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Il free jazz: avanguardia o mainstream? Continuità e attualità di un movimento che sta per compiere mezzo secolo di vita

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1 - Avanguardia? Alcune considerazioni.

Alcune delle esperienze e personalità jazzistiche emerse nell'ultimo decennio confermano la continuità, vitalità ed attualità di un movimento, quello del free jazz, nato quasi mezzo secolo fa. Tanto è passato: l'arco evolutivo del free copre circa la metà dell'intera storia del jazz! Sembra pertanto quanto mai opportuno riprendere il discorso sul free di ieri e di oggi, cercando di rintracciarne i fondamentali elementi costitutivi.

Comunemente si riconosce nel free jazz degli anni Sessanta l'ultima avanguardia del jazz. Ma in che misura esso si è qualificato come tale? O meglio, quali caratteri dell'avanguardia possedeva e quali no? Quello di avanguardia è un concetto, tipico del Novecento, su cui è facile equivocare, soprattutto se si tende a generalizzare, senza tener presente le peculiarità storiche ed espressive delle singole discipline artistiche. È quindi con molte precauzioni che possiamo applicare questa connotazione all'ambito del jazz.

Generalmente si intendono d'avanguardia quei movimenti, esperienze o personaggi che si ritengono alternativi e più avanzati rispetto alle convenzioni estetiche dominanti. Sull'Enciclopedia della Musica Garzanti (ristampa del 1998) alla voce "avanguardia" si legge fra l'altro: «L'uso di tale nozione... presuppone l'applicazione all'arte dell'idea di progresso ereditata dallo storicismo romantico e, insieme, il convincimento che il rinnovamento artistico non coincida con il momento sociale della diffusione, bensì con quello individuale della creazione, con un significativo spostamento dell'accento dalla ricezione all'ideazione, che nelle forme più radicali porta a considerare la "popolarità" come sintomo di debolezza estetica».

A conferma si potrebbe portare l'esempio di Franco Donatoni, che ammetteva, come unico possibile, il rapporto - disciplinare, di ricerca intima e rigorosa - fra il compositore e il materiale sonoro. Non lo preoccupava minimamente la destinazione dell'opera a un pubblico, tanto che in un'intervista concessami nel 1971 giunse a dire con grande cinismo: "Certo del pubblico ne ho bisogno, altrimenti l'acustica della sala sarebbe cattiva".

Per altri versi si può essere solo parzialmente d'accordo con la sottolineatura, nella citazione sopra riportata, dell'aspetto della ricerca individuale rispetto a quello della finalizzazione pubblica dell'operazione artistica. Nel Novecento infatti si sono affermati anche diversi movimenti d'avanguardia - e fra questi il free jazz, sia afroamericano che europeo - che, pur nel rifiuto di una finalizzazione commerciale dell'opera d'arte, sono stati caratterizzati da un'organizzazione collettiva, addirittura cooperativa, degli aderenti, da un preciso coinvolgimento, a volte quasi "un'aggressione", del fruitore e da un esplicito impegno socio-politico. Nel conflittuale rapporto fra arte e società, l'artista creativo intende svolgere anche una funzione critica nei confronti delle esigenze indotte dal mercato e dei comportamenti, individuali e collettivi, massificati. I destinatari del messaggio artistico vengono di conseguenza sottoposti ad un'azione "terapeutica", ad una sorta di vaccinazione.

L'implicazione della sfera del sociale fu uno dei presupposti dell'apparizione del free, musica che non poteva prescindere dal proprio pubblico (che si differenziava dal pubblico del jazz ufficiale dell'epoca), o meglio da un'identità con un preciso contesto socio- politico. La forte apertura teorica e pratica del free, come sappiamo, si è concretizzata in diverse direzioni: nell'esasperazione delle possibilità tecnico-espressive, nella riappropriazione di culture lontane (europee, africane, orientali), nella manifestazione di profonde motivazioni mistiche o politiche, nella messa in discussione dei mezzi di produzione, distribuzione e comunicazione.

