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Intervista a Fabrizio Bosso

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Con un nuovo album registrato dal vivo tra l'Italia e il Giappone, Fabrizio Bosso ha ripercorso il proprio cammino artistico e musicale, fotografando con il suo attuale quartetto i memorabili istanti di un tour ancora in atto.
Abbiamo avuto il piacere di parlarne insieme...

All About Jazz: Iniziamo dal tuo ultimo album, State of the Art... Quale ruolo riveste un tal lavoro in questo momento della tua carriera?

Fabrizio Bosso: Il titolo stesso, State of the Art, porta con sé l'idea di fermare questi ultimi tre anni di concerti in giro con i ragazzi, a cominciare da Luca Alemanno al contrabbasso il quale, avendo vinto recentemente una borsa di studio ed essendo impegnato per due anni a Los Angeles, ha lasciato il posto a un altro giovane e incredibile contrabbassista, Jacopo Ferrazza. Ci sono poi Julian Oliver Mazzariello, il mio pianista, dal quale non riesco più a separarmi, dal duo al quartetto, passando per le big band, e con Nicola Angelucci, un altro grande musicista, e preciso il termine "grande musicista," che è differente dal dire "grande batterista," perché è intelligente e ha sempre soluzioni giuste al momento giusto. Quindi, ho voluto documentare questo momento in cui mi sto divertendo molto. Quando suono con loro sento di tirare fuori il meglio di me, perché sono straordinari, ricettivi e capiscono subito quale direzione deve prendere la musica. Inoltre mi è tornata la voglia di suonare le mie composizioni, percependole in modo diverso.
La decisione di fare un album doppio è scaturita poi dal fatto che volevo mantenere i brani in versione integrale e, come puoi immaginare, dal vivo ogni pezzo pu brani possono durare anche dieci o quindici minuti.

AAJ: Ascoltando l'album si ha la chiara percezione che tu abbia lasciato molto spazio, sia compositivo sia esecutivo, ai tuoi compagni. Quale rapporto musicale e umano intercorre tra voi?

FB: Il mio obiettivo è proprio quello di valorizzare e responsabilizzare i componenti del gruppo. Il Fabrizio Bosso Quartet porta il mio nome e sono io a scegliere buona parte della musica, ma penso anche che nel cooperare in quattro risieda maggior forza, maggiore energia. Non mi piace vestire i panni del leader protagonista che deve suonare più degli altri e prendere gli applausi più forti. Con gli anni ho capito una cosa, e cioè che i membri di un gruppo devono lavorare all'insegna di una grande complicità. Una complicità percepibile anche giù dal palco e capace di veicolare un messaggio forte, quello di quattro ragazzi che stanno bene e si divertono. Poi nel corso di una tournee si condivide anche il quotidiano, dal mangiare assieme al viaggiare e parlare. E naturalmente un simile bagaglio di emozioni lo porti con te fin sopra il palco.

AAJ: Quali analogie e differenze intercorrono tra il quartetto di State of the Art e gli High Five?

FB: Sicuramente sono maturato... Non voglio dire che siano cambiati i gusti musicali, perché le radici sono rimaste sempre le stesse. Ma naturalmente ho fatto anche tanti incontri e quindi ricevuto stimoli da musicisti con provenienze diverse che mi hanno comunque arricchito parecchio. Mi relazione anche diversamente alla musica che suonavo dieci o quindici anni fa... ora ci arrivo con un'idea differente.

AAJ: Parliamo di un tuo pezzo presente nell'album, "Minor Mood..."

FB: Si è trattato quasi di un gioco, di una frase, di una cellula ritmica e melodica "rubata" a Kenny Garrett che ognuno di noi ha poi usato per azzerare e rilanciare il pezzo a un tempo nuovo. In realtà stiamo semplicemente parlando di un blues minore nato da una grande libertà e creatività, poiché il pezzo può trasformarsi continuamente in un blues lento, in un funk, in un super fast o in un blues "alla vecchia," e il tutto è molto divertente perché ogni sera può accadere qualcosa di diverso. Tutto ciò mi permette di affrontare un po' tutti i linguaggi che io amo, dal jazz più vecchio a quello più contemporaneo, dall'hard bop al funk...

