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Intervista a Stefano Battaglia

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All About Jazz Italia: Il tuo Trio con Salvatore Maiore e Roberto Dani arriva al terzo capitolo, In the Morning, nel quale, pur conservando la propria identità, presenta due importanti novità: la principale è che la musica non è originale, bensì del compositore americano Alec Wilder. Perché questo passaggio dalla musica tua a quella di un autore di standards?

Stefano Battaglia: È un argomento interessante. Innanzitutto bisogna fare chiarezza su una parola, standard, che oggi è carica di così tanti significati da averli paradossalmente persi tutti. Se restituiamo all'attributo standard il suo reale significato, che è legato specificatamente alla forma canzone in uso nei musical americani di Broadway e Hollywood, allora bisogna dire che solo una piccola parte del repertorio immenso di Wilder è standard; se invece con quel termine intendiamo una consuetudine, una trasmissione orale, una sorta di latte materno con il quale sono cresciuti coloro che sono vissuti nell'età dell'oro della radio e del cinema americani, beh, allora anche in tempi di globalizzazione è effettivamente difficile immaginare che un jazzista di Seoul o di Roma sia cresciuto con quel repertorio.

Quest'ultima cosa, però, fa sì che per i non americani sia necessaria un'opera appassionata di avvicinamento e studio—cosa in realtà indispensabile anche per gli americani delle ultime generazioni, che è più facile che conoscano la musica popolare degli anni Novanta che non quella degli anni Venti o Cinquanta. Oramai è in effetti piuttosto fuorviante usare standard come sinonimo di tradizione orale, di repertorio, o di qualcosa di utile e ancor valido, se non per definire una forma. Una forma, tuttavia, ancora priva del proprio vestito, è questo il punto.

Io da anni tendo a semplificare, ad ambire a una de-idiomizzazione dell'universo musicale, soprattutto a immaginare la musica come un metalinguaggio universale, luogo realmente privo di confini non solo a parole ma nei fatti, dove non esiste la mia musica e la musica di altri, ma esiste solamente la musica. Chi ha reale passione e si interessa seriamente sia all'improvvisazione che alla composizione comprende che non è importante autoaffermarsi attraverso un ideale possesso di ciò che si suona, bensì di essere in grado di veicolare le parti essenziali di sé attraverso un mezzo espressivo—la musica, appunto—a prescindere dal linguaggio, dallo stile e dalla provenienza.

Da un punto di vista filosofico la musica non è mai mia; semmai io posso essere uno strumento per la musica, se ho lavorato bene. Invece, da un punto di vista estetico la musica è sempre la mia, perché qualsiasi cosa suoni sono in grado di veicolare parti essenziali di me, se ho lavorato bene.

Periodicamente ho bisogno di questo processo di identificazione e de-identificazione: è avvenuto negli anni '90 con la musica di Bill Evans e all'inizio del secolo con due volumi denominati The Book of Jazz.
Il confronto con le tradizioni, per un musicista, solitamente avviene in due fasi:
la fase iniziale, quella dell'infanzia, è solitamente la conditio sine qua non per sprofondare nella civiltà culturale da cui proviene o in cui vive e che lo circonda, della quale volente o nolente è permeato—si potrebbe chiamare "colazione alla sorgente";
la seconda fase, non sempre necessaria a tutti, si verifica quando si ha la coscienza di poter veicolare il proprio sé, la propria unicità indivisibile, anche attraverso alcune di quelle tradizioni; in sostanza, di poter dire qualcosa di sé anche attraverso forme e contenuti di altri o addirittura attraverso qualsiasi forma e contenuto di tradizione, dando così, potenzialmente, un piccolo contributo proprio all'espansione di questo o quel linguaggio—si potrebbe chiamare "trasformarsi in sorgente," esserne parte.
Negli anni '90 avevo deciso di lavorare su Bill Evans perché riconoscevo in lui una figura nodale, di doppio collegamento virtuoso, tra la comunità afroamericana e quella bianca, e contemporaneamente tra il jazz idiomatico e quello contaminato dalla musica europea. Ebbene, i motivi per cui mi decisi a intraprendere un'operazione tanto ambiziosa, specie per un trio europeo (c'erano Paolino Dalla Porta e Aldo Romano), furono—oltre all'amore per la musica di Evans che di per sé non interessa a nessuno—l'assoluta certezza di essere un pianista assai poco evansiano nello stile e la sensazione che Evans fosse sì molto imitato, a volte con risultati artigianalmente sublimi, ma assai poco suonato. Pensavo cioè che le sue composizioni meritassero attenzione e interpretazione più del suo stile, già abbondantemente storicizzato, studiato, evocato e rappresentato. Scoprii così che molti suoi pezzi tra le mie mani diventavano semplicemente un'altra cosa: questo era una ragione sufficiente per registrarli e portarli nelle sale e, nel contempo, un modo sano per esprimermi compiutamente in un contesto tradizionale e collegarmi con un universo poetico che amavo, tramandandolo nel tempo senza rimanerne schiacciato.