Per tutte queste tematiche il free è stato indubbiamente un movimento d'avanguardia, come precedentemente lo erano state solo le innovazioni del periodo del bop e del cool. È altrettanto vero che esso può essere considerato l'ultima esperienza avanguardistica in seno al jazz. Per le loro caratteristiche infatti non si sono qualificate come tali, o per lo meno non in egual misura, tutte le correnti venute successivamente: la fusion, il free-funk, il neo hard bop, il recente etno jazz... perfino l'improvvisazione radicale, che pure dal free deriva.

A livello tecnico-sensoriale l'avanguardia tende a proporre un rinnovato vocabolario di immagini (visive, sonore, verbali...), un nuovo codice comunicativo rispetto agli stilemi già riconosciuti. D'altra parte l'appartenenza all'avanguardia è un riconoscimento che viene innanzi tutto dall'interno: sono cioè gli stessi artisti, a volte supportati da critici militanti, che si autoproclamano esponenti di un inedito movimento. Con il proprio atteggiamento dirompente essi definiscono i contorni di una nuova tendenza, evidenziando il distacco da una situazione preesistente e ormai comunemente accettata.

Soprattutto nell'ambito delle arti visive si è verificata questa esigenza di superamento del già noto, questo avvicendamento continuo fra approcci estetici contrapposti (i poli dell'aperto e del chiuso, del caldo e del freddo, come sono stati definiti). Negli anni Sessanta l'iconografia della Pop Art si è contrapposta alla vitale gestualità dell'Informale e dell'Action Painting; i rigorosi procedimenti dell'Arte concettuale hanno contraddetto la Pop; a cominciare dalla fine degli anni Settanta, il ritorno alla pittura "grassa" e neo- espressionista ha sostituito il Concettuale; infine ormai da una decina d'anni impera ovunque una sorta di neo-Concettuale onirico e ludico.

Probabilmente nella narrativa, nella poesia, nel teatro e nella musica colta i passaggi sono più lenti e sfumati. È indubbio invece che l'atteggiamento di contrapposizione e superamento stilistico è quasi del tutto estraneo al jazz, anche nei momenti di più aperta sperimentazione (il bop, il free). Pertanto, se tale caratteristica è da annoverare fra gli attributi indispensabili dell'avanguardia, allora il free jazz non è da considerare tale. Nel jazz infatti prevale decisamente un concetto di continuità, di evoluzione. Basta rileggere le interviste degli anni Sessanta e Settanta ai protagonisti della sperimentazione più estrema, per scorgere sempre da parte loro un grande rispetto per la propria storia musicale, di aderenza totale alle motivazioni sociali e alle modalità espressive che l'hanno determinata: essi non rinnegano mai i maestri del passato, non rimuovono le proprie radici, auspicando anzi di essere riconosciuti come eredi e continuatori della tradizione.

A tale proposito, altrettanto rivelatrici sono state le dichiarazioni di alcuni esponenti del free storico nel corso di interviste da me raccolte negli ultimi anni. Per quanto riguarda le loro esperienze giovanili, Dewey Redman e Dave Burrell hanno riconosciuto con grande sincerità e senso di autocritica che certe forzature espressive, certi risultati erano frutto di tentativi se non proprio di "errori". Solo molto lentamente, tramite l'insegnamento di colleghi più anziani e di scuole diverse, hanno recuperato la tradizione del jazz, hanno prestato più attenzione alla forma, cercando di impossessarsi di una tecnica "corretta" e di un equilibrio "classico". Un graduale processo quindi di approfondimento e di riappropriazione di principi e di stilemi del passato, che da parte loro non erano mai stati consapevolmente confutati e rifiutati.

Il movimento del free comunque ha subìto una lenta e continua evoluzione, che non si è ancora esaurita. A cominciare dalla fine degli anni Cinquanta ad oggi, al suo interno possiamo distinguere varie generazioni di musicisti, vari passaggi: i maestri degli anni Sessanta, la scuola di Chicago, con la sua consapevole rivisitazione della storia, il collaterale panorama europeo, frastagliato e originalissimo, l'apparizione di nuovi protagonisti dalla fine degli anni Settanta (Threadgill, Berne, Murray...), fino alla recente, fiera rinascita di una componente neroamericana. È proprio su quest'ultimo fenomeno, su questa prorompente, ineludibile tendenza dell'attualità che vale la pena di soffermarsi.

