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Guido Harari, dietro al mirino come un jazzista

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"Potresti dire che sono un fotografo jazz, alla faccia di chi mi definisce da sempre un fotografo rock!." Guido Harari scherza volentieri sulla sua nomea di "fotografo musicale," autore di alcuni degli scatti entrati nell'immaginario collettivo e che ritraggono artisti come David Bowie, Tom Waits, Lou Reed, Patti Smith, Leonard Cohen, Fabrizio De André (alcuni dei suoi ritratti più celebrati sono riprodotti nella galleria abbinata a questa intervista: Guido Harari: A Primer, ma la lista è praticamente infinita).

Scherza, ma solo fino a un certo punto. Perché oltre a essersi cimentato in realtà anche con celebrità lontane dal mondo della musica, nella lunga intervista che ha concesso a All About Jazz Italia, Harari ci ha raccontato di quanto l'arte di saper improvvisare durante una sessione fotografica, proprio come nel jazz, sia parte integrante del suo processo creativo.

Harari da qualche tempo è anche editore, grazie al progetto Wall of Sound, la sua galleria-casa editrice che il 1° novembre pubblicherà il volume "Art Kane. Harlem 1958." Un libro prezioso, pubblicato in occasione del sessantesimo anniversario del leggendario scatto A Great Day in Harlem, la foto realizzata da Art Kane che ritrae 57 leggende del jazz raccolte davanti a un palazzo di Harlem, la mattina del 12 agosto 1958: una delle immagini della cultura popolare più imitate e citate. Un volume che racconta quella giornata straordinaria, presentando finalmente e per la prima volta ogni singolo fotogramma scattato da Kane, e molto altro ancora. E proprio da qui è iniziata la nostra chiacchierata...

All About Jazz: L'idea di dedicare un volume alla famosa foto di Harlem 1958 come è nata, e come si inserisce nel percorso editoriale che da qualche tempo stai seguendo con la tua galleria Wall of Sound?

Guido Harari: Art Kane è stato uno dei miei maestri quando ho cominciato il mio percorso di fotografo. "Harlem 1958" è l'ultimo capitolo di una storia iniziata più di dieci anni fa, quando contattai la famiglia di Kane, chiedendo conto del perché mancasse una seria monografia dedicata al suo lavoro. Kane era scomparso nel 1995. Quando poi, sei anni fa, ho aperto la mia galleria ad Alba, col preciso intento di divulgare non solo le mie fotografie ma anche quelle di autori italiani e internazionali, ho subito pensato di organizzare una mostra su Kane, ma il figlio Jonathan mi confessò che la quasi totalità dell'archivio non era ancora stato digitalizzato. Poiché Wall Of Sound era già attrezzata per realizzare scansioni professionali e stampe fine art, gli proposi di restaurare, qui ad Alba, le fotografie che avrei selezionato per la mostra. Così, nel 2012, inaugurammo "Art Kane. Visionary," una retrospettiva che comprendeva non solo i ritratti "musicali" di Kane, ma anche le sue celebri e innovative immagini di moda, pubblicità, e ricerca.

Nel 2015 poi curai, insieme a Jonathan e alla moglie Holly Anderson, una ben più ampia mostra per la Galleria Civica di Modena, che includeva anche fotografie mai esposte prima. È questo il filo rosso che porta all'idea di produrre un libro che, nel sessantesimo anniversario della storica foto ormai nota come "Great Day in Harlem," apparsa nel gennaio 1959 nella rivista "Esquire," proponga per la prima volta tutti i fotogrammi di quello straordinario servizio. Quella foto è diventata una vera e propria icona della storia del jazz e della fotografia. Abbiamo scelto di proporre i fotogrammi del servizio quasi si trattasse dei frame di un film, restituendo l'idea della dinamica con cui si è svolta la sessione fotografica.

