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Intervista a Roberto Bellatalla

Intervista a Roberto Bellatalla
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Se i concetti di fraternità e universalità da sempre caratterizzano il jazz in tutte le sue forme, senza dubbio e a buon diritto Roberto Bellatalla ne può essere considerato uno dei massimi ambasciatori.

Amsterdam, Londra, Johannesburg. Quaranta anni di storia (e di storie), poi il ritorno a casa. Ammesso e non concesso che il concetto di casa possa essere circoscritto entro le periferie di una sola, grande metropoli.

Per artisti come Bellatalla, "casa" è l'aria che si respira, gli sguardi che si incrociano, i colori che tingono le blue notes che scandiscono i tempi di una vita intera.

Una vita ripercorsa attraverso ricordi, aneddoti, volti e luminose pagine di musica che Roberto ci ha concesso di sfogliare insieme. Con il garbo e la gentilezza che lo contraddistinguono.

All About Jazz Italia: Nei primi anni Settanta, Amsterdam è stata la prima tappa del tuo lungo viaggio musicale e umano. Quali motivazioni ti spinsero a lasciare l'Italia e soprattutto quale aria musicale si respirava al tempo in Olanda rispetto al nostro paese?

Roberto Bellatalla: Gli anni Settanta sono stati caratterizzati da un grande fermento. Nella musica sono state scoperte e rivalutate cose che prima erano appannaggio soltanto di pochi studiosi ed esperti. È stato un momento di grande sintesi. Amsterdam, e l'Olanda tutta, negli anni Settanta erano un po' l'emblema di questo nuovo modo di vedere e vivere le cose. Ci arrivai per suonare nel quartetto di Tristan Honsinger, con Sean Bergin e Radu Malfatti. Poi mi trattenni per un po' di tempo. A quel tempo in Olanda il circuito jazz e della musica improvvisata era gestito dai musicisti stessi, due alla volta, designati con regolari elezioni a ogni scadenza di mandato. Forti pure di un discreto contributo economico da parte dello stato, essi hanno potuto gestire un circuito a livello nazionale che garantiva un lavoro degnamente retribuito e opportunità per tutti i musicisti residenti, curandosi pure della crescita delle nuove generazioni. Un sistema tutt'oggi in funzione, seppur con alcuni tagli di fondi statali.

Nella sola Amsterdam c'erano un sacco di posti dove si poteva ascoltare musica dal vivo di altissimo livello, non solo nella mitica Bimhuis. L'ultimo club a chiudere alle prime luci del mattino era il De Kroeg. Entravi e c'era da stropicciarsi gli occhi. Gran parte degli avventori erano musicisti, grandi musicisti, americani, europei, residenti o di passaggio. Seduti al bar chiacchieravano, bevevano, fumavano, magari giocavano al flipper. Oltre il bar, passata una porta, c'era il locale dove si faceva musica dal vivo. Anche lì, pezzi da novanta!

AAJ: Londra è stata per molti anni la tua casa, autentico melting pot di etnie, sperimentazioni e purissimi talenti. Quali analogie e divergenze intercorrevano tra il jazz statunitense e il jazz britannico di quegli anni?

RB: Londra rimane la mia casa, dove sta il mio cuore, il posto al mondo che conosco meglio. Sono profondamente legato a questa città, che ha il merito di donare un grande senso di appartenenza e alimentare il desiderio e la voglia di conoscere ed esplorare, di incontrare gente che, nella maggior parte dei casi, viene da altri paesi ed è perfettamente integrata. Una città ricca di cultura e di opportunità, dove la musica ha avuto un'evoluzione particolare. L'incontro tra culture diverse ha generato nuove forme di arte. Nella musica improvvisata questo significa la possibilità di arricchirsi enormemente a ogni incontro, a ogni concerto. La ricerca non è una cosa astratta, è una pratica giornaliera. Non ci sono dogmi o proclami, solo spazi da aprire, mondi da scoprire. Se uno vuole.

In questo credo che Londra e New York si somiglino molto. Ma in Gran Bretagna, pur avendo un grande rispetto verso il jazz americano e verso i grandi musicisti che lo hanno interpretato, non si cerca minimamente di copiarlo e non si ha un timore reverenziale nei confronti degli stessi Americani. Si prendono piuttosto a modello la filosofia del jazz legata all'improvvisazione, le sue modalità, la strada indicata dai grandi maestri, rendendola propria.