Si potrebbe eccepire, a tale proposito e per inciso, che la storia dell'arte la fanno i singoli artisti, con i loro individuali mondi poetici ed espressivi, e che il volerli irreggimentare in tendenze e correnti è solo una riduttiva esigenza della critica. Eppure la speculazione critica deve assolvere ad una sua funzione: è indispensabile, oltre che legittimo, tentare continue sintesi, collegare cioè la storia individuale a quella generale, ricondurre l'opera dei singoli artisti all'interno di comportamenti e di esigenze diffuse, cercando di individuare ciò che accomuna le varie esperienze, anziché privilegiare l'analisi dettagliata delle peculiarità che le distinguono.

2 - Il free oggi

Non si può fare a meno di notare, dunque, come nell'ultimo decennio sia emerso in tutta la sua consistenza il lavoro caparbio, consapevole e rigoroso, che una schiera di musicisti oggi cinquantenni andava svolgendo da decenni: William Parker, David S. Ware, Hamid Drake... Il riconoscimento a livello internazionale di questi protagonisti è accompagnato dal consolidamento di nomi già noti, come Berne, Murray o alcuni esponenti dell'M-Base, e dall'apparizione di un'agguerrita compagine di trenta-quarantenni (di quale colore o provenienza non importa), che non nascondono la propria consapevole derivazione dal free storico. A tale proposito, il contraltista Rob Brown, pilastro fra l'altro della front line del quartetto/quintetto di William Parker, mi ha rivelato in una recente intervista: "Quando nel 1981-'82 frequentavo il Berklee College Of Music a Boston, mentre la maggior parte dei miei coetanei guardava a Michael Brecker e David Sanborn, io ero interessato alla musica di Dolphy, Ayler, Braxton, Ornette e Roscoe... ed anche Jimmy Lyons".

Inoltre non è certo privo di significato il fatto che proprio in questi ultimi anni si sia verificato l'insperato recupero di anziani, a volte "anomali", esponenti del free storico. Dopo una vita da emarginato, il sassofonista e pianista Charles Gayle ha ottenuto un certo, sia pur debole, riconoscimento in patria e in Europa (già nel 1987 Bill Dixon me ne parlò come di un grande misconosciuto, prima che Nicola Tessitore lo presentasse per la prima volta in Italia, al festival di Verona del 1992). Inaspettato e gradito è stato, dopo trentacinque anni di silenzio, il ritorno sulle scene di Henry Grimes. Fra l'altro Margaret Davis, che ha svolto un ruolo sostanziale nel dare nuove motivazioni al contrabbassista, sostiene di sapere in quale ospizio pubblico di New York si trova il mitico Giuseppi Logan, anche se dispera che le sue condizioni di salute gli potranno permettere di tornare a suonare.

La dovuta riscoperta e rivalutazione, quasi scontata dopo l'offuscamento subìto per lo più nel corso degli anni Ottanta, ha toccato jazzmen del valore di Roswell Rudd, Archie Shepp, Barre Phillips, Barry Altschul, Sam Rivers, Leo Smith, Anthony Braxton e Dewey Redman (negli ultimi anni di vita). Anche personaggi come Dave Burrell, Milford Graves, Sonny Simmons ed altri sembrano godere oggi di una rinnovata visibilità, quanto meno nei circuiti più attenti.

Di questa rinascita dell'estetica neroamericana, William Parker, dopo un trentennio di indefessa attività artistica e organizzativa, può essere considerato il vero portabandiera. Un'estetica caratterizzata dalla particolare densità e fusione dei collettivi, da un sound strumentale poderoso, stentoreo e declamatorio, da semplici strutture compositive, ricche di riff, capaci di innescare una libera, palpitante improvvisazione, che si protrae come un rituale dagli evidenti contenuti tribali e mistici. In tutto questo non è possibile non riconoscere una precisa, coerente continuità con il free storico degli anni Sessanta, rispetto al quale gli odierni jazzisti neri di New York sembrano vantare un orgoglioso senso di appartenenza culturale, un inscindibile legame, sia di esperienze di vita che filosofico, oltre che di carattere stilistico-espressivo.