Su quel numero di "Esquire" furono pubblicati anche alcuni ritratti realizzati da Kane a Lester Young, Louis Armstrong, Duke Ellington, musicisti che non erano presenti nella foto di gruppo a Harlem. Nel libro saranno presenti anche quei ritratti, insieme a una foto della tomba di Charlie Parker, che era scomparso nel 1955. Abbiamo aggiunto al volume anche altre foto realizzate da Kane a Harlem con musicisti e cantanti di gospel, e sul set del film "Pete Kelly's Blues." In chiusura abbiamo inserito anche una serie di ritratti di Aretha Franklin. Insomma, tutto quello che Art Kane ha realizzato nell'ambito jazz è racchiuso in questo libro, che si chiude con un omaggio fotografico che il figlio di Kane, Jonathan, ha realizzato nel Queens di recente, una sorta di statement sulla multiculturalità come elemento imprescindibile del nostro futuro. Esattamente con lo stesso spirito di "Great Day in Harlem," .

AAJ: A proposito di jazz e fotografia: sei un ammiratore di Giuseppe Pino. Della sua fotografia cosa ami di più?

GH: Giuseppe Pino ha iniziato a fotografare prima di me, a metà degli anni Sessanta. Si è poi spostato in America, ed è stato per diversi anni il fotografo del festival jazz di Montreux. Ha documentato almeno tre decenni di jazz (e non solo) in maniera quasi enciclopedica. Pino non è semplicemente un fotografo, ma un creatore di "immagini," dotato di un gusto grafico unico, per me pari solo a quello di Arnold Newman. Ricordo molte sue copertine assolutamente originali, in particolare alcune di Miles Davis. Nelle immagini di Pino ci sono cultura, stile, gusto grafico, e una immensa passione per i soggetti delle sue foto.

AAJ: Nella tua mostra organizzata di recente alla Galleria Nazionale di Perugia erano presenti molti volti del jazz. Parlaci di questi incontri. Per esempio quello con Garbarek...

GH: Incontrai Jan Garbarek per la prima volta a Milano, in uno studio fotografico. Mi sembrò una persona molto tranquilla, posata e cordiale. Nordico, ma a suo modo solare: il ritratto della sua musica. Cercavo qualcosa che desse un tocco di ambiente alle mie fotografie e mi inventai degli schizzi di pioggia su un vetro, e Garbarek in posa contemplativa, col suo sax, dietro al vetro. La cosa lo divertì molto. Di lui ho apprezzato certe collaborazioni, come quelle storiche con Keith Jarrett e con l'Hilliard Ensemble.

AAJ: E poi John Cage...

GH: John Cage lo incontrai nel 1978, conoscendo poco la sua musica, e un po' meglio i suoi libri. La foto in mostra a Perugia—un suo ritratto con, alle sue spalle, la significativa scritta "W il silenzio"—venne scattata a Bologna. Quella scritta la trovammo davvero per caso su di un muro, mentre giravamo per le vie del centro della città. La cosa lo divertì parecchio. Cage si trovava lì per partecipare a un evento organizzato dalla Cramps Records: un "treno sonorizzato" che doveva percorrere la tratta Bologna—Porretta, andata e ritorno, mentre, nei vagoni, si tenevano concerti, improvvisazioni di ogni tipo, performance, dibattiti. Cage sembrava un bambino che si godeva la festa. Era molto naïf nel relazionarsi agli altri. Indossava questa giacca blu, che diceva essergli stata regalata da un netturbino francese! Ricordo che mentre giravamo per la città, a un tratto si sdraiò in mezzo alla strada, chiedendomi che si vedessero bene nella foto i mozziconi di sigaretta per terra! Tutti lo trattavano come un guru, e molti chiedevano un po' del suo tempo per trovare risposte spesso impossibili. Dormiva non più di tre ore a notte, durante le quali soprattutto meditava.

AAJ: E poi c'è Zappa, uno dei tuoi artisti prediletti.