AAJ: Passando invece a "Rumba for Kampei," spicca un dosato uso della sordina. Quale importanza riveste questo strumento nella tua musica? In base a quali finalità tecniche, musicali, comunicative lo utilizzi?

FB: Si, c'è una sordina particolare che riporta un po' alle sonorità del Buena Vista Social Club, se vogliamo... Questo è un brano dedicato a un bambino africano, figlio di un masai. Ero in vacanza a Zanzibar e ogni mattina scendevo a passeggiare in spiaggia, dove le mogli dei masai facevano il mercatino e la sera spettacoli di canti e balli. Sin dal primo giorno mi venne incontro questo bambino di due o tre anni, con un sorriso incredibile, e da lì l'ho praticamente adottato per una settimana. Quello fu uno dei pochi casi in cui ho scritto di getto una melodia, spinto anche da questo incontro così bello.
Riguardo la sordina, sentivo l'esigenza di trovare un suono diverso, particolare, al fine di creare una melodia che fosse come cantata da due persone diverse. Se io suono con la tromba aperta o con la sordina, parliamo di due timbri che inducono a suonare con approcci differenti, sia nel caso della melodia sia nel caso dei soli.

AAJ: Parlando sempre di tecnica, in particolare della respirazione circolare... La consideri un mezzo in grado di accentuare il lato più virtuosistico ed eccentrico del bebop o un mezzo funzionale alla riuscita di un determinato brano? Quale discrimine esiste nel bop, a tuo avviso, tra il funambolismo tipico di questo genere e la veicolabilità di emozioni e sentimenti?

FB: Dipende da come viene usata, perché la respirazione circolare può essere sfruttata in un momento in cui stai suonando una frase che non riesci a completare con il fiato preso. Così come la si può usare per creare degli effetti, come a me succede, ad esempio di ribattere le stesse note portandole all'infinito. Quest'ultima diventa una cosa abbastanza pirotecnica. A volte mi capita anche di fare brani lenti, di iniziare una frase e sentire l'esigenza di creare una continuità, quindi utilizzo questo artificio anche sul fraseggio, continuando a improvvisare e creando melodie nuove. Tutto ciò è molto faticoso, perché si suona su tutto il registro dello strumento, per non essere scontati, ed è quindi impegnativo, perché se sulla tromba si rilassano i muscoli è finita.

AAJ: State of the Art è stato registrato tra Roma, Verona e Tokyo. Puoi parlarci del Giappone, del modo in cui lì viene recepita la tua musica e il jazz in generale?

FB: C'è da dire che i giapponesi hanno sicuramente due grandi passioni nel jazz: quello americano e quello italiano. Ci hanno scelto. Senza dubbio cercano molto i jazzisti italiani, i quali si pongono un po' nella direzione degli americani, ma a prescindere sono molto curiosi. Parliamo di un pubblico molto attento e competente. Inoltre ci sono tantissimi musicisti, soprattutto trombettiste donne. L'ultima volta che sono stato lì, qualche mese fa... ricordo di aver fatto quindici o sedici autografi su custodie e cellulari. Quindi c'è una grande attenzione, ci tengono molto alla musica, e anche se non diventano poi professionisti, per loro imparare a suonare uno strumento è sicuramente molto importante. Quindi vanno ai concerti, sono curiosi e hanno grande attenzione.

AAJ: Hai letteralmente bruciato le tappe a livello accademico. Hai scoperto il jazz prima o dopo aver iniziato a studiare e suonare in conservatorio?

