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Intervista a Tommaso Cappellato

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A causa di un lungo periodo trascorso negli Stati Uniti e in altri Paesi, Tommaso Cappellato è ancora poco noto al pubblico ma l'uscita del suo disco Open (Elefante Rosso, 2009) ha suscitato interesse tra gli addetti ai lavori. Il batterista padovano guida un giovane e intrigante quartetto internazionale di taglio contemporaneo che abbraccia riferimenti diversi, ponendosi in bell'equilibrio tra passato e presente. Di questo lavoro e delle sue esperienze statunitensi, abbiamo parlato in quest'intervista.

All About Jazz Italia: Nel tuo ultimo disco, intitolato Open, guidi un quartetto comprendente il sassofonista Michael Blake, il pianista Giovanni Guidi e il contrabbassista Joe Rehmer. Tutti i brani sono scritti da te in una linea piacevolmente innovativa. Ci vuoi spiegare com'è nato?

Tommaso Cappellato: Alcuni brani li avevo già scritti in precedenza a prescindere dal gruppo, altri li ho pensati specificatamente per questo organico. Introduco la genesi di questa formazione. Come sai ho vissuto quasi dieci anni a New York e sono tornato in Italia alla fine del 2005. Per i primi due anni e mezzo ho lavorato come sideman, poi sono andato tre mesi in Australia dove ho sentito la necessità di creare un mio gruppo. Conoscendo bene le cose che fa Giovanni e avendo suonato con Michael a New York ho subito pensato a loro come ai componenti ideali per un mio primo progetto. In un secondo momento s'è unito Joe. Tornato in Italia li ho contattati e pochi mesi dopo, a novembre del 2008, abbiamo dato il nostro primo concerto al Torrione di Ferrara. La prima uscita ufficiale del gruppo è stata prodotta dal mio amico libanese Rabih Beaini, un produttore di musica elettronica e avant-jazz, che nel natale 2008 pubblicò un vinile intitolato The Knight utilizzando un brano da quel concerto: da un lato c'e' la versione originale mentre nel retro lo stesso brano l'aveva remixato aggiungendoci elementi di musica elettronica.

Nel maggio successivo abbiamo effettuato un tour e con l'occasione abbiamo registrato in studio a Udine l'album Open, anche questo pubblicato dall'etichetta Elefante Rosso.

AAJ: Sei soddisfatto del lavoro?

T.C.: Sono molto contento soprattutto perché sono andato in sala senza avere troppi preconcetti sul lavoro. Volevo che fosse l'energia del momento a far accadere le cose ed in effetti è successo questo. Il suono risulta estrememente pulito grazie sia allo studio che al missaggio che ho curato assieme al fonico con cui lavoro di solito.

AAJ: Tu hai iniziato a suonare già nell'infanzia, a Padova. La tua famiglia aveva un positivo approccio con la musica?

T.C.: Mio papà era un musicista che negli anni sessanta cantava in gruppi beat. Amava però tutti gli stili e fin da piccolo mi portava ad ascoltare concerti di musica classica, jazz e rock. Mi sono rimasti impressi Enrico Pieranunzi in piano solo, i Bass Desires di Marc Johnson, Don Cherry con Cecil Taylor al Teatro Filarmonico di Verona ed ancora il trio di Paul Bley con Steve Swallow e Jimmy Giuffre.

AAJ: Qual è stato il tuo primo strumento?

T.C.: Ad otto anni avevo preso lezioni di pianoforte ma non mi interessava: l'approccio dell'insegnante era stato troppo rigido ed io con la disciplina ho sempre avuto un po' di problemi.

Invece qualche anno dopo sviluppai una passione incredibile per la batteria ma stranamente mio padre non mi permise di prendere lezioni private fino all'età di 17 anni quando si rese conto che la passione continuava.

AAJ: Suonavi già in qualche band giovanile?

