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Intervista a Franco Ambrosetti

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Il 2019 è stato un anno significativo per il trombettista svizzero Franco Ambrosetti. In aprile è stato pubblicato il suo libro autobiografico "La scelta di non scegliere" mentre da poche settimane è uscito Long Waves, il suo ventottesimo disco da leader con un cast stellare comprendente John Scofield, Uri Caine, Scott Colley e Jack DeJohnette.

Figlio di Franco, il capostipite dei sassofonisti bop europei, e padre di Gianluca, pure sassofonista, Franco Ambrosetti è tra i protagonisti del jazz internazionale dalla metà degli anni sessanta a oggi. Nei suoi album hanno suonato Michael Brecker, Geri Allen, Greg Osby, Kenny Barron, Miroslav Vitous e i principali jazzmen italiani: da Enrico Rava a Dado Moroni, da Antonio Farao a Maurizio Giammarco. In quest'intervista parla dei nuovi lavori, riflette sullo stato del jazz e rievoca momenti chiave della sua vita artistica.

All About Jazz Italia: Penso che il pregio maggiore di Long Waves sia la sua freschezza. La musica scorre in un dialogo intenso ma rilassato, pur mantenendo interplay e tensione collettiva. Trasmette la passione di condividere i valori profondi di una tradizione musicale.

Franco Ambrosetti: È vero. Penso sia dovuto al fatto di lavorare con persone che la pensano allo stesso modo. Che affrontano la musica dando priorità ai sentimenti senza voler sfoggiare la tecnica. Questa è una cosa che si fa da giovani ma quando si cresce ci si concentra a realizzare le cose importanti, riuscendo a esprimersi con meno note, scegliendo quelle che contano. In definitiva la tecnica non è un fine ma un mezzo e questo Miles Davis ce l'ha insegnato.

Coi partner di questo disco c'è molta affinità dal punto di vista musicale e personale. Con Uri Caine ho lavorato tanto e continuo a farlo. Scofield lo conosco dal 1977, quando l'ho incontrato al festival di Berlino e l'anno successivo è entrato nella band con mio papà, Daniel Humair e George Gruntz. Poi nella metà degli anni ottanta era con me nei dischi che avevo inciso per la Enja e in altre occasioni successive. Scott Colley è l'unico con cui suono per la prima volta ma ci conoscevamo da tempo.

AAJ: Avete fatto delle serate prima dell'incisione in studio?

FA: No, nessuna serata anche se in studio siamo stati insieme tre giorni. Inoltre c'era l'esperienza del disco precedente Cheers. Lì avevo riunito alcuni musicisti che mi sono stati vicini in passato, come Kenny Barron, Antonio Farao, Dado Moroni, Terri Lyne Carrington o Randy Brecker. Una sorta di party musicale in cui è stato molto interessante essere assieme. Da lì è infatti nata l'idea di fare una cosa più ristretta ovvero l'incisione di Long Waves.

AAJ: Uno dei temi originali del disco si intitola "Milonga" ed ha legami con la musica sudamericana. Ricordo che in The Nearness Of You interpretavi "Luiza" di Antonio Carlos Jobim. Visto che è da poco scomparso Joao Gilberto, vorrei chiederti dei tuoi legami con la bossa nova.

FA: L'ho scoperta nel 1958, prima che diventasse un fenomeno mondiale. Io avevo meno di vent'anni e una mia amica brasiliana che viveva a Lugano aveva quei dischi. Quando li ho ascoltati sono caduto per terra! Da allora sono rimasto affascinato da quella musica che, dal punto di vista armonico, è anche molto facile da suonare per un jazzista e mi ha ispirato per altre composizioni: ad esempio in "Silly in the Sky" che scrissi 23 anni fa per mia moglie.

Hai citato "Luiza" che è un capolavoro, mi pare la sua ultima composizione. Ho un ricordo indelebile della registrazione che Jobim fece cantandola da solo al pianoforte al festival di Montreux, pochi mesi prima di morire. In quell'esecuzione cantava con grande pathos e partecipazione. Fui davvero colpito e mi promisi di registrare quel brano, cosa che ho fatto qualche tempo dopo.

AAJ: Un'altra pubblicazione importante di quest'anno è stato l'autobiografia, edita da Jazzit, dal titolo "La scelta di non scegliere." Al di la dei mille episodi storici e aneddoti che il testo contiene qual è il senso profondo del libro?

