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Jaimie Branch: o voli o muori!
Un esordio a trentaquattro anni suonati non capita tutti i giorni di vederlo ma se i risultati sono questi beh, possiamo anche sorvolare sull'età anagrafica della protagonista. Coadiuvata da tre dei musicisti chicagoani più talentuosi, Chad Taylor, Tomeka Reid e Jason Ajemian, Jaimie 'Breezy' Branch ha pubblicato uno dei dischi jazz più freschi e interessanti di questo 2017, Fly or Die. Abbiamo fatto due chiacchiere con Jaimie e questo è quello che è emerso.
All About Jazz: Partiamo dal tuo disco di debutto, Fly or Die, un album fresco e accattivante. Quando hai cominciato a lavorarci?
Jaimie Branch: Tutto è cominciato a maggio del 2016, ma la band era completa già da gennaio dello stesso anno.
AAJ: "Theme Nothing" ha una melodia che rimane impressa già al primo ascolto. Come nasce questo brano?
JB: "Theme Nothing" parte da una semplice melodia che mi è rimasta in testa per un sacco di tempo, ma avevo in realtà molti dubbi sul proporla al resto della band. La notte prima delle prove con i ragazzi ero a casa con Tomeka e ne ho approfittato per provare con lei quella linea melodica: funzionò alla grande. Il giorno dopo, non restò altro che proporla alla band!
AAJ: Parlaci un po' della tua città natale, Chicago. Hai detto che vorresti che New York suonasse un po' come Chicago. Cosa intendi con questa affermazione?
JB: Devi sapere che New York e Chicago hanno una lunga tradizione e forse anche una certa rivalità. Sotto alcuni aspetti, ho notato un atteggiamento totalmente diverso tra le due comunità. Per esempio, a New York è più difficile per i giovani musicisti confrontarsi musicalmente con altri della scena locale. A Chicago, questo è molto più facile.
AAJ: Ora che hai vissuto un po' di tempo a New York e hai intessuto rapporti con i musicisti di quella scena, ci puoi dire quali siano le differenze maggiori tra le due città?
JB: Uhm, beh... in primo luogo New York è molto più grande di Chicago...[ride] e ogni settimana emerge un musicista nuovo. È una scena enorme quella di New York, in cui i musicisti fanno di tutto per emergere e per cercare concerti. C'è molta competitività. A Chicago, una piazza decisamente più piccola, ci si focalizza più sul gruppo che sul singolo. Entrambi i posti producono musica a livelli altissimi, con tanta energia.
AAJ: Uno dei momenti più interessanti del tuo documentario su YouTube è quello in cui parli del modo in cui scrivi le tue partiture. Ci puoi spiegare un po' di questo processo?
JB: Tutte le partiture del disco stanno in appena tre pagine, quattro se si considera la musica scritta per il trio di cornette [in cui Branch suona con Ben LaMar Gay e Josh Berman, NdR]. Annoto piccoli frammenti di idee, della melodia, della linea di basso, delle improvvisazioni e di qualsiasi cosa mi passi per la testa. È un mix di notazione tradizionale, segni grafici e istruzioni per la band.
AAJ: Quanto è stato importante per la tua formazione Don Cherry?
JB: Don Cherry è stato fondamentale. La prima volta che l'ho ascoltato è stato in The Shape of Jazz to Come con Ornette Coleman. Era il 1999 e ho pensato che fosse un album nuovo e non un album con già quarant'anni sulle spalle. Era così fresco, così nuovo e così diverso da tutte le cose che ascoltavo in giro. Adoro tutta la sua discografia, sia quella con Ornette che il periodo di Organic Music Society. Credo che Brown Rice, sia un disco incredibile!
AAJ: Per ogni musicista è sempre difficile scegliere la propria composizione preferita. Se fossi obbligata a questa scelta, quale sarebbe il brano di Fly or Die per te più importante e significativo?
JB: Domanda difficilissima: se dovessi scegliere direi "Storm." Perché tutto nasce live e perché adoro il sound del brano, il lavoro sui tom di Chad [Taylor, NdR] è eccezionale. È stato quasi catartico registrarla, in alcuni momenti sembra quasi che non sia io a suonare la cornetta. Amo veramente questa composizione.
AAJ: In una intervista hai detto che volevi che Fly or Die avesse la stessa durata di Pinkerton dei Weezer, perché è breve e lo puoi ascoltare all'infinito. In un passaggio sempre del tuo documentario, ci sei tu seduta in cucina con in sottofondo "Halle Berry" di Kendrick Lamar. Quanto è stato importante l'hip-hop nella tua crescita musicale?
