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Intervista a Salvatore Bonafede

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Salvatore Bonafede si è trasferito giovanissimo negli States per conoscere di persona i suoi idoli. E si è ritrovato con Paul Bley che gli impartiva lezioni senza pretendere una lira (pardon un dollaro). Ma Sicilian Opening, registrato nel 2009 a New York, testimonia il crollo del suo sogno americano. Secondo il pianista di Palermo il jazz non è uno stile ma un feeling che funge da vero generatore della musica. Anche se le nuove tecnologie anestetizzano l'arte e tolgono molte prospettive al futuro della musica. A meno che non si riesca a suonare un jazz che possa piacere ai bambini...

All About Jazz: Da Palermo agli States ancora giovanissimo: quale è stato il motivo della scelta?

Salvatore Bonafede: Volevo conoscere di persona i miei idoli. La frequenza alla Berklee di Boston è stata la scusa per andare a trovarli e la possibilità di non essere clandestino negli USA.

AAJ: Che panorama musicale hai trovato rispetto alla situazione italiana?

S.B.: L'attimo dopo aver finito gli studi mi sono trasferito da Boston a New York, la città del Jazz, in cui vivono e si confrontano quotidianamente tanti musicisti. Anche in Italia e in Europa vivono tanti musicisti ma in tante zone differenti e talora lontanissime così che i contatti sono sporadici.

AAJ: Cosa ti è rimasto di indelebile di quella esperienza ?

S.B.: La loro professionalità, disponibilità e umiltà. Paul Bley mi ospitava a casa sua e mi impartiva lezioni che si svolgevano in tre giorni consecutivi senza prendersi un dollaro. Stessa cosa Dave Holland, John Abercrombie, Lee Konitz... E dopo qualche giorno li ritrovavo come pubblico nei miei concerti.

AAJ: Un musicista con il quale hai conservato un particolare rapporto professionale e umano?

S.B.: Joe Lovano.

AAJ: Si può dire che l'esperienza americana ti abbia permesso di dedicarti completamente alla tua musica, iniziando un vero percorso di ricerca personale?

S.B.: Sì, soprattutto l'esperienza della scuola mi ha aperto la via alla ricerca personale; è stata una reazione istantanea all'orrore dell'omologazione.

AAJ: A tutt'ora hai composto più di quattrocento brani. Come avviene il tuo processo compositivo? Quali sono le tue fonti di ispirazione?

S.B.: L'atto creativo è il mezzo attraverso cui noi artisti, senza dirlo, vorremmo guadagnarci l'immortalità. Nella storia ci sono riusciti in pochi. Da qualche decennio a questa parte, quasi nessuno.

AAJ: Il jazz è per definizione musica improvvisata, come vedi il rapporto tra scrittura e improvvisazione?

S.B.: A parte una manciata di brani interamente scritti, nel jazz non si può essere fedeli a una pagina scritta, il rapporto tra scrittura e improvvisazione è filtrato dalla propria storia musicale. Scrittura e variazione-improvvisazione si rincorrono circolarmente. Impossibile stabilire dove cominci l'una e finisca l'altra.

AAJ: Scorrendo la tua discografia compare con una certa frequenza il classico piano trio. La ritieni la formazione che meglio ti rappresenta?

S.B.: Sì, in quanto il piano trio, per la sua struttura compatta e anche per la sua perfezione numerica, è la formazione in cui più facilmente i ruoli tra gli strumenti possono essere paritari. Nel combo, la tendenza dei fiati a svettare è un elemento naturale, legato all'acustica. E così dopo tanti anni pochi ricordano chi erano, che ne so, i bassisti che suonavano nei gruppi a nome di Lee Morgan oppure di Freddie Hubbard mentre tutti ricordano che Scott LaFaro o Eddie Gomez suonavano nel trio di Bill Evans oppure Ray Brown con Oscar Peterson.

AAJ: Come mai una sola registrazione in piano solo?

S.B.: Per prudenza. Il piano solo è il punto più alto al quale un pianista può arrivare. Pochissimi lo hanno davvero raggiunto.

