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Grande improvvisazione ad Angelica

Grande improvvisazione ad Angelica
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Angelica Festival
Bologna
Teatro San Leonardo 21-22.05.2016

All'interno di un festival che programmaticamente non privilegia nessun genere musicale, ma che dà spazio ad autori delle più svariate provenienze e alle modalità più disparate del fare musica, è possibile imbattersi in alcune esperienze significative dell'improvvisazione assoluta. È quello che è capitato nell'edizione in corso, la ventiseiesima, di Angelica "momento maggio," apertasi il 5 maggio con la prima italiana della sorprendente Ellen Fullman alle prese con il suo lungo strumento a corde, che attraversava tutta la sala del Teatro San Leonardo, per poi snodarsi fra protagonisti di spicco e produzioni originali fino al 28 maggio.

In particolare è emersa l'alta qualità dell'improvvisazione collettiva di due formazioni europee, entrambe paritarie, entrambe attive da circa un ventennio: da un lato il trio anglo-tedesco Konk Pack, che riunisce la chitarra, l'elettronica e il clarinetto di Tim Hodgkingson (co-fondatore degli Henry Cow), il sintetizzatore analogico di Thomas Lehn e la batteria di Roger Turner; dall'altro Spunk, quartetto norvegese tutto al femminile, in cui la voce e l'elettronica di Maja S.K. Ratkje sono affiancate da Hild Sofie Tafjord, al corno francese ed elettronica, Lene Grenager, al violoncello, e Kristin Andersen, alla tromba e flauti dolci. Vale la pena di mettere a confronto le loro notevoli performance, succedutesi in due serate consecutive.

Ciò che ha caratterizzato l'apparizione bolognese di Honk Pack è stata la gestualità degli interpreti, il loro insopprimibile rapporto fisico con gli strumenti. Quest'atteggiamento ha generato coerentemente la musica; il movimento ha costantemente preceduto e accompagnato il suono che ne è risultato. Questo tipo di empatia istantanea con lo strumento azionato lo si è riscontrato soprattutto nelle movenze sfrenate di Thomas Lehn, che seduto al centro della scena sembrava fare lo sforzo di un timoniere per governare la barca in una tempesta; una sorta di confronto/scontro dialettico ingaggiato con il proprio sintetizzatore analogico per sedurlo, accarezzarlo, oppure violentarlo e sopraffarlo, ottenendo un imprevedibile, scosceso percorso sonoro. Una modalità creativa ed esecutiva assai diversa rispetto ad altre esperienze di musica elettronica in cui gli interpreti rimangono imperturbabili e immobili di fronte alle loro tastiere anche quando ottengono squassanti moti tellurici.
Altrettanto imprevedibile e inventivo il lavoro svolto da Hodgkingson, che all'elettronica ha escogitato effetti minuti e intriganti, mentre al clarinetto con la respirazione circolare, nella seconda delle due lunghe improvvisazioni tramate dal trio, ha emesso soffi, glissando e microtoni, intessendo una sequenza melodica smorzata, di misteriosa ascendenza ancestrale. L'azione asciutta e concentrata di Turner infine, ripiegato sulla sua batteria, ha prodotto un drumming scabro, anomalo, nervoso. Dal loro serrato interplay è scaturita una musica improvvisata estremamente vitale e concreta, sussultoria, dai mutevoli e sorprendenti equilibri o contrasti dinamici e timbrici, perfettamente leggibile negli ingredienti complementari immessi nell'insieme dai tre comprimari.

Non molto diversi i meccanismi che hanno guidato il rapporto fra le quattro componenti di Spunk, ma diversi sono risultati gli esiti musicali perseguiti e ottenuti. Più che i contributi individuali, pur determinanti e anche in questo caso ben leggibili, nel loro concerto è prevalsa un'idea di unitarietà, che ha fatto emergere in primo piano gli impasti armonici e cromatici complessivi. Si è così dipanato un percorso nel segno della continuità e della lentezza: le situazioni trascoloravano senza frizioni l'una nell'altra; le progressioni e i crescendo evolvevano per lo più pigramente, estatici ed evocativi, evitando discontinuità e digressioni; anche le timide eccentricità presupponevano un'intima assonanza d'intenti.
Unitarietà, continuità e lentezza non significano necessariamente uniformità. Al contrario, questa performance ha concretizzato un panorama sonoro vivo, formicolante, cangiante, che, al di là delle reali intenzioni delle musiciste norvegesi, sembrava tradurre le voci (il vento nella foresta, le maree, i versi degli animali...) e i colori (tersi e madreperlacei oppure nebbiosi) di una natura nordica ora minacciosa ora serena, comunque mutevole e sovrana. Solo poco prima della conclusione del concerto, l'attenuarsi dell'uso dell'elettronica come tessuto connettivo ha fatto risaltare le sonorità acustiche, relativamente crude e scontrose, di tromba, flauti dolci, corno, violoncello, voce, fischietti...; poi nelle battute finali tutto si è risolto nel serafico e spassionato spegnimento di ogni velleità.
Si possono condividere le parole di Luca Vitali, che nel programma di sala fra l'altro individua nella musica di Spunk una qualità olistica e il consapevole tentativo di scongiurare le insidie ricorrenti nella libera improvvisazione collettiva: «egocentrismo, incoerenza, alcuni "gesti" tipici e codificati del free jazz, mancanza di dinamica e di humor».

Foto
Daniele Franchi.

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