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Avishai Cohen: Into the Silence
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Titolo rivelatore se mai album ne ebbe uno: dentro e intorno al silenzio questo ragguardevole lavoro del trentottenne trombettista israeliano si muove e individua la sua stessa ragion d'essere. Intendiamoci: di silenzio, in senso cageano o meno, non ce n'è affatto, e tuttavia èfilosoficamente e poeticamentequesto il punto di partenza (e forse d'arrivo) del disco, nella misura in cui come anelito di (e tensione verso il) silenzio s'intenda un senso di spogliamento, di prosciugamento, di essenzialità e totale assenza di retorica o ridondanza.
Di primo acchito ("Life and Death") il quintetto protagonista del lavoro sembra posizionarsi abbastanza in prossimità di quello del nostro Paolo Fresu (ma anche un Tomasz Stańko, di cui pure mancano certe sterzate in curva, certe irregolarità di percorso, potrebbe avanzare qualcosa in proposito), impressione che lascia però quasi subito il posto all'ascoltoovviamente del tutto autosufficientedel disco in quanto tale. Così "Dream Like a Child," felicemente sospeso in avvio, per poi vedere la temperatura salire, soprattutto sul versante ritmico, con l'ingresso dei fiati, conferma come tutto proceda molto sorvegliato, ponendo sempre in primo piano il lavoro d'équipe, per quanto sia fisiologicamente la tromba a guidare la truppa.
Un avvio pacato ma nervoso, almeno nell'uso della batteria, annuncia il brano che intitola l'album, con una serpeggiante tensione quintessenziata nel solo centrale della tromba, che ha qualcosa (non solo qui, del resto) del Davis di Bitches Brew, soffice e perentorio, e più in generale dello stesso quintetto, come approccio nell'economia globale e, in particolare, nel dialogo col sax tenore.
Relax, linearità e grande raffinatezza contrassegnano "Quiescence," mentre più vitale, sia pure sulla linea appena descritta, risulta "Behind the Broken Glass," che ribadisce come ci troviamo di fronte a una musica comunque eminentemente corale, per quanto l'epilogo (sempre battezzato "Life and Death"), un po' eccentrico rispetto al contesto, sia affidato al solo pianoforte.
Disco di grande fascino e ferrea coerenza intestina.
Di primo acchito ("Life and Death") il quintetto protagonista del lavoro sembra posizionarsi abbastanza in prossimità di quello del nostro Paolo Fresu (ma anche un Tomasz Stańko, di cui pure mancano certe sterzate in curva, certe irregolarità di percorso, potrebbe avanzare qualcosa in proposito), impressione che lascia però quasi subito il posto all'ascoltoovviamente del tutto autosufficientedel disco in quanto tale. Così "Dream Like a Child," felicemente sospeso in avvio, per poi vedere la temperatura salire, soprattutto sul versante ritmico, con l'ingresso dei fiati, conferma come tutto proceda molto sorvegliato, ponendo sempre in primo piano il lavoro d'équipe, per quanto sia fisiologicamente la tromba a guidare la truppa.
Un avvio pacato ma nervoso, almeno nell'uso della batteria, annuncia il brano che intitola l'album, con una serpeggiante tensione quintessenziata nel solo centrale della tromba, che ha qualcosa (non solo qui, del resto) del Davis di Bitches Brew, soffice e perentorio, e più in generale dello stesso quintetto, come approccio nell'economia globale e, in particolare, nel dialogo col sax tenore.
Relax, linearità e grande raffinatezza contrassegnano "Quiescence," mentre più vitale, sia pure sulla linea appena descritta, risulta "Behind the Broken Glass," che ribadisce come ci troviamo di fronte a una musica comunque eminentemente corale, per quanto l'epilogo (sempre battezzato "Life and Death"), un po' eccentrico rispetto al contesto, sia affidato al solo pianoforte.
Disco di grande fascino e ferrea coerenza intestina.
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