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Il 42° Barcelona Jazz Festival

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Il "Barcelona International Jazz Festival" è uno dei più longevi e prestigiosi festival europei. Iniziò nel 1966 presentando, tra gli altri, i quartetti di Dave Brubeck e di Stan Getz, il trio di Tete Montoliu e il quintetto di Roach con Rollins. Da allora ha continuato sullo stesso standard di qualità incrementando sempre più l'offerta.

Da molti anni è organizzato dall'associazione The Project di Tito Ramoneda (direzione artistica di Joan Cararach), è sponsorizzato dalla birra catalana Voll-Damm e sembra non conoscere crisi, con un cartellone che non ha bisogno di inserire star del pop. Anche l'ultima edizione era allettante: grandi nomi ospitati in teatri splendidi (come lo storico Palau de la Musica Catalana) e varie attività collaterali in una cornice urbana strepitosa.

Il 3 ottobre il Tinissima Quartet di Bearzatti ha aperto una rassegna che è andata avanti fino ai primi di dicembre. Non ci è stato ovviamente possibile seguire tutto (hanno suonato tra gli altri Sonny Rollins, Chick Corea, Peter Brötzmann col Chicago Tentet, Kenny Garrett, Gonzalo Rubalcaba, Kurt Rosenwinkel, Louis Sclavis, Omar Sosa) e questo resoconto si concentra sul periodo dal 16 al 20 novembre con i concerti di Charles Lloyd, Chucho Valdés, Afrocubism, Richard Galliano, Perico Sambeat e JD Allen.

I concerti

Quando il 16 novembre è entrato in scena Charles Lloyd all'Auditori, il suo portamento è apparso un po' affaticato ma le prime note del tenore mostravano lo stile magistralmente intatto, con un sound sempre intenso e avvincente. Lo accompagnavano Jason Moran al pianoforte, Reuben Rogers al contrabbasso ed Eric Harland alla batteria, ovvero i partner del suo stabile organico che ha inciso anche il recente Mirror per l'Ecm. Il repertorio era costituito da vari brani del disco, tra cui le note ballad "I Fall in Love Too Easily" e "Monk's Mood," in cui Lloyd ha infuso tutto il lirismo di cui è capace.

Il sassofonista ha lasciato ampio spazio ai solisti, in particolare a Moran, riservando per sé l'esposizione dei temi ed i primi interventi in solo: il risultato è stato quello di una musica di piena classicità, radicata negli anni settanta, iterativa, danzante e in magistrale equilibrio tra struggenti melodie folk e momenti di tensione quasi free.

Il giorno successivo era di scena Chucho Valdés con il suo nuovo gruppo Afro-Cuban Messengers rappresentato dal recente Chucho's Steps. Chucho è un mito dell'afro-cuban jazz ed anche stavolta ha fatto centro con un progetto ritmicamente sofisticato, ricco di variazioni metriche e intriso nelle radici che ancora prosperano a Cuba. I componenti del suo gruppo sono tutti di prim'ordine ma la palma spetta al tumbador Yaroldy Abreu Robles, vero erede di Chano Pozo, Tata Güines e José Luis Quintana.

Con Chucho dal 2001, Abreu Robles è il miglior percussionista della sua generazione ed ha evidenziato tutta la sua fantasia nei mix ritmici batun batà. Nel concerto abbiamo ascoltato un trascinante omaggio a Joe Zawinul ("Zawinul's Mambo") ma anche momenti radicati nelle tradizioni dell'isola caraibica, di chiara derivazione africana. Altri momenti di grande presa sul pubblico (che ha esaurito il magico spazio del Palau della Musica) sono stati "Begin to Be Good" dai classici caratteri latin-jazz e la bella esposizione di Reinaldo Melián Álvarez alla tromba ed ancora il variopinto "Chucho's Steps" col sassofonista Carlos Manuel Hernàndez ed Abreu Robles in bell'evidenza.

Chucho Valdés è un maestro nel sostenere e guidare il gruppo senza imporre la propria presenza: solo nella parte finale della serata ha gratificato il pubblico con un lungo intervento solistico.