Dieci anni più tardi lo stesso processo è divenuto sotto certi aspetti ancor più ambizioso: ancora con Paolino, ma con [[Fabrizio Sferra}} alla batteria, abbiamo lavorato in modo trasversale su tutto l'arco tradizionale del jazz, sfidando la possibilità di creare qualcosa di esteticamente unitario e coeso pur accostando nello stesso programma composizioni di Earl Hines e Eric Dolphy, Duke Ellington e Keith Jarrett, Charlie Parker e Egberto Gismonti, Sidney Bechet e Ornette Coleman, Thelonious Monk e Kenny Wheeler. Tutto naturalmente attraverso un unico stile, per cui de-idiomizzando le composizioni e lavorando solo sui loro contenuti musicali, senza dunque mai imitarne l'universo poetico. Il senso era celebrare gli eroi del secolo passato in una sorta di classicità attraverso un amoroso processo di identificazione e de-identificazione, un sorta di manifesto di appartenenza al di qua dell'oceano e di continuità del percorso di trasformazione del linguaggio, senza però smarrire identità, le nostre caratteristiche individuali essenziali. Evitando di imitarne lo stile e, coscientemente, l'effetto cover, talvolta dunque trasfigurando in modo violento l'estetica originale, il vestito, ma avendo grande rispetto dei contenuti musicali profondi.

Seppur in modo diverso Wilder fa parte in tutto e per tutto proprio di questo processo per me necessario di confronto osmotico con varie tradizioni, ivi compresa quella americana del '900. Nel caso di Wilder vissuto attraverso un ambito doppio: la canzone e la musica da camera.

AAJI: Ma perché proprio Alec Wilder?

S.B.: Mi piace il mistero. Quando una musica è suonata a ripetizione è come se venisse continuamente spiegata: non rimane più niente. Si arriva a capire persino quello che nella canzone non c'è. Questa è la fine di molte songs, specie standards appunto, cioè con una forma ciclica classica. È materiale troppo semplice per sostenere il peso di tanta sofisticazione: hanno bisogno di verità, passione, intensità. E mistero.

Ecco, Wilder rimane ancora misterioso, nessuno ce lo ha davvero spiegato. Sono tanti i motivi. Considerando l'importanza ciclopica della sua opera e il gran numero di lavori innovativi nel suo catalogo, l'oblio nel quale Wilder è sospeso è diventata nel tempo una inspiegabile caratteristica e anche una tentazione irresistibile. La sua figura è affascinante e decisamente sottovalutata. Malgrado il successo di "It's So Peaceful in the Country" e "I'll Be Around," le sue canzoni non convincevano né gli editori, né gli esecutori, e neppure il pubblico: erano troppo personali, avevano forme troppo bizzarre e intervalli troppo difficili. Cosicché, inesorabilmente, Wilder non poteva essere inserito in nessuna categoria.

Era un uomo brillante e colto, viaggiatore fanatico, amante della natura e arguto osservatore. Intuì i pericoli del business musicale americano rivolto alle forme popolari e vi fuggì concentrandosi sempre più su forme classiche di gusto un po' tardoromantico, continuando a scrivere canzoni che combinavano l'idioma jazzistico con quello classico, sviluppando un catalogo di lavori strumentali intimi e delicati con grande attenzione alla sintesi e alla qualità che si nasconde nel dettaglio, nella disciplina e nell'intensità, piuttosto che nella quantità, nel volume, nella facilità.