AAJ: In Inghilterra hai preso parte a molti progetti, tra i quali Jazz Africa di Sebothane Julian Bahula, Viva la Black di Louis Moholo-Moholo, Dreamtime di Nick Evans, realtà e musicisti che gravitavano intorno alle memorabili esperienze dei Ninesense di Elton Dean ma soprattutto dei Brotherhood of Breath di Chris McGregor. Quali musicisti hanno lasciato in quegli anni una traccia profonda nella tua esistenza? Vuoi condividere con noi qualche ricordo o aneddoto?

RB: Dreamtime per me vuol dire famiglia. Il progetto è nato nel 1983 da un'idea di Nick Evans e l'ultimo concerto lo abbiamo fatto nel 2006. Per alcuni anni abitavamo a pochi minuti di distanza l'uno dall'altro, eccetto Keith Tippett che ha sempre vissuto nella campagna vicino Bristol. Potevamo anche passare giorni interi insieme, addormentarci all'alba su un divano, a casa di uno o dell'altro. Vivere la musica per noi significava questo. Dreamtime comprendeva un gallese, Nick, un americano, Jim Dvorak, uno dei West Country, Keith , un italiano e due veri londinesi, Jim Le Baigue e Gary Curson. Sei personaggi così diversi, come i colori che compongono un quadro folle, immaginifico, estremamente comico e imprevedibile, ricco di splendida energia.

La prima esperienza con la musica sudafricana l'ho fatta con Jazz Africa di Julian Bahula, il quale suonava grandi tamburi rituali detti malombo, scavati in tronchi d'albero e ricoperti di pelle di elefante. Nel gruppo c'era anche Lucky Ranku, grande chitarrista di stile tipicamente africano nonché bellissima persona, al sax il danese Michael Nielsen, Alan Richard Jackson alla batteria e Mervyn Africa da Città del Ccapo. Con questo gruppo si girava molto, la musica era tipicamente sudafricana, popolare, era ballabile e aveva un bel seguito. Al tempo ero molto più interessato a fare musica improvvisata ma in qualche modo riuscivo a metterla dentro anche in quel contesto. Comunque era un gran bel lavoro, che mi ha aiutato non poco nei miei primi anni a Londra. Suonavamo spesso al 100 Club, storico locale a Oxford Street. Tutti, anche gli Stones, ci hanno suonato. Una sera venne Fela Kuti a sentirci e qualche giorno dopo ci invitò al Country Club, a Belsize Park, dal momento che ci sarebbe stato un "evento speciale." Ci andammo, ma quello che poi accadde è lungo da raccontare e davvero incredibile. Ne parleremo un'altra volta...

Comunque in quel periodo Louis mi chiamò in Viva la Black, a quel tempo insieme a Dudu Pukwana, Lucky Ranku e due percussionisti, Mamadi Kamara, dalla Sierra Leone, e Nana Tsiboe, dal Ghana.

Poi seguirono altre formazioni e combinazioni, ma il concetto non cambiava. Era un po' come con Dreamtime, dove c'erano dei temi, in parte nostri, in parte di altri, o tradizionali, tutti suonati con grande energia, improvvisando moltissimo. Anche quella con Viva la Black è una storia che attraversa i decenni, un'esperienza molto formativa, maturata insieme a grandi musicisti, un gruppo anche pericoloso, in giro per il mondo su grandi palcoscenici. E poi il tour in Sudafrica per la liberazione di Nelson Mandela e di tutto il paese. Un tour di due mesi, con un terzo mese passato a Johannesburg insieme a Sean Bergin, a suonare con musicisti locali. Un'esperienza unica.

Ma parlando di Londra vale la pena ricordare che fino alla fine degli anni Ottanta c'era musica improvvisata tutte le sere, grazie a un network di pub e piccoli club gestiti direttamente dai musicisti che si occupavano di fare il programma, stampavano leaflets, curavano la pubblicità. Ogni musicista gestiva il suo club, anche io l'ho fatto per qualche anno. In questo modo si è potuta fare e ascoltare musica d'avanguardia, sperimentare sull'improvvisazione, spesso nelle combinazioni più strane e inusitate. Una buona palestra... Conoscevo Elton già prima di sbarcare a Londra ed è stato tra i primi musicisti che ho frequentato, il primo che mi ha invitato a suonare.

Con Mark Sanders, Alex Maguire, Tony Marsh, Jim Dvorak, Marcio Mattos, Tony Bianco, Simon Picard si era formato un sodalizio indissolubile. Ci siamo praticamente visti tutti giorni, per anni ed anni. Abitavamo tutti nel quartiere di Hackney o nelle vicinanze. Il numero 7 di Farleigh Road, casa di Elton, era il quartier generale di questa bella truppa, dove nel salotto facevamo le prove.

