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Mauro Ottolini: Sousaphonix and Beyond

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Il Sousaphonix di Mauro Ottolini non ha bisogno di presentazioni. È una delle formazioni italiane più appassionanti e creative dell'ultimo decennio, dalla musica saldamente ancorata alla tradizione del jazz (fino a comprendere gli albori) e aperta a mille stimoli, dal rock all'avanguardia.
In questi giorni è stato pubblicato il loro terzo album, Musica per una società senza pensieri. Vol. 1, un viaggio in parte surreale che s'ispira e celebra le musiche popolari di mezzo mondo.

All About Jazz Italia: Illustraci la nascita e il senso di questo nuovo disco.

Mauro Ottolini: Come sai, con i Sousaphonix esploriamo un po' tutti i campi della musica, trasfigurandoli secondo la nostra prospettiva. Era molto tempo che volevo lavorare sui generi popolari ma non c'era mai stata l'occasione. Questa è venuta l'anno scorso, mentre visitavo lo storico negozio di armonium Galvan a Borgo Valsugana. Su una parete era incorniciata una fotografia che riprendeva un gruppo di musicisti su cui era scritto a mano: "1921 -Orchestra della società senza pensieri." A guardarli sembravano persone provenire da varie parti del mondo: uno mi sembrava addirittura un arabo.
Quel nome tanto evocativo e quella foto mi hanno incuriosito. Partendo dal presupposto che sono moltissimi gli artisti, dalla classica al jazz, che si sono ispirati alle musiche popolari e che nel 2014 ricorreva l'anniversario delle "Folk Songs" di Luciano Berio, ho iniziato a interessarmi della cosa trasportato in parte dalla fantasia e in parte dalla ricerca sul campo. Come si vede dal documentario che abbiamo prodotto (disponibile su www.mauroottolini.com: la password per accedere è indicata sul disco) abbiamo chiesto agli anziani del paese se conoscevano i musicisti della foto.

AAJI: Siete riusciti a ricostruire la loro storia?

M.O.: Si. Era un'orchestra da ballo di Primolano, un paese vicino a Borgo Valsugana, da pochi anni passato all'Italia. L'orchestra girava per le campagne offrendo la propria forza lavoro per la vendemmia o la mietitura e la sera suonava per le famiglie dei contadini che li ospitavano, trascorrendo qualche ora "senza i pensieri" del dopoguerra e della fame. I suoi componenti si sono poi dispersi in tutto il mondo, alcuni emigrando altri coinvolti nella successiva campagna di Russia. Ma dopo il 1945 torna a Primolano, recapitato chissà come, l'organetto di uno degli orchestrali: una cosa che ha dell'incredibile...

AAJI: Da lì avete cominciato a viaggiare con la fantasia...

M.O.: Prima ci siamo chiesti: "se oggi esistesse l'Orchestra per una società senza pensieri, come sarebbe la sua musica?." Pensiamo che la sua musica abbraccerebbe tutte le culture e crediamo che in questo momento storico sia il caso di ribadire che la musica è una delle poche espressioni capaci di unire tutte le etnie e le culture. Lo ha dimostrato nel passato la grande cantante egiziana Oum Kalthoum che è riuscita a unire nei suoi valori tutto il mondo arabo, dimostrando che l'amore sta nascosto dove meno te lo aspetti: le sue canzoni parlano di amore, di condivisione, di pace.
Abbiamo immaginato quindi che l'orchestra nel suo percorso abbia incontrato Duke Ellington, il compositore giapponese Yamada Kosaku, la grande Amalia Rodrigues o musicisti "minori" verso i quali ci ha guidato il caso...

AAJI: Spiegati meglio...

M.O.: In quel periodo io e Vanessa Tagliabue Yorke ci trovavamo a Parigi in occasione di alcuni concerti. Un pomeriggio salendo a Montmartre con il trenino turistico abbiamo ascoltato un brano di Edith Piaf che ci ha ricordato una composizione del fisarmonicista mantovano Ivano Scattolini. Abbiamo trovato lo spartito originale e appreso che il brano non è firmato da lui perchè Scattolini non era iscritto alla Siae. Ho riarrangiato completamente il brano, e con Vanessa abbiamo composto un testo originale in francese dedicato al maestro. Ora questa canzone si trova nel primo volume di "Musica per una società senza pensieri" il nostro nuovo disco ed è intitolata "Yves l'accordéoniste."