Nonostante tutta questa cultura di matrice eurocolta trovo la sua musica estremamente americana, in un senso quasi paradigmatico, perché già così tanto contaminata da più influenze. La sua opera in sé sembra un vero e proprio inno americano, ma l'America pare non essersene accorta per davvero. Infatti—nonostante abbia lasciato alla cultura americana un vastissimo patrimonio costituito da musica da camera e operistica, musica per bambini, partiture per il cinema sperimentale, per il teatro e il balletto, per documentari, fino a trasposizioni in musica di opere letterarie e poetiche, solo per citare alcuni lavori—non è mai stato inserito nella lista dominata dai "fantastici cinque" (Gershwin, Porter, Kern, Berlin e la coppia Rodgers-Hart) del musical di Broadway e Hollywood.

AAJI: Una seconda novità di questo capitolo del Trio è la registrazione dal vivo, durante il Torino Jazz Festival.

S.B.: È un Trio di improvvisatori, non amiamo gli arrangiamenti, ci sforziamo di affrontare i pezzi, anche quelli che suoniamo da dieci anni, come fossero sempre nuovi, qualsiasi sia il repertorio. Da sempre il Trio si è espresso al massimo nei live, specie nei luoghi dove è possibile suonare in una dimensione cameristica, pressochè acustica. Indubbiamente la crescita è aiutata dalla dimensione internazionale del gruppo, perché suonare insieme con continuità in tutto il mondo aiuta il gesto performativo, a pensare esclusivamente alla musica senza paura, a rischiare, a vivere l'esperienza musicale in modo creativo, magico, misterioso. Senza la routine della professione.
L'amico e musicologo Stefano Zenni, direttore artistico del TJF, è stato al mio fianco sin dall'inizio della seconda fase della mia avventura con la musica di Wilder, quella per così dire produttiva, quando cioè mi sono reso conto di aver arrangiato una mole impressionante di materiale per lo più inedito dal punto di vista discografico, specie nel circuito jazzistico. Facemmo concerti e master class monografiche nei conservatori, durante i quali lui affrontava la parte biografico-musicologica e io suonavo il repertorio.

AAJI: Il Trio, comunque, continua ad avere la sua precisa identità. Nella pariteticità che lo caratterizza, mi pare che stavolta emerga un po' di più la figura di Salvatore Maiore: forse dipende dal materiale di partenza?

S.B.: Lavoriamo a questo materiale da una decina di anni e Salvatore ha da sempre mostrato di aderire con gioia all'opera di Wilder, esprimendosi con particolare naturalezza.
Salvatore è un musicista straordinariamente intelligente e un ottimo compositore, cosa da non sottovalutare. Chi si occupa seriamente di composizione sa bene che qualsiasi musica ha bisogno di forma ed equilibrio per far emergere i propri valori e contenuti espressivi. In un trio gli equilibri possibili sono tanti e tutti stimolanti, e per non stabilizzare il Trio attorno a geometrie predefinite, magari con il piano incontrastato vertice, c'è bisogno di creatività, versatilità, cultura musicale, tecniche compositive e improvvisative, ma anche—soprattutto direi—di assenza di ego. In un organico come il nostro Trio gli equilibri sono frequentemente complessi, continuamente in divenire, i ruoli e le funzioni volutamente interscambiabili. Con queste ambizioni, è sufficiente che uno dei tre poli abbia un atteggiamento egotico per far saltare tutto: sarebbe come costruire una squadra di soli attaccanti.

Ebbene, posso dire che per molto tempo gli equilibri del Trio sono stati resi possibili da Salvatore e dal suo contrabbasso. Il fatto che lui sia disposto a rinunciare alla continuità, a togliere anziché mettere, ha regalato spazio in una certa altezza, nel registro medio grave, dando luce alle caratteristiche specificatamente melodiche della batteria di Roberto proprio in quel registro e, cosa preziosa, al materiale musicale, che negli ultimi anni è stato spesso costituito da composizioni ambiziosamente universali e semplici, fatte di canti e danze, dove quindi istintivamente viene voglia di partecipare con tutto il corpo, con l'azione, piuttosto che con la rinuncia all'azione.