GH: Sì, Frank Zappa l'ho amato tantissimo. Iconoclasta com'era nella musica così come nel suo rapporto col prossimo, soprattutto con i giornalisti, era profondamente attratto da musiche diverse e lontane—dal rock'n'roll al doo-wop, al R&B e alla contemporanea, che combinava in maniera geniale. L'avevo incontrato nel 1973, agli inizi del mio percorso, quando mi era impensabile gestire il rapporto con un artista della sua levatura. Nella mostra di Perugia però era esposto anche un ritratto che io gli feci, ormai diventato professionista, nel 1982. È una foto realizzata per la copertina di "Uomo Vogue." I redattori dell'epoca erano pazzi di rock, e poter mettere Zappa sulla copertina di una rivista patinata come quella era un sogno da veri anarchici. Arrivato a Los Angeles, contattai Zappa proponendogli di ritrarlo vestito di scuro, da vero compositore serio quale si considerava, e non da semplice rockstar. Nel suo studio di registrazione aveva pile e pile di partiture per orchestra, partiture che nessuna orchestra aveva ancora mai eseguito. Tale era la sua frustrazione che accolse con divertimento la mia idea. In fondo, nessuno lo aveva ancora fotografato così. Passai tre giorni nella sua casa di Laurel Canyon, prima per realizzare una lunga intervista, e poi per fotografarlo. In una fotografia lo puoi vedere imbracciare una delle Stratocaster incendiate in concerto da Hendrix. Nel tempo trascorso insieme, riuscii a vedere una parte del suo sterminato archivio, che comprendeva anche migliaia di dischi già stampati e pronti per la distribuzione.

AAJ: Si vedono anche i volti di Shorter ed Hancock...

GH: Fotografai Wayne Shorter e Herbie Hancock durante uno dei tour che fecero insieme. Fin dai primi anni Settanta ho amato alla follia i Weather Report. Durante il tour di Black Market, scattai un ritratto molto particolare a Shorter insieme a Joe Zawinul. Anni dopo ebbi il piacere di scoprire che quella immagine era la loro foto preferita fra quelle che li ritraevano insieme. Dunque avvicinai nuovamente Shorter, per fotografarlo stavolta insieme a Hancock, un altro "davisiano" doc. L'intento era quello di comunicare quel sentimento di fratellanza che lega molti musicisti di quella generazione, e soprattutto i protagonisti della rivoluzione jazz-rock di Miles Davis.

AAJ: Torniamo per un momento ad Art Kane. Ha scattato in realtà un numero limitato di foto a musicisti, ma quelle poche sono diventate molto iconiche. Oggi, complice anche l'enorme mole di immagini circolanti, è molto più difficile scattare foto di quel tipo. È il ruolo degli artisti che è mutato? È il mercato discografico e la "cultura della copertina" che sono venuti meno? Perché è così difficile oggi fare breccia?

GH: Le foto che Kane ha realizzato nel mondo del rock sono legate in particolare a un numero di "Life" intitolato "The New Rock," che aveva in copertina i Jefferson Airplane, ritratti da Kane dentro a enormi scatole di plexiglas. All'interno del giornale si vedono anche la celebre foto di The Who avvolti nella bandiera inglese, e poi Cream, Janis Joplin, The Doors e Country Joe McDonald. Negli stessi anni Kane aveva anche fotografato Bob Dylan, buttandosi poi su una strada molto ambiziosa, creando immagini molto forti per l'epoca. Ricordo una foto che illustrava la canzone di Dylan "With God on Our Side" con una sorta di Cristo sulla sedia elettrica. Le riviste illustrate degli anni Sessanta e Settanta erano il veicolo più potente di qualunque messaggio. Le lunghe interviste di Playboy, come quelle di Rolling Stone, erano imbattibili.

Erano anni in cui la fotografia non solo aveva un'importanza fondamentale, ma poteva anche disporre dei canali giusti per impattare sul grande pubblico e influenzare l'opinione pubblica. Ricordo anche le foto che Kane scattò a Venezia, realizzate con scelte ed effetti che davano l'impressione che la città sprofondasse. Dovevano sensibilizzare l'opinione pubblica su un problema di grande attualità all'epoca. Col tempo però la potenza dell'immagine fotografica si è molto ridimensionata: quel tipo di rivista è sparito, sostituito dal web e dai social network, e sono rimasti pochi grandi autori di rango. Oggi tutto si auto-elide nel continuo brulichio di immagini realizzate con smartphone, prive di senso e di contenuto. Con qualche eccezione: penso, per esempio, alla Primavera Araba che abbiamo potuto "vedere" grazie a foto scattate con i cellulari da persone comuni. Ma ha senso parlare ancora di fotografia?

AAJ: Hai vissuto sulla tua pelle la transizione dalla pellicola al digitale: oltre alle tante opportunità, nel tempo, ti sei accorto di conseguenze impreviste di quella rivoluzione epocale per la fotografia? La diffusione della fotografia alla portata di tutti ha svalutato il ruolo dei professionisti?