JB: In realtà, quando ero ragazzina, tutto è partito dal punk-rock. Il jazz e l'hip-hop sono arrivati solo successivamente. Ho diverse "voragini" musicali, per esempio negli anni ottanta di cui so veramente pochissimo, a parte Madonna naturalmente (ride). Molto band di Chicago mi hanno formato, come Shellac, Big Black e Gastr Del Sol. L'hip-hop è arrivato successivamente e sì, Kendrick è uno dei miei artisti preferiti.
AAJ: Quali sono i tuoi progetti futuri?
JB: Ho diversi progetti: uno è un trio che fa una roba totalmente diversa e totalmente improvvisata, un altro si chiama Antiloper ed è un duo con quel fantastico batterista che è Jason Nazary dei Little Women che in questo progetto suona anche i synth. A brevissimo entreremo in sala di registrazione.
AAJ: Cosa stai ascoltando ultimamente?
JB: Ho sentito il nuovo di Kendrick Lamar a cui però continuo a preferire Untitled/Unmastered. Recentemente sto ascoltando molto una band di Chicago che si chiama Bottle Tree che ha pubblicato un album omonimo fantastico. Il nuovo di Jacob Kart è in heavy rotation a casa mia e lo si può trovare per ora solo su Soundcloud.
AAJ: In un vecchio video su YouTube (credo che sia del 2008), spieghi diversi processi di missaggio in studio di registrazione e parli anche del vinile. Ora, quasi dieci anni dopo quell'intervista, il vinile è tornato alla grandissima, raggiungendo cifre di vendita impressionanti. Come stai vivendo il ritorno di questo supporto?
JB: Sono una fruitrice del vinile da quando sono ragazzina, ho lavorato per lungo tempo anche in un negozio di dischi. È stato interessante assistere al declino del CD e il ritorno del vinile. In un periodo in cui nessuno ha un supporto da ascoltare a casa, in un periodo di musica liquida ascoltata con i telefoni e su Spotify, il ritorno del vinile è un bel segnale.
AAJ: Quali sono i dischi che hanno cambiato la tua vita, come persona e come musicista?
JB:
Miles Davis: 58 Sessions
Evan Parker Trio: Atlanta
Cam'ron: Purple Haze
Eric Dolphy: At the Five Spot
Steve Lacy: The Rent
Don Cherry: Brown Rice
Foto: Luciano Rossetti
All About Jazz: Partiamo dal tuo disco di debutto, Fly or Die, un album fresco e accattivante. Quando hai cominciato a lavorarci?
Jaimie Branch: Tutto è cominciato a maggio del 2016, ma la band era completa già da gennaio dello stesso anno.
AAJ: "Theme Nothing" ha una melodia che rimane impressa già al primo ascolto. Come nasce questo brano?
JB: "Theme Nothing" parte da una semplice melodia che mi è rimasta in testa per un sacco di tempo, ma avevo in realtà molti dubbi sul proporla al resto della band. La notte prima delle prove con i ragazzi ero a casa con Tomeka e ne ho approfittato per provare con lei quella linea melodica: funzionò alla grande. Il giorno dopo, non restò altro che proporla alla band!
AAJ: Parlaci un po' della tua città natale, Chicago. Hai detto che vorresti che New York suonasse un po' come Chicago. Cosa intendi con questa affermazione?
JB: Devi sapere che New York e Chicago hanno una lunga tradizione e forse anche una certa rivalità. Sotto alcuni aspetti, ho notato un atteggiamento totalmente diverso tra le due comunità. Per esempio, a New York è più difficile per i giovani musicisti confrontarsi musicalmente con altri della scena locale. A Chicago, questo è molto più facile.
AAJ: Ora che hai vissuto un po' di tempo a New York e hai intessuto rapporti con i musicisti di quella scena, ci puoi dire quali siano le differenze maggiori tra le due città?
JB: Uhm, beh... in primo luogo New York è molto più grande di Chicago...[ride] e ogni settimana emerge un musicista nuovo. È una scena enorme quella di New York, in cui i musicisti fanno di tutto per emergere e per cercare concerti. C'è molta competitività. A Chicago, una piazza decisamente più piccola, ci si focalizza più sul gruppo che sul singolo. Entrambi i posti producono musica a livelli altissimi, con tanta energia.