La forza, la fiducia e la libertà conquistati sono il frutto del riconoscimento proprio riguardo l'unicità, l'autonomia stilistica, l'identità precisa e l'estetica inconfondibile che in tutto il mondo abbiamo raccolto come Trio. Chiunque, in un panorama così denso e vario a livello mondiale com'è oggi quello del Trio con pianoforte. sembra riconoscerci un ruolo originale, come elemento di novità, sia da un punto di vista estetico che espressivo.
Per ottenere questi risultati è necessario che tutti e tre i vertici del triangolo lavorino in un'ottica autonoma, originale e identitaria.

AAJI: Tra i tuoi ultimi lavori ne figura un altro registrato dal vivo, il bellissimo In Memoriam, omaggio ai martiri della strage di piazza della Loggia a Brescia. Puoi parlarci di quel progetto?

S.B.: Mi è statos commissionato dalla storica Libreria Rinascita e dalla casa di produzione Medulla. Piazza della Loggia verrà sempre ricordata come una tragedia socio-politica in quanto strage fascista, ma non bisogna dimenticare il martirio e l'innocenza. Voglio dire: la strage non è il frutto di guerriglia ideologica, non si sono presi a sprangate; dunque, se è vero che tutte le vittime sono sempre innocenti per principio, alcune, in un certo senso, sono forse un po' più innocenti di altre: quelle della stazione di Bologna come quelle di Piazza Fontana, quelle del World Trade Center come quelle di Utoya. Persino le vittime di Auschwitz, estremizzando, non sono state uccise in quanto soggetti individuali, ma sacrificate come martiri simbolo della follia ideologico-politica di altri esseri viventi. Questo in qualche modo amplifica la tragedia, specie per i loro cari rimasti in vita con questo peso.

Sono innocenti anche le vittime di uno tsunami, intendiamoci; ma quando è la natura a decidere della morte, vi sono degli elementi di fatalità che legano il destino a ordini altri e superiori, di fatto eticamente accettati con più rassegnata serenità. Mentre in questo caso abbiamo la mano dell'uomo che vuole contestare, forse vuole anche uccidere, ma non uccidere quelle vittime. Questo rende quei morti estremamente innocenti, si potrebbe dire, e dunque quasi delle entità eternamente dinamiche, degli spiriti vivi, delle ombre in movimento.

La mia voleva dunque essere più una seduta spiritica che non la rappresentazione in musica di una tragedia; ambiva semmai alla manifestazione di una verità-dolore soggettiva, laddove i soggetti erano le vittime innocenti e, dunque, idealmente persino i musicisti sul palco e le partiture non erano "soggetto," ma strumento-medium: un trio di canalizzatori che opera attraverso i suoni come tramite tra le ombre e la vita reale.

Ho usato una tecnica seriale per comporre le partiture e un sistema che io chiamo evocativo per disciplinare l'azione degli strumentisti nelle improvvisazioni. Per la serialità ho sfruttato né più né meno i nomi delle vittime, attraverso una analogia pedissequa tra lettera e nota. Per le evocazioni invece ho usato alcune parole chiave che rendono il gesto dell'improvvisatore oggettivamente inequivocabile, senza possibili interpretazioni, in modo da lasciare libero il cosa, ma assolutamente disciplinato il come.

AAJI: Ho personalmente apprezzato molto l'interazione che tu e Michele Rabbia avete con Eivind Aarset: forse dipende anche dal fatto che -per progettualità drammaturgica, riflessività nelle improvvisazioni e alcuni aspetti stilistici -tu se il pianista italiano più "nordeuropeo"?