GH: La nuova tecnologia è davvero un upgrade della vecchia o è la creazione di gadget destinati a una marea di dilettanti che si credono professionisti? Di recente Salgado ha dichiarato che la fotografia fatta coi cellulari non è vera fotografia. Io credo che, più spesso che no, fotografare con un cellulare consenta una rapidità che preclude ogni spazio di riflessione. È tutto molto "turistico," per così dire. A me non interessa quale tecnologia una persona usa per fotografare: per me conta il contenuto. Dell'immagine fine a se stessa faccio volentieri a meno.

AAJ: Qualche tempo fa hai criticato l'appello lanciato dal management di Nick Cave (artista che pure avevi fotografato). Cave chiedeva ai fan di spedire le foto scattate ai concerti. Ci racconti perché sei voluto intervenire?

GH: Nel caso di Nick Cave & the Bad Seeds si parlava di foto scattate dal pubblico ai concerti. Cave ha ragione: da parecchio tempo le foto dei fan, che sono in pole position ai concerti, dotati di cellulare, stanno rivoluzionando il linguaggio della fotografia live. Cave è stato fra i primi ad accorgersene, e per questo sui social ha chiesto ai suoi fan di poter ricevere in alta risoluzione i loro scatti per un eventuale utilizzo. Appello nobilissimo, ma i professionisti che sono limitati a fotografare solo i primi due-tre brani dei concerti, cosa dovrebbero pensare, o fare? La richiesta di Cave, o del suo management, sapeva un po' di speculazione, e difatti, qualche giorno dopo il loro post, Cave e il suo management si sono premurati di aggiungere che ogni utilizzo professionale sarebbe stato regolarmente retribuito.

AAJ: Guardando al tuo passato, ci sono foto che oggi ritieni di aver "sbagliato"?

GH: Dovremmo capirci su cosa si intende per "sbagliato." Quando lavori su commissione per un giornale—ed è uno dei motivi per cui mi sono disamorato di quel tipo di lavoro—tu rappresenti solo "una bella apertura orizzontale, due verticali e un primo piano per la copertina": nessun art director, nessun concept, nessun budget, à la guerre comme à la guerre. È questo il miglior viatico per la creatività? Si può anche mettere in campo il mestiere, ma la cosa non fa per me perché, con queste premesse, puoi solo realizzare immagini "sbagliate." Che non rappresentano nulla del talento del fotografo né della personalità del soggetto. Preferisco scegliere i miei soggetti, innamorarmene e fotografarli senza dover rendere conto a nessuno. Ricordo il mio incontro con la poetessa Alda Merini, nella sua casa sui Navigli, a Milano. Riuscii a fotografarla grazie all'attrice Licia Maglietta, che in quel periodo portava in teatro uno spettacolo basato su testi della Merini. La foto che ancora "risuona" di più fra quelle che le ho scattato è quella che la ritrae mentre l'immagine di Alda si riflette nella grande specchiera della camera da letto, mentre parla al telefono. Sulla specchiera, segnati a rossetto, si vedono dei numeri di telefono, e intorno il caos manicomiale di una donna ferita. Nessun giornale, credo, avrebbe accettato su commissione quell'immagine. Solo una volta realizzata è stata pubblicata più volte.

AAJ: Anche quando si tratta di celebrità, tra fotografo e fotografato in genere chi è vulnerabile è il soggetto della foto. Ti è mai capitato invece di trovarti in difficoltà o in soggezione mentre scattavi?

GH: È successo, soprattutto quando si trattava di un primo incontro e non mi è riuscito di spiegare l'approccio con cui intendevo fotografare il soggetto. Con certi vip c'è stato un vero blocco: non tutti sono abituati a "lavorare" con la propria immagine, non tutti sono stilisti o rockstar. A volte non c'è neppure il tempo di spiegarsi. E poi ci vuole fortuna: lo stesso personaggio, anche solo a pochi anni di distanza tra un incontro e l'altro, può reagire allo stesso fotografo in maniera radicalmente diversa. Farsi fotografare in fin dei conti è la cosa più innaturale di questo mondo.

