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Genius Loci - Un festival tra le meraviglie di Santa Croce a Firenze

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Genius Loci
Firenze
Complesso Monumentale di Santa Croce
20-22.9.2018

Per il secondo anno il Comune di Firenze e l'Opera di Santa Croce, con la collaborazione dell'emittente fiorentina Controradio, hanno riproposto Genius Loci, festival multiforme volto alla valorizzazione dello splendido Complesso Monumentale di Santa Croce. Posto sul fianco destro della basilica, tomba di tante illustri personalità storiche non solo fiorentine, il complesso consta di due chiostri, quello del Brunelleschi e quello di Arnolfo, della Cappella dei Pazzi e del mirabile Cenacolo, dominato da un enorme e composito affresco di Taddeo Gaddi. In tutti questi spazi hanno avuto luogo eventi, che hanno visto protagonisti scrittori, filosofi, attori, danzatori e musicisti di vari orientamenti. Tra questi, anche grazie al direttore artistico Enrico Romero, il jazz l'ha fatta da padrone.

E l'ha fatto anche quando formalmente erano di scena musiche diverse, perché c'era jazz nel concerto di apertura del Djambolulù Swing Trio, che vedeva le chitarre di Maurizio Geri e Jacopo Martini assieme al contrabbasso di Nicola Vernuccio, c'era nel concerto della cantautrice Erica Mou, che vedeva al pianoforte Domenico Cartago, nell'incontro tra musica e voce della pianista Debora Petrina con lo scrittore Tiziano Scarpa e nello spettacolo "Una crepa: nostalgia dell'oro," per due danzatrici e il contrabbasso di Matteo Bortone. C'era jazz, indirettamente, persino nel concerto di Cristina Donà, che è solita farsi accompagnare da fior di jazzisti. E qualcosa a che fare con il jazz l'aveva anche l'epica conclusione della manifestazione, avvenuta all'alba del sabato con il concerto del mitico pianista e compositore Terry Riley, in duo con il figlio Gyan alla chitarra.

Ma ovviamente i momenti in cui il jazz dominava la scena erano altri. In primo luogo i due concerti nel Chiostro del Brunelleschi che hanno visto di scena l'Area Open Project di Patrizio Fariselli, riproposizione un po' deludente del repertorio degli anni Settanta, i cui arrangiamenti non avevano niente di nuovo da offrire, anche a dispetto della bravura di interpreti quali la cantante Claudia Tellini, e poi il Tenco Project di Tiziana Ghiglioni, Gianluigi Trovesi e Umberto Petrin, che ci ha fatto piacere risentire dopo un quarto di secolo dalla sua ideazione e dall'uscita del disco per Philology). A questi ha fatto seguito la performance in solitaria dell'originalissimo Paolo Angeli alla chitarra sarda preparata.

La parte del leone l'ha però fatta la stupefacente serie di concerti svoltisi nel luogo forse più complicato: la Cappella dei Pazzi, sala piena di eco pronte tanto a offrire suggestioni sonore, quanto a confondere esecutori e ascoltatori. In quello spazio, oltre a mettere in scena lo spettacolo di danza, era stato coraggiosamente deciso di far suonare in solo musicisti capaci di affrontare la sfida dei riverberi. Una sfida brillantemente vinta, sia per la qualità dei concerti, sia per l'opportunità quasi unica di mettere a confronto diverse interpretazioni di uno spazio sonoro di tal fatta.

Ha iniziato il venerdì un protagonista indiscusso del solo qual è Roberto Ottaviano, che ha affrontato la sfida ovviamente con il suo sax soprano. Il Maestro barese ha scelto una modalità tutta basata sul dinamismo e sulla varietà espressiva, facendo un uso assai parco di stilemi estremi, funzionale alla costruzione architettonica del suono. Muovendosi nell'ampio spazio della Cappella, cambiando la direzione della campana e talvolta roteandola per modificare il ritorno del suono, Ottaviano ha eseguito una serie di brani, largamente improvvisati e assai diversi l'uno dall'altro: ora più melodici e aperti, ora più frammentati scoppiettanti, ora con ispirazioni etniche. Suggestiva e un po' più ardita la conclusione, con lo strumento privo di bocchino e il correlato di uno scuro canto diaframmatico che esaltava ancor più il riverbero della sala brunelleschiana.