T.C.: Si, avevo iniziato a suonare in qualche gruppo rock ma quella musica non l'ascoltavo e non mi interessava granchè. Dovevo quindi improvvisare perché non conoscevo i pezzi dei Led Zeppelin o degli altri gruppi di allora. Invece una sera - avevo 15 o 16 anni - andai ad un concerto di Jovanotti con degli amici e dopo ci trasferimmo in un jazz club gestito da Max De Giorgio, un organizzatore ormai scomparso ed a cui devo molto. Parlo dei primi anni Novanta ed il locale era situato dentro il Burchiello (la barca storica che porta da Padova a Venezia via fiume), attraccato in uno dei canali di Padova.

Non ricordo chi suonasse quella sera ma l'atmosfera e l'energia erano incredibili e mi colpirono profondamente. Capii in quel momento che volevo far parte di quel mondo, di quell'atmosfera.

In quel locale ho visto Massimo Urbani prima che morisse, Nat Adderley, i fratelli Tonolo, Maurizio Caldura e tanti altri. Nel frattempo saccheggiavo la discoteca jazz di mio papà, passando attraverso Miles Davis, John Coltrane, Dizzy Gillespie eccetera.

AAJ: Chi sono stati i primi insegnanti significativi?

T.C.: Le prime esperienze didattiche le ho avute a Boston. Facevo la prima liceo classico e inaspettatamente ero stato promosso. I miei vollero premiarmi ed io espressi il desiderio di fare un corso alla Berklee. Purtroppo era già tardi per iscriversi ma restai a Boston due mesi restando ovviamente entusiasta dell'ambiente.

Tornato a Padova iniziai a prendere lezioni alla scuola di musica Gershwin da Enzo Carpentieri che mi ha insegnato molto dal punto di vista formale anche se la massima influenza in termini di feeling l'ho avuta da Max Chiarella. Da loro ho avuto le basi che ho perfezionato successivamente a New York.

AAJ: A New York sei rimasto dieci anni. Ci racconti le vicende che ti hanno portato nella Big Apple?

T.C.: Dopo il diploma m'ero iscritto alla facoltà di architettura dove sono rimasto un anno. Da un lato non volevo deludere mio padre ma "il desiderio feroce" di cui parla Jarrett era troppo forte. Desiderio che mi spingeva non solo verso il jazz ma a stabilirmi a New York. Dentro di me continuavo a pensare: "Se io faccio una scelta voglio farla fino in fondo". Un certo giorno andai alla segreteria universitaria e feci la rinuncia agli studi e la richiesta di rinvio del militare. Con il militare mi andò bene -fui esonerato- e con la famiglia pure. Infatti dopo varie contrattazioni riuscii ad avere il loro appoggio economico e andai a studiare musica a New York, al Drummer Collective.

Poco tempo dopo feci la richiesta per ottenere una borsa di studio dalla New School University. Feci un'audizione - ricordo che c'era Reggie Workman al contrabbasso - e incredibilmente l'ottenni.

AAJ: La borsa bastava per sopravvivere a New York?

T.C.: No. Serviva a coprire parte delle tasse scolastiche. Io mi sono prodigato a trovare qualche lavoretto ma è solo grazie all'aiuto dei miei che ho potuto stare là. Dopo due anni invece venne l'ingaggio alla Rainbow Room del Rockfeller Center e la situazione economica cambiò radicalmente.

AAJ: Ci racconti com'è andata?

T.C.: È stato grazie ad un pianista formidabile che si chiama Matteo Alfonso. Suo padre, che all'epoca dirigeva l'Harris Bar di Venezia, ci offrì una cena al Rainbow Grill di New York un locale storico dove hanno suonato nomi storici del jazz. Quella sera al ristorante suonava un trio con un bassista che conoscevo, Pat O'Leary, che ci invitò a salire sul palco. Il gestore del ristorante vide che ci sapevamo fare e ci propose un ingaggio che, con partner diversi, andò avanti per due anni. Tra i pianisti ricordo un grande misconosciuto, amico di Bud Powell, che si chiamava Frank Hewitt, purtroppo ora deceduto, che allora abitava dentro l'ex frigorifero della cucina dello Smalls.

Hewitt ha esercitato una grande influenza su molti musicisti, ad esempio Kurt Rosenwinkel.

AAJ: Quali altre esperienze hai fatto a New York?