AAJ: Uno dei momenti più interessanti del tuo documentario su YouTube è quello in cui parli del modo in cui scrivi le tue partiture. Ci puoi spiegare un po' di questo processo?
JB: Tutte le partiture del disco stanno in appena tre pagine, quattro se si considera la musica scritta per il trio di cornette [in cui Branch suona con Ben LaMar Gay e Josh Berman, NdR]. Annoto piccoli frammenti di idee, della melodia, della linea di basso, delle improvvisazioni e di qualsiasi cosa mi passi per la testa. È un mix di notazione tradizionale, segni grafici e istruzioni per la band.
AAJ: Quanto è stato importante per la tua formazione Don Cherry?
JB: Don Cherry è stato fondamentale. La prima volta che l'ho ascoltato è stato in The Shape of Jazz to Come con Ornette Coleman. Era il 1999 e ho pensato che fosse un album nuovo e non un album con già quarant'anni sulle spalle. Era così fresco, così nuovo e così diverso da tutte le cose che ascoltavo in giro. Adoro tutta la sua discografia, sia quella con Ornette che il periodo di Organic Music Society. Credo che Brown Rice, sia un disco incredibile!
AAJ: Per ogni musicista è sempre difficile scegliere la propria composizione preferita. Se fossi obbligata a questa scelta, quale sarebbe il brano di Fly or Die per te più importante e significativo?
JB: Domanda difficilissima: se dovessi scegliere direi "Storm." Perché tutto nasce live e perché adoro il sound del brano, il lavoro sui tom di Chad [Taylor, NdR] è eccezionale. È stato quasi catartico registrarla, in alcuni momenti sembra quasi che non sia io a suonare la cornetta. Amo veramente questa composizione.
AAJ: In una intervista hai detto che volevi che Fly or Die avesse la stessa durata di Pinkerton dei Weezer, perché è breve e lo puoi ascoltare all'infinito. In un passaggio sempre del tuo documentario, ci sei tu seduta in cucina con in sottofondo "Halle Berry" di Kendrick Lamar. Quanto è stato importante l'hip-hop nella tua crescita musicale?
JB: In realtà, quando ero ragazzina, tutto è partito dal punk-rock. Il jazz e l'hip-hop sono arrivati solo successivamente. Ho diverse "voragini" musicali, per esempio negli anni ottanta di cui so veramente pochissimo, a parte Madonna naturalmente (ride). Molto band di Chicago mi hanno formato, come Shellac, Big Black e Gastr Del Sol. L'hip-hop è arrivato successivamente e sì, Kendrick è uno dei miei artisti preferiti.
AAJ: Quali sono i tuoi progetti futuri?
JB: Ho diversi progetti: uno è un trio che fa una roba totalmente diversa e totalmente improvvisata, un altro si chiama Antiloper ed è un duo con quel fantastico batterista che è Jason Nazary dei Little Women che in questo progetto suona anche i synth. A brevissimo entreremo in sala di registrazione.
AAJ: Cosa stai ascoltando ultimamente?
JB: Ho sentito il nuovo di Kendrick Lamar a cui però continuo a preferire Untitled/Unmastered. Recentemente sto ascoltando molto una band di Chicago che si chiama Bottle Tree che ha pubblicato un album omonimo fantastico. Il nuovo di Jacob Kart è in heavy rotation a casa mia e lo si può trovare per ora solo su Soundcloud.
AAJ: In un vecchio video su YouTube (credo che sia del 2008), spieghi diversi processi di missaggio in studio di registrazione e parli anche del vinile. Ora, quasi dieci anni dopo quell'intervista, il vinile è tornato alla grandissima, raggiungendo cifre di vendita impressionanti. Come stai vivendo il ritorno di questo supporto?
JB: Sono una fruitrice del vinile da quando sono ragazzina, ho lavorato per lungo tempo anche in un negozio di dischi. È stato interessante assistere al declino del CD e il ritorno del vinile. In un periodo in cui nessuno ha un supporto da ascoltare a casa, in un periodo di musica liquida ascoltata con i telefoni e su Spotify, il ritorno del vinile è un bel segnale.
AAJ: Quali sono i dischi che hanno cambiato la tua vita, come persona e come musicista?
JB:
Miles Davis: 58 Sessions
Evan Parker Trio: Atlanta
Cam'ron: Purple Haze
Eric Dolphy: At the Five Spot
Steve Lacy: The Rent
Don Cherry: Brown Rice
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