S.B.: Il Trio con Aarset e Rabbia e il naturale sviluppo-estensione del sodalizio creatosi con il percussionista dal 2000. Ho pensato subito che doveva essere un lavoro centrato sul suono, dialogo tra il suono reale, concreto, materico e carnale, con quello irreale, ascetico, sublime e spirituale, per ricordare che le ombre erano corpi e che un rito delle ombre è anche un rito dei corpi, di ieri come di oggi: e allora servivano due stregoni del suono, entrambi in grado di essere alternativamente sia spirito, soffio etereo e impalpabile, sia corpo, carne e sangue. Eivind e Michele incarnano perfettamente la mia volontà di strutturare la musica attorno alla potenza narrativa ed evocativa del suono. Entrambi sono musicisti straordinariamente intensi e hai l'impressione che sarebbero così anche suonando una zucca vuota; non conta che strumento abbiano scelto per esprimersi, ma la loro presenza totalizzante nell'esprimersi: corpo, mente e spirito.

Riguardo al mio stile, è interessante ascoltare i punti di vista: in Nord Europa e in Oriente, ma anche negli Stati Uniti, il mio stile è considerato unanimemente "italiano" o "mediterraneo," mentre proprio in Italia molti mi parlano di appartenenza al Nord Europa. È curioso, no? Questo mi fa sentire straniero ovunque, che nella comunità musicale è sempre un vantaggio....

A causa della natura speciale della nostra geografia, l'Italia è sempre stata in una posizione politicamente contraddittoria ma culturalmente privilegiata, potenzialmente la più ricca possibile, almeno in nuce, perché composta da ben tre orbite culturali distinte che si contaminano inevitabilmente: la grande tradizione mitteleuropea, che rappresenta la colonna portante della civiltà musicale occidentale; la civiltà mediterranea—per la mia sensibilità assai contagiosa e sempre più importante—che espone e difende l'unità culturale e storica fra i diversi popoli che si affacciano sul Mare Nostrum; infine l'Est, i Balcani e le culture nomadiche. Credo che in questo senso, e al di là di qualsiasi retorica da cartolina, essere italiano contenga potenzialmente le possibilità di appartenere a una civiltà culturale assai ricca e preziosa, perché irrorata al contempo da Bach come dai berberi e dai rom. Talmente vasta da risultare vaga: né pienamente mitteleuropea, né gioiosamente mediterranea, assai diffidente con l'est, certamente fragile a causa dalla tendenza a farsi colonizzare con svilente facilità sia da un punto di vista politico che culturale. Ciò che si è determinato negli ultimi trent'anni in tutto il Sud Europa e nel bacino mediterraneo è il manifesto delle contraddizioni prodotte dalle scelte consumistiche e capitalistiche portate dallo sviluppo industriale: lo svilimento del ruolo che la cultura ha occupato per secoli nella struttura politica occidentale è la logica conseguenza delle scelte di una civiltà che basa tutto su mercato, monopoli e speculazioni, ponendo al centro del suo sviluppo il consumo.

Riguardo a me, negli ultimi dieci anni si è spontaneamente radicata la necessità di un linguaggio più universale, svuotato da ogni orpello idiomatico, dal quale è emersa la tendenza a essere lirico e melismatico in un modo quasi vocale; ciò ha coinciso probabilmente con la mia passione per la musica araba, che è andata a sommarsi alla cultura musicale centro europea derivata dalla mia formazione. Cerco di vivere lucidamente, ma naturalmente, le contraddizioni di questa complessità identitaria, come un patrimonio prezioso e non come un limite, come una ricchezza e non una confusione. L'equivoco è che quasi sempre il lirismo potente del Sud Europa e del Mediterraneo viene combinato con una certa retorica melodrammatica, un pathos troppo esplicito, mentre esteticamente la mia poetica procede in direzione opposta e contraria: cerca semmai una sintesi, una sottrazione. E probabilmente il desiderio di creare uno spazio anziché riempirlo viene tradotto come "nordeuropeo," ma per me invece rappresenta esclusivamente amore per la trasparenza, il suono puro e il silenzio, da cui voglio venire e verso cui voglio andare.

Idealmente ogni nota vorrebbe poter dire come se fosse parola, testo; per questo il tocco e il suono sono diventati così strutturali nel mio modo di suonare.

AAJI: La relazione tra pianoforte e chitarra elettrica—tutto sommato rara, mi vengono in mente soprattutto Ketil Bjornstad e Terje Rypdal -mi sorprende sempre: sonorità così diverse eppure così adatte a dialogare...