T.C.: In Italia io avevo conosciuto Jay Rodriguez, il sassofonista dei Groove Collective, che è stato un formidabile aiuto nella conoscenza dell'ambiente musicale di New York. Grazie a lui ho conosciuto il vibrafonista Bill Ware ed abbiamo costituito un trio che mi ha dato molto, sia dal punto di vista musicale che umano. Ho avuto poi modo di suonare con Marc Ribot, coi Jazz Passengers in un concerto in cui era coinvolta anche Debbie Harry, con Junior Mance, Clark Terry e molti altri veterani. Dopo l'11 settembre è iniziato un periodo strano: molti locali hanno chiuso, il lavoro scarseggiava e stavo riflettendo di tornare in Italia.

Invece è iniziata per me una parentesi affettiva e matrimoniale che è andata avanti per qualche anno e che mi ha visto fare esperienze musicali oltre il jazz. Tra le varie cose ho fondato col rapper Yah Supreme una band dai connotati hip-hop/soul dal nome Brohemian e prodotto il CD Post Modern Garden.

AAJ: Cosa ci dici della tua parentesi africana?

T.C.: Un mio amico musicista e musicologo, Stefano Marcato, s'era stabilito in Senegal e produceva dischi con musicisti locali che distribuiva tramite i canali del commercio equo e solidale. Mi invitò a registrare con un percussionista e cantante guineano dal talento mostruoso, Salif Bangoura. Purtroppo per vari motivi il disco non è stato pubblicato.

AAJ: Infine sei riapprodato in Italia...

T.C.: Si ho ripreso i contatti con Pietro Tonolo, suonando nel suo quartetto, ed anche adesso in varie altre occasioni. Ho poi lavorato parecchio come sideman (con Piero Odorici, Gianni Basso, Dado Moroni, Enrico Rava, Steve Grossman) e qualche americano di passaggio come George Cables.

AAJ: Consiglieresti ad un giovane musicista italiano di oggi di tentare la tua stessa esperienza?

T.C.: Dipende da cosa si è costruito qua. Io avevo tutto da guadagnare e lo rifarei se dovessi tornare indietro. È vero che allora non c'era la possibilità di comunicare in tempo reale attraverso l'internet ma l'esperienza in prima persona è impareggiabile ed il confronto diretto con un ambiente come quello di New York è altamente formativo. L'atmosfera è completamente diversa, il suono che senti nei club di New York non lo senti da nessun'altra parte. È l'energia che nasce dalla vita e dal modo di essere di quella metropoli.

AAJ: Chi sono i tuoi batteristi preferiti?

T.C.: Partendo dagli albori cito subito Papa Jo Jones, che ha rappresentato un'enorme influenza per me. Poi Roy Haynes, che copre un ampio spettro di stili, ed ovviamente Philly Joe Jones, Max Roach, Elvin Jones e Tony Williams. Tra i contemporanei Billy Hart, su cui scriverò un articolo molto presto, Jack DeJohnette ed ancora Bill Stewart, Brian Blade e Jeff Ballard.

Sono stato poi molto influenzato da Hamid Drake che recentemente è diventato anche un amico e da alcuni giovani musicisti come Joe Strasser, Dan Friedman o Kenny Wollesen, che operano a New York e sono meno noti al grande pubblico.

AAJ: Un'altra tua formazione è il trio Youngtet, che vede due giovanissimi talenti come il pianista Alessandro Lanzoni e il bassista Gabriele Evangelista.

Anche se sei ancora giovane che effetto ti fa passare nel ruolo del veterano?

T.C.: Sono due talenti naturali che hanno il jazz dentro ed io ho un po' il compito di dare una direzionalità al tutto. È qualcosa che vivo come una bella sfida. Usufruendo delle doti dei singoli musicisti cerco di fare una sintesi del gusto complessivo e di quello che mi piace, ovvero la dimensione ritmica. L'unico dubbio che ho riguarda il fatto di suonare modern mainstream oggi, una cosa che considero un po' obsoleta. Allo stesso modo è eccessivo per me operare esclusivamente nell'ambito della sperimentazione: amo invece stare nel mezzo, tra la vena melodica europea ed il groove ritmico legato alla tradizione afroamericana.

Foto di Davide Susa (la prima, la quinta, l'ottava e la nona) e Antonio Baiano (la terza e la settima).


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