AAJ: Trovo molta affinità fra il jazz e la tua fotografia: la conoscenza e la preparazione teorica hanno grande importanza, ma poi quando si entra in scena è l'improvvisazione che riveste un ruolo centrale. Penso in particolare ad alcuni tuoi scatti frutto della più assoluta improvvisazione... tua quanto del soggetto: Tom Waits che gioca con un drappo facendone un mantello, o improvvisandosi (appunto) cuoco. Oppure Paolo Conte che gioca con due kazoo in volto poco prima di raggiungere il palco dal camerino. Tu cosa ne pensi?

GH: È molto vero, e penso che valga in realtà per tutte le foto che faccio. Questo "approccio jazz" l'ho abbracciato fotografando Tom Waits come pure Giovanni Agnelli o Rita Levi Montalcini. Li ho guardati tutti come fossero rockstar, proprio con la voglia di improvvisare e di lasciarmi sorprendere da quello che avremmo potuto combinare insieme. Quando devi fotografare un personaggio noto, devi sgombrare il tuo immaginario da tutto ciò che di lui o lei hai già visto. Devi trovare una tua personale chiave di lettura, ma riesci a individuarla solo quando arrivi davanti al soggetto, con la macchina fotografica in mano e il tempo che galoppa. Non ho mai amato (anche se mi divertono) quei servizi in cui uno o una stylist propone vestiti e props da appiccicare addosso al soggetto. Amo di più non programmare, o almeno solo in parte. Quindi, sì, se ti piacciono le etichette, potresti dire che sono un fotografo jazz, alla faccia di chi mi definisce da sempre un fotografo rock! (ride, ndr)

AAJ: Il tuo nome è strettamente legato a Fabrizio De André, di cui sei stato il fotografo personale: quale era il suo rapporto con la fotografia? Non facile, viene da pensare, vista la sua storica iniziale ritrosia nel salire sul palcoscenico e l'impressione di un uomo di lettere molto più che di immagine. Alcuni tuoi scatti che lo ritraggono in una intimità domestica (penso alla foto sul letto di Milano, in Sardegna all'Agnata ma anche al tour con la PFM) ricordano la naturalezza di certe immagini di Harry Benson.

GH: All'epoca del suo tour con PFM, Fabrizio mi accolse senza remore, talmente era indifferente alla presenza di una macchina fotografica. Alterato dall'alcol e dall'influenza, quasi stordito dal condividere la scena con una mega band rock, irritato dai contestatori che strumentalizzavano i suoi concerti per lanciare slogan politici, mi lasciò fare. A fine tournée, quando mi presentai a casa sua per selezionare le fotografie per la copertina del disco live, apprezzò molto quella foto che lo ritrae appisolato a terra, contro un termosifone, nel corridoio di un palasport. Non si era mai visto così. Fino a quel momento era stato immortalato in modo piuttosto convenzionale: in casa con la prima moglie e il figlio Cristiano nella casa di Genova, o vestito da bravo ragazzo con la camicia ben stirata e le cifre cucite. In quella mia foto sembrava invece un personaggio di qualche sua canzone.

Farsi fotografare non era una sua priorità, ma lasciava che si cogliesse nelle immagini anche quello che gli succedeva attorno: cioè, la vita di tutti i giorni. Per lui non eri un fotografo, ma piuttosto un amico con cui passeggiare o conversare: le foto erano un corollario di qualcosa di più importante. Ci sono state volte in cui, con Fabrizio, ho rinunciato a scattare foto: era più importante privilegiare il momento che stavamo vivendo insieme. Anche con lui ho improvvisato, seguendo i suoi ritmi, le sue passioni, le sue inclinazioni. Nelle foto in Sardegna ritrovi il suo amore per la terra: quelle foto di Fabrizio in barca sul laghetto dell'Agnata, uno specchio d'acqua finanziato con i soldi di una tournée, raccontano di un sogno che aveva fin da bambino e che finalmente aveva realizzato. Nella casa di Milano l'ho colto nella sua camera, sdraiato sul letto, circondato dai suoi libri, da appunti e giornali, dall'immancabile chitarra. Quelle foto sono il ritratto delle sue notti insonni e solitarie, fatte di voraci letture e di appunti per qualche verso, o qualche canzone. A volte l'ho capito solo dopo aver fotografato.

AAJ: Ami ritrarre utilizzando il grandangolo...