S.B.: Condivido. Premetto che in linea generale considero più decisiva l'elettricità dell'individuo, della persona, del performer, che non l'elettronica e i numeri del sistema digitale. Per questo ho sempre amato alla follia tutti gli strumenti acustici a corde, il dialogo con i quali è per il pianoforte assai naturale.

Per diversi decenni abbiamo poi assistito alla trasformazione degli strumenti nell'elettricità, con qualche fatica nel radicale abbandono delle virtù di quelli acustici d'origine. Ma ora che ha compiuto la sua definitiva maturazione diventando sorgente di qualsiasi soluzione timbrica, la chitarra elettrica è davvero una sorta di iperstrumento immensamente stimolante con cui dialogare. Il suo travaglio doloroso si è compiuto da quando con l'elettricità ha perso la risonanza del corpo acustico; il grande salto è stata la definitiva accettazione dello sfruttamento delle tecnologie, dopo mezzo secolo di transizione. Ora è davvero uno degli strumenti più affascinanti e futuribili, indipendente dal suo genitore acustico. Personalmente trovo assai stimolante elaborare all'interno delle "stanze" create dalla chitarra elettrica.

Ora che c'è finalmente un solco netto, una distanza virtuosa tra gli strumenti, è così evidente che la chitarra acustica è inimitabile e ha bisogno di difendere la propria identità risonante, pura e vibrante, legno e corde, dita e percussione. E la chitarra elettrica ha una sua propria identità autonoma e visionaria e il dialogo è appassionante, il confronto stimolante, lo scambio finalmente polifunzionale. I miei laboratori di ricerca musicale sono pieni di chitarristi!

AAJI: Negli ultimi due anni abbiamo avuto modo di apprezzarti in diversi, eccellenti CD a nome di altri musicisti, nei quali perlopiù suoni musica non tua: Horo , in cui sei ospite dei T.R.E.; December Soul , a nome di Zlatko Kaućić e con Paolino Dalla Porta; Three Open Rooms di Roberto Caon con Marco Carlesso alla batteria. Ti piace metterti al servizio dei colleghi e con che criterio li selezioni?

S.B.: La musica è la mia vita: non è una scelta professionale, ma una natura. Suonare è esistenziale: come potrei immaginare di passare la vita senza sentirmi parte di qualcosa, anche fosse una piccolissima comunità? È il significato della musica e la passione per essa che mi portano al desiderio di condivisione. Non esiste la mia musica o la sua musica: esiste la musica.

Quello da cui è necessario proteggersi, semmai, sono la routine e l'isolamento. Chi è un musicista sa quanto poi sia difficile fare il musicista, e mettere insieme le proprie ragioni espressive con la realtà di una società capitalistica. La routine, a volte innescata dal mestiere, è il veleno che spesso la professione inietta su desiderio e creatività.
All'opposto, chi si protegge da questo con l'isolamento rischia di essere musicista senza poterlo fare. Un peccato per lui e per la sua gioia espressiva, ma anche per il mondo intero che non può godere della sua arte.

Collaborare, mettersi al servizio, mettere da parte le proprie esigenze per offrire un semplice contributo alle esigenze altrui, tenere sempre sotto controllo l'ego individuale a favore dell'altro, essere persuasi che in musica il soggetto individuale è meno importante dell'oggetto musicale, sono l'antidoto quotidiano a quei veleni. E più evoluto e libero dall'ego è il soggetto performante, più libera e sublime sarà la musica che da lui scaturisce.
Le collaborazioni che citi sono il mio modo di essere nella musica a un livello comunitario, accettando di offrire il mio contributo in ambiti che ritengo essere potenzialmente accoglienti il mio universo poetico, e al contempo di fare il musicista, equilibrio virtuoso tra una vita espressiva interiore e una realtà esteriore che assegna al musicista un certo ruolo all'interno della società—una realtà che conosco e ho deciso di accettare, sebbene non ne condivida tutti i contenuti filosofici.
Nello specifico di T.R.E. e di Caon e Carlesso si tratta inoltre di musicisti che hanno trascorso diversi anni nei miei Laboratori Permanenti di Ricerca Musicale a Siena Jazz, dunque per me garanzia di una complicità di contenuto ed estetica musicale. T.R.E è certamente il Trio italiano più avvincente e stimolante che io conosca; a riprova di questo c'è la loro difficoltà a esistere in un circuito assai poco avvincente e stimolante. Kaucic invece è un musicista storico della Slovenia, forse il più importante nell'ambito delle nuove musiche e dell'improvvisazione spontanea: un maestro dell'Est, potremmo dire. Il fatto stesso che abbia scritto delle musiche per Trio con il piano pensando a me e Paolino Dalla Porta, con il quale ho condiviso vent'anni di progetti, concerti e dischi, è stata una ragione sufficiente per accettare ancor prima di conoscere la musica stessa. I concerti con quel Trio sono sempre sorprendenti, assai più avventurosi e imprevedibili di quanto il disco racconti!