È possibile individuare differenze e analogie nel lavoro degli esponenti del free odierno? Quali le derivazioni specifiche, le filiazioni dai maestri del passato? Una risposta esauriente comporterebbe approfondite analisi comparative sulle biografie e sulle produzioni artistiche dei singoli musicisti, ma è possibile fare una constatazione di carattere generale: le varie esperienze non si elidono, ma si intrecciano, si stratificano. Da un lato, nella musica degli improvvisatori di oggi trapela l'influenza dei maestri riconosciuti degli anni Sessanta e Settanta, senza escludere esperienze "minori" che si ritenevano dimenticate: per esempio le eccentriche accensioni un po' naif di Sonny Sharrock o il sofisticato intellettualismo del New York Art Quartet, del primissimo Archie Shepp o di Bill Dixon. Dall'altro, negli esponenti più giovani emergono anche, e in modo evidente, gli insegnamenti dei colleghi della generazione appena precedente, di pochi anni più anziani: Steve Coleman, Tim Berne, Don Byron...

Sembra altrettanto indubbio che al progredire della musica afroamericana, al suo stato di salute, abbiano contribuito in modo fondamentale gli innesti provenienti dall'esperienza dei creativi europei: le innovazioni da loro introdotte, a cominciare dalla metà degli anni Sessanta, riverberano da parecchi lustri nelle proposte degli improvvisatori americani. In quale misura, in quali casi, con che esiti potrebbe scoprirlo solo un'indagine dettagliata, che esula dagli intenti della presente trattazione.

A ben vedere, fino alla fine degli anni Novanta alle recenti espressioni del free non avevamo tributato la giusta attenzione. Per quale motivo? Probabilmente perché eravamo attratti dalla creatività indubbiamente autentica di esperienze di segno diverso: le ricerche di Zorn o Frisell, le diafane tessiture timbriche dell'improvvisazione radicale, le accattivanti cadenze melodico-ritmiche del neo-klezmer, del folklore immaginario e più in generale del predominante etno-jazz. Contemporaneamente si era verificato il ritorno all'ordine perseguito da Winton Marsalis e compagni, il dilagare di un diffuso e aggiornato mainstream. In altre parole, pur non avendo il free mai interrotto il suo cammino, negli anni Ottanta e Novanta altre correnti dominanti ne avevano offuscato la presenza e il messaggio. Oggi il ridimensionamento di quelle proposte riconducibili ad una ricerca estetica prevalentemente bianca, sia americana che europea, e soprattutto la maturità raggiunta dagli attuali esponenti neroamericani ci rendono maggiormente visibile e apprezzabile il lavoro di questi ultimi.

3 - Avanguardia, revival o mainsteam?

Ora, le attuali esperienze del free possono costituire una nuova avanguardia? Si può rispondere molto sbrigativamente in modo del tutto negativo: se quello delle origini aveva solo parzialmente i caratteri dell'avanguardia, tanto meno li può possedere il free di oggi, che semmai, come vedremo, sembra avvicinarsi a certi canoni del classicismo. D'altra parte, anche negli altri ambiti artistici è ben difficile assistere a manifestazioni dichiaratamente d'avanguardia, per il semplice fatto che da quasi trent'anni il trionfo internazionale del pensiero postmoderno ha scoraggiato qualsiasi intenzione rivoluzionaria a favore di una rivisitazione, sempre più disinibita, combinatoria e trasversale, dello sterminato patrimonio depositato nel contenitore della storia.

Ci si potrebbe domandare allora se la riaffermazione del free possa essere considerata un fenomeno di revival, come a suo tempo lo fu quello a carico del jazz di New Orleans. Anche a tale riguardo la risposta sembra non poter essere affermativa. Nei confronti del free storico infatti non abbiamo assistito a un forzato distacco, alla necessaria decantazione, ma piuttosto a una continuità evolutiva senza interruzioni. Il New Orleans Revival, al contrario, iniziato alla fine degli anni Trenta, si prefiggeva di recuperare e riproporre fedelmente le coordinate stilistiche di una forma musicale circoscritta nel tempo e nello spazio. Gli anni intercorsi fra il New Orleans classico e il suo revival furono relativamente pochi, ma fra i due periodi intervenne una frattura abbastanza netta, una sorta di rimozione della spontaneità delle origini, dovuta alla pomposa elaborazione orchestrale dello Swing e al suo successo internazionale.