A seguire, l'unica deroga al solo dell'intera serie ha visto in scena il duo di Marco Colonna e Silvia Bolognesi, due artisti la cui intesa è tuttavia così profonda da fondere i loro suoni a perfezione anche quando, come in questo caso, le eco a momenti impedivano l'un l'altro di ascoltarsi. I due sono riusciti infatti a dialogare perfettamente, tanto da permettere a Colonna di alzare il livello del suono non solo con il sorprendente clarinetto in metallo, ma anche con il clarinetto basso, il cui suono invadeva la cappella con risultati potenti per il pubblico, ma certo perniciosi per gli esecutori. Splendidi nei loro passarsi costantemente l'un l'altro l'onore e l'onere di dettare il proseguimento del discorso musicale, i due hanno raggiunto l'acme della performance nel brano conclusivo, lirico e quasi liturgico, nel quale Colonna ha imbracciato contemporaneamente entrambi gli strumenti: in questo caso le eco della cappella hanno offerto al pubblico tutto il loro fascino.

Ardita e sorprendente, il giorno successivo, la modalità scelta da Dan Kinzelman per affrontare la rimbombante sala con il suo sax tenore (che proprio suo non era, perché è stato derubato del suo strumento durante un viaggio e ancora non ha scelto il definitivo sostituto). Il sassofonista statunitense ma italiano d'adozione ha diviso la sua performance in due parti, la prima delle quali, di una ventina di minuti, molto dinamica e giocata su espressività assai cangianti: passaggi ora "tecnici," con soffi e colpi d'ancia, ora torrenziali e roboanti, ora più quieti e sospesi. Il tutto muovendosi celermente in tutto lo spazio della cappella, così da utilizzarne ogni riverbero. L'episodio, tutt'altro che banale, era tuttavia di immediato impatto. Assai diversa la seconda parte, di circa trentacinque minuti, che constava di una sola nota medio-bassa, tenuta per tutto il tempo con una stupefacente respirazione circolare e portata lentissimamente in giro per la sala. La scelta, che ha senz'altro spiazzato buona parte del pubblico, ha destato numerose impressioni contrastanti, dallo stupore al tedio, passando per l'interrogazione e la curiosità, prima di riuscire a coinvolgere pienamente: era infatti necessario "abituarsi" al suono, percepire la variazione che esso subiva, in modo spesso davvero inatteso, al mutare tanto della posizione del musicista, quanto della sua modalità di emissione (apparentemente la stessa, ma di fatto sempre mutevole non foss'altro per l'impegno fisico che essa richiedeva), quanto infine della stessa modalità di ascolto dell'uditore. Nonostante qualche defezione, il concerto più procedeva, più diventava appassionante e necessario, come testimoniato dall'autentico (e tutto sommato inatteso) tripudio reputato alla conclusione a un Kinzelman letteralmente stremato dallo sforzo e dalla sorta di ipnosi indottagli dal lungo lavoro sulla nota. Un lavoro davvero straordinario ed encomiabile.

Conclusione forse un po' meno estrema, ma non per questo meno bella e interessante, con il vibrafono e le mille percussioni di Pasquale Mirra, che ha riproposto il suo "Moderatamente Solo" in forma tuttavia assai variata e improvvisata per poter sfruttare al meglio le qualità acustiche dello spazio. Le quali, in effetti, si sono mostrate adattissime al suono del vibrafono, che si ampliava nelle note basse grazie alle eco e rimbalzava da tutti i lati in quelle alte grazie ai riverberi. Unita alla ben nota poesia di Mirra, la suggestione della Cappella dei Pazzi ha offerto momenti spettacolari e commoventi.

L'esperimento, peraltro già iniziato lo scorso anno con il solo di Dimitri Grechi Espinoza, è stato complessivamente davvero entusiasmante ed è senz'altro da ripetersi: gli esperti di solo performance in Italia non mancano.

Foto: Eleonora Birardi.

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