Ancora le connotazioni cubane - relazionate con elementi africani - hanno attratto il 18 novembre un vasto pubblico all'Auditori. Era di scena l'ensemble Afrocubism guidato dal chitarrista Eliades Ochoa, dal virtuoso di kora Toumani Diabatè e da Bassekou Kouyate allo n'goni, in una delle sue tappe europee. Ochoa è stato uno dei più giovani membri del Buena Vista Social Club ed i due africani sono maestri riconosciuti nei loro ambiti. La dimensione spettacolare ha prevalso troppo, a scapito della fusione tra i rispettivi linguaggi etnici. Ma forse il progetto va accettato così com'è nella sua facile dimensione popolare, caratterizzata da calde melodie, virtuosistici assoli, coinvolgenti iterazioni ritmiche, colori caldi ed esuberanti: il pubblico ha raccolto con entusiasmo il messaggio mettendosi a ballare in un crescendo di eccitazione.

Ben più intenso il concerto di Richard Galliano del giorno seguente al Palau della Musica: ha dimostrato come si possa fare della musica d'altissima qualità coinvolgendo un vasto pubblico. Le connotazioni così specifiche della fisarmonica l'hanno lasciata per lungo tempo ai margini del jazz ma Galliano sa conservare l'identità popolare dello strumento pur usando un idioma sofisticato: non è l'unico a farlo ma è certo tra i più appassionanti.

Accompagnato da un quintetto d'archi, il fisarmonicista ha presentato nei primi trenta minuti alcuni temi di Bach, dal suo ultimo progetto. Ogni composizione è stata tradotta sullo strumento in modo rigoroso, nel pieno rispetto delle partiture, ma l'emotività della sua arte è esplosa solo col repertorio di Piazzolla, che Galliano conserva nella mente e nel cuore.

Ne è risultata una musica di struggente bellezza e raro equilibrio tra scrittura e improvvisazione in un'empatica relazione col gruppo di musicisti classici. Tra questi va evidenziato il primo violino, Sébastien Surel.

L'ultima serata di cui parliamo è quella ospitata al club Luz de Gas, con il duo piano/sax soprano di Joan Diaz e Períco Sambeat più il trio di JD Allen.

Diaz ha introdotto il set in piano solo presentando la sua bella composizione "Suite from St. Petersburg to Moscow" (dal nuovo disco Benestar Peaceful) dai tratti romantici e dalla connotazioni evansiane. Poco noto fuori della penisola iberica, è un pianista e compositore ricercato, che va conosciuto. Nel duo con Períco Sambeat, che è un protagonista del jazz in Spagna, qualcosa non ha funzionato: il duo è risultato poco significativo per le dinamiche eccessivamente piatte e uniformi ma ci ha pensato il sassofonista J.D. Allen a cambiare radicalmente il clima della serata con un set infuocato, aggiornando lo spirito di Coltrane e Sanders. La coesione col bassista Gregg August e il batterista Rudy Royston è intensa e ne risulta una musica avvincente soprattutto per il drumming interattivo e poliritmico di quest'ultimo, fonte inesauribile di concitate frammentazioni ritmiche. Molti brani erano tratti dall'ultimo album della formazione Shine!

Le conferenze e gli eventi collaterali

Non meno interessanti dei concerti sono stati gli incontri pomeridiani in vari spazi cittadini, primo tra tutti il Monvínic, straordinario tempio enologico dove la qualità del vino s'è coniugata con l'analisi musicologica ed i ricordi personali di grandi protagonisti.

Tra gli altri molto interessante e appassionato l'intervento di Larry Blumenfeld sulla Cultura del Jazz a New Orleans dopo l'uragano Katrina. L'incontro più coinvolgente tuttavia è stato quello con Bruce Lundvall, leggendario producer, già presidente dell'Elektra, della Blue Note e per due decenni dirigente della Columbia.

Intervistato da Joan Anton Cararach, Lundvall ha intinto la penna nei ricordi commentando alcuni brani significativi per la sua carriera. Ha ricordato quando - ad appena 15 anni - vide Charlie Parker e Bud Powell in concerto. Ed ancora i suoi rapporti con Miles Davis, Herbie Hancock, Dexter Gordon e quando scoprì e mise sotto contratto Norah Jones (che ha venduto da sola più dischi di tutti i Blue Note nell'intera storia dell'etichetta). Ma non c'è stata solo nostalgia. Con uno sguardo all'attualità, Lundvall ha indicato in Ambrose Akinmusire il talento più originale del presente.

Tra le molte altre iniziative del festival, ricordiamo il blindfold/winefold test del critico di Down Beat, Dan Ouellette con Chucho Valdés e la bella mostra di fotografie "Jam Session".

Foto di Ricard Cugat (la prima), Marc Romaguera (l'ultima) e Lorenzo di Nozzi (tutte le altre).


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