Una peculiarità che differenzia il free degli ultimi quindici anni da quello del passato è quella di affrontare nuove versioni di capolavori storici della medesima corrente: la rivisitazione di un caposaldo anomalo dell'improvvisazione come Ascension da parte del Rova Saxophone Quartet allargato; la serie dei Free Jazz Classics reinterpretati da Ken Vandermark; la perpetuazione del corpus compositivo di Julius Hemphill ad opera di Marty Ehrlich, alla testa del sestetto di ance intitolato al maestro scomparso; i numerosi recuperi di brani di Ornette Coleman e, più recentemente, di Roland Kirk, Don Cherry, Albert Ayler, Roscoe Mitchell, Sun Ra... Questo atteggiamento è un'ulteriore dimostrazione della consapevolezza storica degli improvvisatori di oggi, dell'esigenza di preservare la storia più o meno recente, costituendone un ideale songbook. In tutte le epoche e in tutti i linguaggi, non è forse una delle più basilari prerogative del classicismo quella di ispirarsi ad un periodo precedente considerato degno di essere preso come modello, individuando un campionario di capisaldi artistici in cui idealmente riconoscersi?

La dimensione classica dell'attuale free si rivela anche, e soprattutto, nel consolidamento e nella condivisione di determinate caratteristiche espressive: le sottili dinamiche dell'interplay si reggono su persistenze, costanti, equilibri messi a punto in decenni di sperimentazione, su regole magari non scritte ma rigorose, su intenzioni e intuizioni che si innescano secondo meccanismi automatici ed empatici. L'estensione della tecnica strumentale ha comportato un'esasperazione timbrica e deformazioni sonore che costituiscono un vocabolario espressivo ormai codificato, un patrimonio comune, dai più accettato e utilizzato. Ci troviamo cioè di fronte ad un arricchimento delle possibilità espressive che il free jazz ha introdotto a beneficio di tutte le musiche (si pensi per esempio alla densità sonora e alla dose di improvvisazione presenti nell'esecuzione di certe composizioni di Heiner Goebbels).

Il free dunque non come espressione di una rivolta dirompente e trasgressiva (una rivolta perenne sarebbe per altro inimmaginabile, una contraddizione in termini), ma come linguaggio entrato da molti anni nella sua maturità, con precise peculiarità armoniche, melodiche e soprattutto dinamiche e timbriche. Oggi più di ieri in questo linguaggio siamo in grado di riconoscere la complessità dell'elaborazione, il senso della proporzione costruttiva, l'armonica consequenzialità della narrazione musicale, ed inoltre la tendenza all'oggettività, alla nobiltà dei contenuti, pefino alla funzione didascalica. Il free, con la sua consapevolezza dei precedenti storici, assume così un carattere fortemente normativo; non persegue solo un proprio equilibrio formale, ma veicola anche argomenti etici, spirituali e politici degni di essere ribaditi. Tutte queste non sono forse caratteristiche tipiche del classicismo? Il concetto di classicismo non include necessariamente sterile imitazione di canoni formali, pacatezza di toni ed eleganza apollinea, come per altro non esclude la partecipazione emotiva ed una pronuncia corposa e ruvida.

Se è vero che la continuità e l'attualità del free sono caratterizzate dagli aspetti precedentemente evidenziati, non potremmo forse affermare che da anni assistiamo ad un solido mainstream del free, il quale si affianca al riconosciuto mainstream di derivazione bop ed hard bop? Anche se, da un punto di vista puramente cronologico, la matrice bop risale a una quindicina d'anni prima rispetto al free, sarebbe azzardato sostenere che i processi evolutivi sono stati analoghi e paralleli? Due grandi fiumi, alimentati da molti affluenti e che, tramite canali adduttori, mescolano le proprie acque per irrigare un vasto territorio.

N.B.: il testo di questo articolo costituisce la versione riveduta e notevolmente ampliata dell'articolo apparso sul mensile "Musica Jazz" nell'aprile 2006. Per la sua impostazione e le sue conclusioni, esso ha suscitato un dibattito sulle pagine della rivista, sollecitando i successivi interventi di Claudio Sessa e Filippo Bianchi.

[per leggere un punto di vista alternativo sull'inquadramento storico del free clicca qui]

Foto di Claudio Casanova [tranne la prima]


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