FA: Fino a una decina d'anni fa ho condotto due vite. Essendo il primogenito di una famiglia di industriali alla quarta generazione, ovviamente ci si aspettava da me la direzione delle aziende, che erano una a Milano e una a Lugano. La mia aspirazione era quella di fare il musicista ma era difficile con quelle aspettative che mi cadevano addosso da parte della famiglia. Quindi ho combattuto con me stesso per decidere che strada prendere. Fare l'industriale significava che dovevo laurearmi almeno in economia. Mio papà voleva che frequentassi ingegneria a Zurigo ma io non volevo, anche perchè ero poco ferrato in matematica. Alla fine mi sono laureato in economia ma con una grande lentezza visto che per sei/sette anni—dal 1962 al 1968—non frequentavo le lezioni ma suonavo jazz da professionista. Dopo aver vinto il primo premio al "Vienna International Jazz Competition..."

AAJ: ... il secondo classificato fu Randy Brecker ....

FA: Si esatto, con un punto di differenza: io presi 98/100 e lui 97. Fu praticamente un ex aequo e ancora oggi ci scherziamo... Quindi dopo il premio decisi di laurearmi e in un anno ho fatto tutto quello che mi mancava. Però non furono anni persi, perché imparai a suonare la tromba. Per arrivare a suonare lo strumento a livello professionale occorre impegnarsi sei/sette ore al giorno. O lo si fa al conservatorio oppure, come facevo io, in un locale di Zurigo, l'Africana, dove orbitavano tutti i musicisti jazz. Il papà non mi avrebbe mantenuto se avessi deciso di dedicarmi totalmente alla musica e la borsa di studio che avevo vinto a Vienna per studiare in America, l'ho regalata a un trombettista jugoslavo.

AAJ: Quindi?

FA: Quindi mi sono diviso tra la professione di industriale e quella del musicista. In definitiva non è stato impossibile...

AAJ: Beh, hai dimostrato che ci si può riuscire benissimo...

FA: Infatti. E come scrivo nel libro, ho deciso di non scegliere. La domanda che più mi è stata posta in questi anni è come ho fatto a combinare le due professioni, anche per questioni di tempo. Come fa un avvocato che svolge anche il ruolo di assessore? L'unico problema è stato quello di conciliare i concerti importanti con appuntamenti di lavoro altrettanto importanti. Per quanto mi riguarda sono sempre riuscito a trovare le soluzioni. È principalmente una questione di organizzazione. Per quanto riguarda la quotidianità, con un'ora e mezza di esercizi al giorno mi mantengo allenato.

AAJ: Il tuo essere musicista ti ha aiutato nella professione manageriale?

FA: Si. Un artista, che sia musicista, pittore o altro, è una persona creativa e la creatività è importante in azienda. Spesso ci si dimentica di valutarlo nei curricula. Chi ha fantasia è uno bravo e chi è senza creatività non aiuta moltissimo perché farà solo un lavoro di routine. Quindi la creatività è uno dei requisiti essenziali nella vita professionale e serve anche quando si gestisce un consiglio di amministrazione, quando si hanno riunioni con la commissione d'azienda o si concludono degli affari. Ma la professione di jazzista mi è stata utile anche per la comprensione di quella che è la socialità entro l'azienda, delle caste che si formano e che bisognerebbe evitare di sostenere.

AAJ: In che senso?

FA: Chiarisco partendo da un esempio. La mia prima tournée l'ho fatta nel 1961 con Romano Mussolini insieme a Dino Piana, Franco Tonani e altri. Giravamo l'Italia per un mese ed eravamo il jazz all'interno di un "carrozzone" di musica leggera. Una delle star era Peppino di Capri ma c'erano Sergio Endrigo, ancora sconosciuto, e tra i comici Alighiero Noschese. Le superstar del pop finivano sempre in alberghi di quattro o cinque stelle mentre noi jazzisti dividevamo una stanza in tre. Quando vivi questa realtà ti rendi conto di essere un operaio. Io venivo da una famiglia benestante e non avevo problemi ma stavo con loro e li aiutavo quando potevo. In esperienze come questa si impara a stare dall'altra parte della barricata, avendo di fronte dei poteri forti che decidono su quello che devi fare. Questa è stata una scuola di vita fantastica, che mi è servita quando ho dovuto gestire l'azienda, nel rapportarmi con i sindacati o con la commissione d'azienda. A differenza di tanti miei colleghi io capivo i loro problemi e cercavo con loro le migliori soluzioni.

AAJ: Hai detto di amare molto la musica di Frank Zappa e la cosa mi ha incuriosito...

FA: Beh... Frank Zappa era un genio. Non so se hai mai ascoltato le sue composizioni registrate con la London Symphony Orchestra. È qualcosa di sconvolgente, una musica d'avanguardia appena meno complicata di Stockhausen. Jean-Luc Ponty mi ha raccontato che Zappa passava notti intere senza dormire, scrivendo musica ininterrottamente. Penso ancora a dischi innovativi come Hot Rats, che lo distinguevano totalmente dagli altri gruppi rock.

AAJ: Cosa ricordi invece di Mina, con cui hai collaborato a lungo?