AAJI: Quasi una ricerca etno-musicologica...

M.O.: Un lavoro durato due anni: scegliere i pezzi, trovare le partiture originali e rielaborarle. Una torre di babele musicale che non ha voluto ingabbiare i temi in una percorso filologico. Abbiamo ripreso una delle quattro canzoni popolari di Shostakovich scritte per piano e voce: siamo andati alla biblioteca del Conservatorio di Milano a fotografare le partiture originali e ci abbiamo lavorato sopra. Ho scritto un'introduzione per un piccolo ensemble cameristico e le pietre sonanti dello scultore Pinuccio Sciola organizzando il tutto in un percorso che arriva a Frank Zappa. Ed ancora canzoni ucraine cantate da un coro alpino, oppure il brano che Duke dedicò alle Barbados e poi ha incluso in A Drum Is a Woman. Per "Sirt El Hob," il brano arabo, abbiamo chiesto una consulenza al professor Scarnecchia, uno dei massimi esperti mondiali che ci ha aiutato a decodificare quelle strutture musicali.

AAJI: Mi pare chiaro che questo disco celebra le musiche popolari e l'incontro tra le culture. Purtroppo basta poco a chi non conosce e non vuol conoscere, fare paragoni offensivi... Non voglio far da megafono all'ignoranza o alla malafede del collaboratore tedesco di Internazionale ma forse vuoi rispondere a quell'incredibile accusa di razzismo rivolta al vostro cartone che presenta "Chubanga," uno dei brani del disco?

M.O.: La mia risposta è semplice. Nel mio vocabolario non esiste la parola razzismo come non esiste nel vocabolario di alcun jazzista. La mia fonte d'ispirazione primaria è la musica afro-americana senza contare che i miei genitori hanno vissuto in Nigeria molti anni ed io sono stato concepito lì. Mio papà lavorava coi nigeriani per aiutarli, lui e mia madre vivevano in un container, non in un hotel 5 stelle.
Mi dispiace vedere alcune persone, prendere a pretesto gli stereotipi del cartoon senza contestualizzarli, fermandosi alle apparenze. Ultima cosa: la copertina del secondo volume, già stampata da mesi, vede ancora un disegno di me e Vanessa che siamo diventati neri. Ovvero, alla fine del viaggio si svela la nostra identità afro-americana.

AAJI: Cosa avete sviluppato nel secondo volume e quando sarà pubblicato?

M.O.: Uscirà in luglio ed è un disco dal sapore più esotico. Abbiamo ancora delle parentesi di musica araba, un brano di Amalia Rodrigues, "Libertação," un brano turco, una ninna nanna giapponese, un tema brasiliano cantato nella versione originale e col testo italiano di Bardotti, che è stato un grandissimo paroliere. Tra le altre cose un brano originale, "Mambo Sans Souci" e un finale che rappresenta il ritorno alla montagna.
Vorrei sottolineare lo straordinario lavoro di Vanessa Tagliabue Yorke, che canta in dodici lingue diverse, e di Vincenzo Vasi altrettanto virtuoso e duttile.

AAJI: Di recente hai scritto una colonna sonora originale per il film di Buster Keaton "Le sette probabilità" per eseguirla coi Sousaphonix al Torino Jazz Festival del 2014. Ce ne vuoi parlare?

M.O.: Intanto ringrazio Stefano Zenni che mi ha proposto di fare questa cosa. Io avevo già scritto colonne sonore per altri due film di Keaton. Come sai la musica per eccellenza dei film muti era il ragtime, per i suoi cambi continui di tema e per il ritmo capace di movimentare le sequenze filmiche. Nel mio lavoro ho seguito la strada di Kjeld Bonfils, un pianista svedese che s'ispirava ai pianisti dell'epoca in un'originale mescolanza con la musica colta. Com'è nostro uso abbiamo unito il vecchio al nuovo, con accostamenti magari azzardati ma per noi stimolanti.

AAJI: Su You Tube c'è una documentazione ma chi non era presente potrà ascoltare la cosa in un formato adeguato?

M.O.: La biblioteca di Bologna ha acquistato il film e sembra che lo voglia ristampare con il nostro soundtrack. Se questo non dovesse accadere pubblicheremo comunque la musica in un CD.

AAJI: Un altro tuo gruppo che non è documento si chiama Smashing Triads. Pubblicherete qualcosa?