Da lì uscivamo spesso a giorno ormai inoltrato. Là sono stati concepiti e hanno preso il via i migliori sogni e progetti. Tra noi c'era una complicità e un'amicizia destinate a durare nel tempo. Da più di dieci anni Elton non è più con noi. Se ne è andato un grande musicista, un maestro, un amico e fratello. Resta tutta la grande musica che ci ha donato e tanti ricordi bellissimi.

AAJ: Progressive rock (King Crimson, Soft Machine, in particolare) e jazz d'avanguardia. Quale era il confine tra questi due mondi entro i quali si muovevano alcuni musicisti di quella generazione?

RB: La Gran Bretagna è forse la patria delle libertà civili conquistate nel tempo, anche a costo di dure lotte. Oggi è un paese dove regna una grande apertura mentale, è terreno fertile per la ricerca e la sperimentazione, il tutto dovuto a una cultura che ha radici ben salde nel tempo, poi esportata anche in America. Tra gli anni Sessanta e Settanta c'è stato un bel incontro tra l'avanguardia di origine jazzistica e quella della musica pop. A un certo punto Elton Dean, Mark Charig e Long John Baldry suonavano insieme a un pianista, tale Reginald Dwight. Quando questi sparì, riapparve poi sotto il nome di Elton John. Si era inventato quel nome prendendolo da due musicisti di quel gruppo...

E poi i Soft Machine, i King Krimson, Centipede, John Lennon, Jimi Hendrix e via dicendo. Fu un momento storico e determinante fu il fattore culturale. È accaduto tutto dove c'erano i presupposti per farlo.

AAJ: Per molti musicisti sudafricani abbandonare la propria terra d'origine, in pieno regime di apartheid, per emigrare in Inghilterra deve essere stata un'esperienza forte e dolorosa...

RB: I Blue Notes, Chris McGregor, Mongezi Feza, Johnny Dyani e Louis Moholo arrivarono a Londra nel 1964. Nel 1979 è iniziato il governo di Margaret Thatcher. Per lunghi diciotto anni, l'African National Congress, il partito di Nelson Mandela, è stato considerato un'associazione terroristica dal governo tory. In quegli anni, con Viva la Black, abbiamo suonato spesso in Europa per conto dell'ANC. L'apartheid era una cosa mostruosa, privava di qualsiasi diritto i legittimi abitanti di un paese. Per la maggior parte degli europei è difficile immaginare cosa voglia dire questo, cosa vuol dire nascere e vivere in una township e non poter andare nelle città e negli spazi riservati ai bianchi, dover fare i conti con la mancanza di beni essenziali come luce, acqua, educazione, trasporti, vivere la paura di essere arrestati senza altro motivo che quello di essere Africani.

Tutti gli Africani sono coscienti della propria storia e portano con se il peso dell'oppressione, della violenza, dello sfruttamento da parte degli occidentali e delle multinazionali, la consapevolezza del colonialismo, della tratta degli schiavi, delle guerre infinite, di tutto ciò che ha comportato l'arrivo dei bianchi, un lontano giorno di qualche secolo fa. Se tutta questa gente avesse amato l'Africa se ne sarebbe stata a casa propria. Proprio come sta accadendo oggi, con la differenza che le cose sembrano parecchio peggiorate, ovunque.

AAJ: Cosa ha significato per te insegnare musica nelle township sudafricane e cosa significa farlo oggi nelle scuole romane?

RB: Il Freedom Tour '92/'93 fu organizzato all'indomani della liberazione di Nelson Mandela. Due mesi di concerti con tappe di alcuni giorni in varie città, viaggiando attraverso gli stati.

In ogni posto, la mattina incontravamo giovani musicisti provenienti dalle township e con loro suonavamo. La maggior parte di questi ragazzi si avventurava per la prima volta in territori e quartieri che fino a poco tempo prima gli erano interdetti. C'era in loro una grande umiltà ma anche la forza della consapevolezza e tanta purezza di animo. Il Sudafrica è un vasto paese, con una ricca e varia cultura musicale, che si distingue in un panorama molto ampio. In Sudafrica è grande l'influenza del jazz sulla musica popolare, spesso si è fuso con essa, così come i canti di chiesa si sono fusi con quelli polifonici tradizionali. Il jazz americano sotto l'apartheid ha anche assunto il significato di emancipazione sociale e i grandi maestri afroamericani che ne hanno fatto la storia sono diventati i modelli da seguire. Sicuramente ha accompagnato la lotta verso la liberazione.

Poi ti puoi trovare a una fermata dell'autobus o a un incrocio nel centro di Johannesburg e incontrare qualcuno che si è costruito uno strumento musicale con una latta dell'olio, un pezzo di legno e delle corde, suonando divinamente qualcosa che non hai mai sentito prima. Certamente un popolo dotato di una creatività particolare, speciale. Non posso certo dire di avere insegnato qualcosa, piuttosto di avere avuto il privilegio di ascoltare e interagire musicalmente con dei giovani talenti.