GH: Quando fotografo amo, se possibile, usare tutte le opzioni che ho: colore, bianco e nero, ritratto ambientato, o primo piano strettissimo. Il grandangolo spinto l'ho scoperto grazie ad Art Kane e Arnold Newman, pionieri del 21mm. Kane lo usò spregiudicatamente nella moda e nella pubblicità, creando degli storici precedenti. Il grandangolo mi permette di essere dentro la scena, a contatto col soggetto. Quando scatto, voglio poter parlare e toccare senza interrompere il flusso della comunicazione e della creatività.

AAJ: Oggi, nel tempo libero, lontano da casa o in movimento, Guido Harari scatta con una reflex, una mirrorless, una compatta, o con uno smartphone con buone lenti?

GH: Ci sono stati periodi in cui la macchina fotografica non la portavo neppure con me! Volevo vivere il momento, riflettere, approfondire, senza l'ingombro (anche psicologico) della macchina fotografica. Nei lunghi viaggi, in treno o in aereo, porto un libro, un quaderno di appunti, oppure niente: mi basta... pensare, immaginare, sognare. Pasolini diceva: "È così bello sognare le cose. Perché bisogna farle?." Ma, per rispondere alla tua domanda, arrivati a una certa età si ha bisogno di leggerezza, e non solo quella esistenziale. Da un anno e mezzo porto sempre con me una Leica V-Lux, con un obiettivo 25-400mm. In studio invece uso ancora la mia attrezzatura "pesante," una Canon Mark-II.

AAJ: Come vivi la tua fotografia sui social network?

GH: Uso Facebook da una decina d'anni, soprattutto per promuovere le mie mostre, i miei libri e l'attività della galleria. Quando ho cominciato a lavorare come giornalista e fotografo, nei primi anni Settanta, era l'epoca d'oro delle fanzine, a uso di pochi appassionati che volevano sapere tutto degli artisti di cui la stampa istituzionale non voleva scrivere. Facebook, come pure i blog, hanno riacceso lo spirito delle fanzine, del passaparola tra appassionati, del contatto diretto tra fan. Due anni fa, Wall of Sound Gallery si è lanciata anche come casa editrice, non solo di cataloghi delle proprie mostre, ma anche di volumi in edizione limitata. Ho cominciato a realizzare libri una quarantina d'anni fa. Ho pubblicato con i maggiori editori, ma il settore vive da tempo una crisi apparentemente senza ritorno. Il web sembra offrire nuove possibilità, come per esempio il crowdfunding, che abbiamo esplorato con successo per "The Kate Inside," un volume in edizione limitata con le mie foto di Kate Bush.

AAJ: Negli ultimi anni ti sei dedicato più a progetti editoriali in cui testo e immagini hanno quasi la stessa importanza, meno alla fotografia in senso stretto. Oggi ti senti più uno storyteller o un fotografo che—come un tempo—continua a "svelare" le persone dietro i volti del personaggio famoso?

GH: "Storyteller" è una definizione molto calzante. Venti anni fa ho realizzato un progetto di mostra intitolato "Italians," per il quale, nel giro di tre-quattro anni, ho fotografato 130 eccellenze italiane in ogni campo: musica, teatro, cinema, arte, cultura, design, sport, scienze. Un passo prima del Duemila, volevo fissare una memoria. Questa spinta si è anche tradotta in una serie di libri: tre dedicati a Fabrizio De André, e poi "The Beat Goes On" con e su Fernanda Pivano. Lavorando con lei sul suo incredibile archivio, ho scoperto di poter fotografare anche senza macchina fotografica. Basta ansia dell'attimo fuggente. Con questo tipo di libro potevo abbracciare l'intero percorso di una vita! È stata una rivelazione senza ritorno. Ho quindi realizzato "Gaber. L'illogica utopia," e "Pasolini. Bestemmia," entrambi in collaborazione con le Fondazioni e le famiglie dei due artisti.

Wall of Sound Editions prosegue quel tipo di progetto, puntando sulla memoria non solo delle fotografie, ma dell'incontro di una vita tra un fotografo e un artista. Con l'americano Frank Stefanko abbiamo esplorato il suo rapporto con Bruce Springsteen in "Further Up the Road" e ora, con "Art Kane. Harlem 1958," approfondiamo un momento cruciale non solo nel percorso di un maestro della fotografia, ma anche nella storia della fotografia e della cultura popolare. Più "storyteller" di così!

Foto: Riccardo Piccirillo.

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