M.O.: Questo gruppo riprende più lo spirito che le musiche di Fats Waller perchè in realtà eseguiamo solo occasionalmente sue composizioni. Siamo io al sousaphone (e con un piede al charleston), Enrico Terragnoli al banjo (e con un altro piede alla grancassa), Guido Bombardieri al clarinetto e Vanessa Tagliabue alla voce e pentole cromatiche. Una situazione sperimentale sgangherata dove mescoliamo cose molto diverse: che so, un tema di Christopher Handy con una canzone cubana. Ritorna il concetto del vagare per il mondo e condire le varie citazioni con un nostro suono che è rock e dixieland allo stesso tempo. Di questo gruppo uscirà in una raccolta live per l'etichetta veronese del jazz club Le Cantine dell'Arena in collaborazione con Azzurra. Ci saranno registrazioni di brani presentati live negli ultimi anni con i miei gruppi.

AAJI: Infine il tuo quartetto appena costituito, che si chiama Latolatino ...

M.O.: Non so se si chiamerà ancora così. Comunque io suono il trombone e le conchiglie, Peo Alfonsi è alla chitarra classica, Titti Castrini alla fisarmonica e Daniele Richiedei al violino.
Mi piace molto il sound di quest'organico perchè ha un un'impronta popolare, un sapore latino molto caldo. Non c'è ritmica ma la ritmica la facciamo noi in vari modi. Cerchiamo di suonare con molto interplay anche se lavoriamo su precise strutture. Non mancano però momenti in cui interagiamo fuori dalle righe però sempre in maniera collettiva. In aprile registreremo un disco che uscirà l'anno prossimo.

AAJI: Tu hai inciso con vari musicisti rock o cantanti di musica leggera. Le consideri esperienze significative o sono solo lavori di studio?

M.O.: Quando accetto una scrittura è perchè la considero significativa altrimenti rifiuto. Mi hanno anche criticato per questo, ma se una cosa non mi piace non mi coinvolgo. Soprattutto suonare con Vinicio Capossela mi è servito moltissimo. Sono uno che tende a scrivere molto mentre con Vinicio ho imparato a valorizzare le cose togliendo invece che aggiungendo. Questa è una cosa che pochi sanno fare e tra i cantautori De Andrè lo faceva benissimo, tanto quanto Guccini e Paolo Conte. Vinicio ha una fantasia straordinaria, con in mente un mondo sonoro bellissimo e sa come valorizzare i suoni per esaltare i suoi testi. Anche grazie a quell'esperienza sono arrivato a capire che quando c'è un intervento solista il resto si deve fermare. Ci sono momenti collettivi di grande affollamento ma ci deve essere spazio per il raccoglimento, per evidenziare un dettaglio.
Già Franco DAndrea, che ho avuto la fortuna di avere come insegnante, mi diceva: "Mauro, stai attento a scrivere per la ritmica. Dai delle indicazioni e non lasciare troppa libertà... oppure lascia liberi tutti." Come fa lui nella sua musica...

AAJI: Si, ma voi che suonate con D'Andrea sapete bene cosa vuole...

M.O.: Certo. Ci sono delle direzioni precise. In realtà sei libero ma entro le coordinate della musica di Franco.

AAJI: Ci sono dei dischi che sono stati per te un punto di svolta?

M.O.: I dischi di Lester Bowie sicuramente, sia quelli con la Brass Fantasy che con l'Art Ensemble Of Chicago. Ce ne sono poi molti altri. Ho sempre amato la musica di Ellington, ad esempio le sue suites. E ancora The Black Saint and the Sinner Lady, il manifesto di come Charles Mingus abbia fatto evolvere la musica di Duke. Un capolavoro sia nelle orchestrazioni che nell'apporto dei solisti, pensiamo a Charlie Mariano. Altri dischi per me importanti sono quelli di Dave Douglas, un grande trombettista che scrive pezzi bellissimi.

AAJI: Hai le chiavi della macchina del tempo. Tra i musicisti del passato, chi vorresti suonare?

M.O.: Non ci penso neanche. Con Louis Armstrong!!! Senza considerare che con lui suonava Trummy Young che è stato uno dei miei trombonisti preferiti tanto quanto Jack Teagarden, Miff Mole, Kid Ory e i musicisti degli anni Venti e Trenta. Armstrong aveva uno swing straordinario, irripetibile. Un altro potrebbe essere Bix Beiderbecke e per questo ho realizzato Bix Factor: per esaltare in una veste contemporanea la musica di quegli anni.