FA: Mina è una musicista. Quando si lavora in studio con lei è come trovarsi con jazzisti di prim'ordine. Come fanno tutti i grandi artisti non si dà arie da star. Anche Frank Sinatra era lo stesso. Nelle sue canzoni potevo fare ovviamente solo brevi assoli. Ora molti usano la tromba jazz nel pop ma trent'anni fa era insolito e in questo Mina—con suo figlio Massimiliano che scriveva gli arrangiamenti—è stata innovativa. Ricordo che in tante occasioni registravo qualche intervento poco commerciale e se io mi scusavo lei dalla console mi incoraggiava: "no per niente, anzi fallo ancora più duro, non ti preoccupare..." Un'artista aperta, una cantante meravigliosa, una persona adorabile e sempre disponibile. Mi chiamava "l'angelo" e ha finito per regalarmi un angelo d'oro.

AAJ: Non sempre i grandi talenti si mostrano umanamente disponibili...

FA: Il più noto di questi è stato Miles Davis che era ostico, soprattutto coi bianchi, ma poi su di me ha espresso un giudizio lusinghiero ("Ambrosetti è l'unico trombettista bianco che suona come un nero. Lui sa davvero suonare. Se dovessi scegliere un trombettista, sceglierei lui." N.d.R.). La prima volta che l'ho visto era il 1964 e l'ho incrociato nei camerini del Teatro dell'Arte a Milano dove io aprivo il suo concerto. Lui mi ha solo stretto il braccio passando, senza guardarmi... La sera chiesi ad Herbie Hancock il significato di quel gesto e mi rispose che era un gran complimento. Miles era così. Allora era molto riservato ma più avanti con me cambiò un po' e mi salutava cordialmente.

AAJ: Una delle caratteristiche del tuo stile è il suono. Ti è costato molto impegno ottenere un suono così bello?

FA: No. Evidentemente è questione di esercizio ma è anche una questione di labbro e denti e quella è una conformazione naturale. Sono stato un ammiratore del suono di Chet Baker, anche se per altri aspetti ho avuto riserve perchè il mio modello è stato Clifford Brown. Vengo dalla scuola nera, non vengo dal cool jazz. Però ho sempre ammirato il sound di Chet che è rimasto bello anche quando gli spaccarono tutti i denti. L'altro suono che mi piaceva tantissimo era quello di Miles, che suonava anche il flicorno esprimendo l'identica bellezza della tromba. Per esempio in Porgy and Bess lui suona il flicorno e non la tromba ma non c'è alcuna differenza.

AAJ: Anche Booker Little non scherzava...

FA: È vero. Grandissimo non solo come suono. Se non non fosse morto troppo presto Freddie Hubbard avrebbe avuto qualche problema ad essere il numero uno, come poi è diventato. Uno dei grandi trombettisti dimenticati che ci tengo a ricordare è Kenny Dorham. Per vivere ha fatto il tassista e altri mestieri ma è stato un solista straordinario. Lo ricordo in uno dei primi dischi di Cecil Taylor—che è stato pubblicato a nome di John Coltrane col titolo Coltrane Time. Dorham suona in modo stupendo, molto avanzato per l'epoca.

AAJ: Nel 2003 hai pubblicato un album intitolato European Legacy. Credi che esista una qualche specificità del jazz europeo rispetto a quello statunitense?

FA: Ovviamente non era contro gli Stati Uniti perché comunque facciamo un'arte americana. Ho realizzato quel disco perché mi sembrava giusto utilizzare anche il repertorio europeo. Stessa cosa ho fatto poi con Grazie Italia interpretando solo canzoni italiane ringraziando l'Italia per la cultura che mi ha dato, anche se sono di nazionalità svizzera.

AAJ: Come vedi la realtà del jazz oggi rispetto a quando hai iniziato?

FA: Sai, faccio fatica a dare una risposta. Come quelli della mia generazione ho appreso il jazz suonando con altri, soprattutto nelle jam session, correndo il rischio di farsi insultare per gli errori. Era un duro apprendistato, the hard way come dicono gli americani. Ora i musicisti escono dalle scuole. Vanno a scuola e studiano quello che io non avevo mai studiato, perché non c'erano libri o metodi per imparare. Dovevi avere orecchio, talento e pian piano le cose le apprendevi. Ora si insegna tutto ma, a parte i pochi che hanno davvero talento, escono musicisti tutti uguali. Dove vada il jazz oggi non lo so. So però che è difficilissimo vedere questi ragazzi ai concerti mentre io non me ne perdevo uno e dopo andavo sempre alle jam session. Studiano tutti con diligenza ma quando c'è il grande gruppo americano di passaggio non li vedi. Non basta fare le master class, bisogna buttarsi nella mischia, ascoltare i grandi e possibilmente suonare con loro. Io sono di quella generazione e la penso così, magari sbaglio.

Foto: Roberto Cifarelli.

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