AAJ: Preferisci la dimensione live o quella in studio?

S.B.: Preferisco la dimensione live. Approccio l'incisione in studio come un'esibizione, suono il brano una volta e vado avanti, senza ripetizioni.

AAJ: Journey to Donnafugata e la collaborazione con i registi Ciprì e Maresco testimoniano la tua passione per il cinema. Come è nata? Cosa ti affascina maggiormente del connubio jazz-cinema?

S.B.: Dal cinema hollywoodiano provengono centinaia di canzoni che sono il repertorio del jazz. Da ragazzino ascoltavo la musica di Nino Rota così da lui sono passato ai film di Federico Fellini e a quelli dei suoi contemporanei; a poco a poco, ho scoperto quanto abbia dato il cinema al jazz. Non viceversa in quanto le colonne sonore scritte dai jazzisti per il cinema sono, a oggi, davvero poche, anche se di qualità eccellente.

AAJ: Sei docente al conservatorio di Trapani. Il jazz insegnato nei Conservatori, un concetto che Armstrong, Parker, Gillespie, farebbero fatica a capire...

S.B.: Quando insegno, narro la storia del jazz afro-americano ed europeo attraverso immagini, ascolto ed esecuzione. La teoria musicale la sfioro appena in quanto essa prova a spiegare elementi che sono e devono essere inspiegabili. Il jazz non è uno stile; è un feeling che ha l'assoluta preminenza e diventa il vero generatore della musica.

AAJ: Qual è l'aspetto più importante che deve emergere nel rapporto docente-studente ?

S.B.: L'osmosi.

AAJ : Parafrasando Ortodoxa e Paradoxa due apprezzate incisioni per la Red Records, si può affermare che ortodossia e paradosso sono le parole d'ordine della tua estetica musicale?

S.B.: Ortodossia e paradosso sono opposti ma non separati. Sono un'unità suddivisa in due poli che si completano e si compensano reciprocamente e per esistere, così come giorno e notte o veglia e sonno, hanno bisogno del polo opposto.

AAJ: Nel recente Sicilian Opening registrato a New York la forza melodica della tua terra si incontra con l'effervescenza della metropoli per eccellenza. Si è idealmente chiuso il cerchio aperto venticinque anni fa?

S.B.: Sicilian Opening è un lavoro sul collasso del mio sogno americano. Racconta in silenzio di qualcosa che non ha raggiunto la sua meta. C'è un discorso, alla lontana, anche su Palermo, una terra di gattopardi folli.

AAJ: Che direzione sta prendendo oggi la tua musica?

S.B.: Non è un periodo felice per la musica e forse non solo in Italia in questo primo scorcio di secolo. Stiamo assistendo a una naturale mutazione genetica causata dall'uso del computer e internet. L'arte è anestetizzata, deve essere innocua, se ne parla superficialmente, senza disturbare nessuno. Qualche tempo fa una persona con cui si parlava di organizzazione di concerti, mi ha chiesto se suonavo con le basi... Bisogna scegliere se far finta di nulla o provare a capire e adattarsi. Mi pare che la musica non abbia più molte prospettive davanti a sé. Ho l'impressione che ci siano sempre meno interlocutori, persone che comprendano le tue motivazioni, il tuo lavoro. Per la mia generazione non vedo speranze, non è più possibile costruire qualcosa in funzione di un futuro, se tutto è destinato a finire in YouTube o sugli iPod.

AAJ: Progetti attuali e futuri?

S.B.: Sto ultimando un album in piano solo in forma di lettera prodotto dalla Red Records. Si intitola "Caro Luca" ed è dedicato a mio figlio. Successivamente lavorerò alla realizzazione di un progetto live in trio a nome di Eddie Gomez con Joe La Barbera dedicato a Scott La Faro; continuerò a suonare con il Joe Lovano Europa Quartet di cui faccio parte da un paio di anni. E ho ancora qualcosa che mi piacerebbe portare a compimento: jazz che possa piacere ai bambini...

Foto di Domenico Aronica (la seconda e l'ultima).


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