AAJI: Il successo di quel progetto viene dal fatto che non hai riproposto in modo filologico quelle musiche ma le hai calate nella dimensione dell'attualità, lasciando intatto il loro potenziale eversivo... perchè per l'epoca quella era musica davvero eversiva... purtroppo quasi tutti i gruppi dixieland moderni l'hanno ridotta ad una formula, uno scheletro vuoto...

M.O.: Sai perche? Perche la maggior parte di questi gruppi si limita a riproporre le cose più ovvie, come avviene anche per altri generi del jazz ovviamente (anche in ambito contemporaneo, vedi ad esempio la moltitudine di piano trio che imitano Keith Jarrett e Brad Mehldau). È la stessa cosa di quelli che vanno in Africa e restano nel villaggio turistico. E pensare che quella musica era registrata malissimo, pensa se fosse stata registrata con la tecnica di oggi. Ampliando gli orizzonti alla musica colta sono gli anni delle grandi innovazioni, della dodecafonia, eccetera.
Nel jazz tradizionale ci sono pezzi strepitosi che non vengono mai suonati e tanto meno esplorati. Penso a "Deep Henderson" di King Oliver che noi abbiamo rifatto cambiando solo i suoni e lasciato intatta la struttura armonica [compara la versione di King Oliver con la versione dei Sousaphonix].

AAJI: Quali sono le qualità che apprezzi maggiormente nei tuoi partner?

M.O.: Mi piace che siano personali e capaci di ascoltarsi in continuazione, restando in dialogo con tutti gli altri. Questa è una cosa straordinaria che io ho appreso da loro, più che loro da me. Penso alle prime esperienze con Zeno De Rossi ed Enrico Terragnoli, grandi artisti che mi hanno insegnato molto, senza parlare molto. Mi hanno fatto capire che la nostra musica doveva andare sempre in una direzione ben precisa. Bisogna sempre prendersi delle responsabilità, perchè il coraggio di fare cose magari azzardate è sinonimo di verità.
Ricordo una cosa significativa. Per il disco The Sky Above Braddock avevo previsto d'incidere un pezzo di cui mi ero innamorato, "Oclupaca" di Ellington. È un brano tutto scritto senza spazi improvvisativi. Avevo trascritto l'arrangiamento adattandolo alla nostra strumentazione e l'abbiamo registrato 2 o 3 volte. Il pezzo veniva bene ma alla fine si avvicina Zeno e mi dice: "Mauro, rifacciamolo senza le partiture e suoniamolo come ce l'abbiamo in testa perchè così è bello ma l'ha già fatto Ellington." Ne è uscita una versione tutta storta dove i temi saltano fuori di qua e di là. Ho ringraziato Zeno ed è quella che poi è andata sul disco.

AAJI: Hai risposto all'ultima domanda che volevo farti, ovvero se le partiture che scrivi sono già pronte per essere eseguite o nascono in un work in progress...

M.O.: Eh no, dipende. Io scrivo comunque moltissimo perchè a tirare via si è sempre in tempo. Non sono uno che rappresenta la corrente minimal, a me piace il suono collettivo, l'orchestra. Scrivo quindi sempre tutto ma mi confronto comunque con i musicisti, perchè ho grande stima di loro e li ritengo superiori a me. Io non chiamo mai nessuno che ritengo meno bravo di me. Quindi ascolto quello che hanno da dire e talvolta cambiamo le cose che avevo in mente. Però io scrivo tutte le parti meticolosamente perchè altrimenti non riusciamo a fare bene e in fretta.
Le 23 session di quest'ultimo disco hanno richiesto solo 2 giorni e mezzo. Suonate con un'orchestra di 18 musicisti che suonano ognuno 3 o 4 strumenti diversi. Tutto ben previsto sulla carta ma pronto a essere messo in gioco come mi ha insegnato D'Andrea. Col suo gruppo quando saliamo sul palco non sappiamo neanche la scaletta dei brani e lui ti dice solo: "parti tu." Franco è uno che ti suggerisce "nel pezzo si potrebbe fare questo...." Poi se lo fai o meno dipende da te.

Foto
Roberto Cifarelli.

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