L'esperienza nelle primary schools londinesi o nelle scuole elementari italiane è stato qualcosa di completamente diverso, ovviamente. Per fortuna non ho dovuto fare l'insegnante, ma semplicemente essere me stesso e fare musica insieme ad altre persone, come a Roma, in un quartiere particolare, il Laurentino 38, quartiere di periferia con molti problemi di emarginazione e disagio sociale. La musica ha funzionato benissimo, quattro anni indimenticabili. Ci dovrebbe essere molta più musica nelle nostre scuole. Educa all'ascolto, aiuta i ragazzi a coltivare sensibilità.

AAJ: Gran parte della tua attività didattica e seminariale verte sul concetto di improvvisazione. Cosa significa per te improvvisare?

RB: Improvvisare in musica significa principalmente ascoltare. Saper ascoltare implica molte cose, primo fra tutti il rispetto degli altri. Si può improvvisare su un tema, oppure si può fare improvvisazione radicale, senza alcuna indicazione. Da soli o in gruppo. In ogni caso credo che sia importante mettersi a disposizione. Voglio dire, più che fare bisognerebbe cercare di non fare. Tanto più quando si dialoga con altri. Ecco, è un dialogo. Se due persone, per esempio, parlano l'uno sull'altro, diventa per loro molto difficile intendersi. Magari abbiamo a che fare con una coppia di ottimi oratori, che insieme tuttavia non sono in grado di produrre alcunché. Il risultato è solo una gran confusione. L'improvvisazione diventa vera quando gli interpreti si fondono in un'unica cosa, nel suono che insieme emanano. Niente a che vedere con l'ego e la competitività. Qui si parla di un lasciarsi abbandonare. Lo strumento sei tu. Se ascolti.

AAJ: Nell'ultima serata del Terracina Jazz Fest 2016 ti sei esibito con Roberto Altamura alla batteria e Sandro Satta al sax. Come e quando è nata questa vostra collaborazione?

RB: Siamo tutti coetanei e appartenenti a una generazione di musicisti influenzata da quei grandi del jazz che negli anni Settanta frequentavano assiduamente i palcoscenici italiani, spesso trattenendosi a Roma per un po' di tempo. Una generazione che ha anche vissuto in prima persona certi eventi storici, certi mutamenti sociali. Con Sandro poi ci conosciamo e frequentiamo da sempre. È stato naturale ritrovarci e suonare insieme.

AAJ: Avete presentato una versione di "'Round Midnight" molto "scomposta." Quale formula c'è alla base di una tale rivisitazione?

RB: Ogni volta che si suona una composizione si cerca di interpretarla. Non è cosa nuova, un po' tutti l'hanno fatto. Molte sono le versioni "scomposte" di brani famosi. Ciascuna ha una sua logica, una sua ragion d'essere. Quando ci si cimenta con ciò che viene chiamato "standard" si deve avere un gran rispetto e una grande cura. Per questo è meglio evitare di fare riferimento a fantastiche e irraggiungibili versioni altrui. Meglio cercare una propria.

AAJ: Quali sono i tuoi progetti musicali più recenti e quali quelli futuri?

RB: Al momento ci sono alcune cose alle quali tengo particolarmente e con le quali sono già occupato. Il trio con Sandro e Roberto si è già trasformato in quartetto con Eugenio Colombo, in scena il 14 ottobre a Le Rane di Testaccio. C'è un bel progetto in corso con l'E-Cor Ensemble, tre giovani talenti che fanno musica elettronica. Ultimamente sto lavorando con il Contact Dance, ci sono prospettive in Italia e Spagna per l'anno prossimo. Ho collaborato con Elena Baroglio per il suo cortometraggio "Qui non ci sono alberi," insieme a Ivan Macera alle percussioni. Tra la fine di settembre e i primi di ottobre, dopo più di venti anni, si ricomporrà il trio con Biggi Vinkeloe e Peeter Uuskyla, il prossimo 7 settembre a Roma al B-Folk, con altre date tra Umbria, Toscana e Lazio. Infine da circa un anno collaboro con un cantautore molto originale e interessante. Insieme ad altri tre musicisti, piano, chitarra e batteria, stiamo finendo di registrare gli ultimi brani. Parlo di musica scritta, a volte complessa, canzoni diverse da quelle che siamo soliti ascoltare. Di più non posso dire. Presto vedremo che impatto avrà...

Foto: Roberto Cifarelli

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