AAJI: L'impressione è che in quei contesti—che ti sono peraltro congeniali—tu cambi abbastanza modo di suonare, o quanto meno di prendere ispirazione, e che tu sia meno estremo nella ricerca, più melodico, senza tuttavia perdere né identità, né incisività.

S.B.: È possibile che cambi un po' nel modo, hai detto bene, ma non nella sostanza, dal momento che cerco di suonare la musica che ha nella testa e nel cuore il mio partner, e non la mia musica, semmai esistesse. Come dicevo non sono importante io, è importante la musica. Cos'è mai questo io? La musica non può essere un luogo di autoaffermazione, cosa se ne fa dunque del mio io? La musica è ciò che conta, e che certo mi sopravvive.
Io l'identità non la posso perdere neanche se volessi, sarebbe come dimenticare che esisto e chi sono. È il mio unico modo di essere, è la mia unica casa, fondamenta e tutto il resto: non è un vestito che posso mettere, togliere e cambiare. Già a vent'anni ero così, fortunatamente (o sfortunatamente, secondo i punti di vista!), figuriamoci adesso.

Bisogna comprendere che l'essenza non è interscambiabile; il problema per un'artista è l'accettazione, la coscienza dell'identità, non la costruzione. Il grande lavoro, le grandi fatiche, il lungo percorso, hanno valore nella rivelazione, nella protezione e nell'espansione di quella unicità, non in una sua ideale costruzione. Ciò che disturba l'essenza sono le varie personalità che via via potenzialmente si sovrappongono sopra di essa nel corso della vita. La prova è che molti artisti danno il meglio di sé nell'età incosciente, altri addirittura hanno avuto un breve zenith creativo concluso proprio con la maturità anagrafica. Succede che un'artista ami più qualcosa che è fuori da sé, succede continuamente: e allora tutta l'esistenza è un travaglio e un'insoddisfazione, una rincorsa verso l'altro, e al contempo una struggente malinconia del ricordo di sé.

Intendiamoci, è una piccola tragedia dell'individuo, ma professionalmente è quasi una garanzia di seguito, perché una parte del pubblico ama queste cose, vuole "riconoscere" ciò che già sa e ha ascoltato, addirittura vuole risentire sempre la stessa cosa, è un conforto e non comporta alcuna "fatica," nessun salto nel buio. Da sempre è stato così: ci sono addirittura gli imitatori di professione e hanno un seguito straordinario.
Succede che talvolta attraverso maestri, scuole, contesto, si autoaffermano un numero così grande di personalità diverse che si vanno a poggiare sopra uno stesso individuo e sulla sua propria unicità, che poi questi si perde: non sa più dove e quale sia, questa benedetta identità.
Il punto dunque non è la ricerca, ma il ritrovamento nel corso degli anni della coscienza consapevole, e sarebbe più corretto parlare di protezione, accettazione, coltivazione e fioritura della propria unicità. Che è identitaria per forza, per inerzia direi: è solo nostra!

Ma, per riprendere il tema delle mie collaborazioni, vorrei concludere annunciando che nella prossima stagione ne vedranno la luce altre due, entrambe in duo: una con il clarinettista viennese Ulrich Drechsler (l'album uscirà per la Enja Records a gennaio) e l'altra con il cantante tedesco Theo Bleckmann, che ho scoperto anche sublime compositore e con il quale sono felicissimo di innescare un sodalizio.

Foto
Roberto Cifarelli.

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