FB: Prima. Con un padre trombettista, un nonno batterista e uno zio batterista girava molta musica in casa. In primis le grandi big band, quelle di Count Basie, Duke Ellington, ma anche Chuck Mangione, Clifford Brown. Sono cresciuto un po' con questa musica. Ho condotto gli studi classici ma contemporaneamente già andavo a suonare nelle orchestre "amatoriali," diciamo così... Per un periodo, negli anni Novanta, c'erano diverse bande di paese che occasionalmente si trasformavano in big band, chiamando magari delle ritmiche di base, e uscivano anche cose carine. Per me è stato molto importante aver avuto la fortuna di andare con mio padre, a dieci o undici anni, a suonare in queste orchestre, perché era comunque un modo per imparare a suonare con gli altri. Poi magari non si suona benissimo, però si impara a stare insieme, una cosa questa che manca un po' nei conservatori. Spesso si preparano i musicisti individualmente, i grandi solisti, ma alla fine quanti riescono davvero a fare i solisti? Mi raccontavano i musicisti della London Symphony, con i quali ho avuto la fortuna di registrare il disco Enchantment dedicato a Nino Rota, che all'interno di quella realtà ci si prepara innanzitutto a saper suonare insieme, poi magari i più forti diventano solisti, primi violini... Ma nel frattempo si impara a suonare insieme, a stare insieme, che è cosa fondamentale.

AAJ: Insieme ad Alessandro Cosentino e Cristina Mazzavillani Muti hai realizzato una rivisitazione della "Bohème" di Giacomo Puccini. Che rapporto hai con l'opera?

FB: Sicuramente le melodie operistiche sono molto facili da trasportare nel nostro mondo. In quel caso avevo un ruolo di un quarto d'ora circa dove duettavo con Simone Zanchini, fisarmonicista bravissimo, e con la band di Alessandro. È stato molto facile entrare in quella dimensione e fare quel tipo di incursione jazzistica, perché comunque queste arie, armonicamente, non sono così lontane in realtà dal mondo del jazz. Sono facilmente trasformabili in uno standard, se vogliamo.

AAJ: Presenzi da anni a Sanremo, accompagnando artisti a te affini per stile e per genere. Quanto una tale kermesse può avvicinare il grande pubblico al jazz?

FB: Moltissimo. Sicuramente il pubblico del jazz si è svecchiato anche grazie alle incursioni dei jazzisti nel mondo del pop e grazie all'apertura di alcuni cantanti e cantautori come Vinicio Capossela, Sergio Cammariere, Nina Zilli, Simona Molinari, che hanno deciso di cimentarsi in sonorità diverse e avere anche un solista accanto. Magari prima era impensabile andare a Sanremo e ascoltare un Danilo Rea o uno Stefano Bollani. Questo passo è stato importantissimo. È importante anche per gli stessi jazzisti non essere troppo chiusi. È fondamentale riuscire a selezionare e fare cose di qualità, ma la musica buona, che sia pop, funk o jazz, se la suoni con le giuste intenzioni, può sempre tramutarsi in qualcosa di importante.

AAJ: Sei stato il direttore artistico del Piossasco Jazz Festival. Che imprinting davi a questa rassegna?

FB: Lo sono stato fin quando sono venuti a mancare i finanziamenti, e per ora non se ne parla di riprovarci. In ogni caso, cercavo innanzitutto di far suonare i musicisti che stimavo, quindi jazzisti come Enrico Rava, Paolo Fresu, Stefano di Battista, Enrico Pieranunzi, Dado Moroni, Rosario Giuliani. Fin quando ci siamo riusciti, abbiamo anche fatto cose più trasversali in una terza serata, sempre che avessero a che fare qualcosa con il jazz, ad esempio con Fabio Concato, Petra Magoni, Danilo Rea e Gino Paoli. È stata una bella esperienza, poi purtroppo sono mancati gli appoggi e abbiamo dovuto interrompere. C'è stata anche una mezza proposta di fare qualcosa in tono minore, ma in questi casi si va a crescere, non si torna indietro.

AAJ: Qual è stata la tua più grande emozione musicale e quale grande emozione desidereresti che il futuro ti riservasse?

FB: Ancora la devo provare la più grande emozione. Si fa questo lavoro per trovare sempre un'emozione più grande della precedente. Sarebbe riduttivo dirne una, ce ne sono state tante forti, ma ogni volta che si sale su un palco la speranza è sempre quella di emozionarsi. E di emozionare chi si ha davanti.

Foto: Adriano Bellucci

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