sul main stage, gli ha concesso carta bianca. Helbock i compagni se li è scelti bene. Ma non bastano i cavalli, bisogna saper farli trottare.

NON GIUDICABILE

Alla scheggia impazzita del festival. La mina vagante. Keiji Haino: chitarrista, noiser, performer, inquietante presenza, impavido sperimentatore, alchimista del suono. A volerlo il trombettista Franz Hautzinger, catalizzatore di situazioni, uno che ha il grande pregio di far succedere le cose (ricordate la "Regenorchester XII" con Otomo e Fennesz?). Ci è riuscito anche stavolta. Prima in un improbabile duo. Poco più di un'ora di musica disturbante, sinistra. Il giapponese dalla canuta chioma ha iniziato sferragliando alla chitarra. Quel che ci si aspettava. Ma ben presto ha mollato le sei corde per dedicarsi al "canto": urla, contorsioni, sparate a tutto volume, parole sbiascicate, sussurri e grida. Un assalto all'arma bianca. E infatti è stato subito un fuggi fuggi di cuori pavidi. Spettatori in preda al panico che ai festival ci vanno per puntellare le certezze. Keiji, per fortuna, di certezze non ne offre. Nemmeno a chi lo tampina da anni. Il segreto per farselo amico è credere, credere e ancora credere. Più "accomodante" il quartetto Big Rain: Hautzinger, il samurai giapponese, Jamaaladeen Tacuma al basso elettrico e Hamid Drake alla batteria. Qui l'appiglio era gentilmente offerto dalla sezione ritmica, con Tacuma e Drake a macinare funk. In autistica sovrapposizione la tromba elettronica di Hautzinger e la chitarra affilata di Keiji. Un concerto senza capo né coda. Assurdo. Inutile. Roba che solo ai festival. In una parola: meraviglioso.

Foto di Claudio Casanova.

Per la galleria foto del concerto di Franz Hautzinger & Keiji Haino clicca qui


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