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Franco D'Andrea: La sostenibile leggerezza del suonare

Franco D'Andrea: La sostenibile leggerezza del suonare
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L'occasione è troppo bella per lasciarsela sfuggire: il Maestro Franco D'Andrea è a Roma (siamo nella seconda metà di Settembre) per registrare il suo nuovo disco presso gli studi del Parco della Musica, e siamo stati invitati ad assistere alla sessione. Sono previste due giornate, e il nostro appuntamento è fissato per il primo giorno, nelle prime ore del pomeriggio. Al nostro arrivo però scopriamo che la mattinata in studio è andata così bene che la sessione è terminata e tutto il materiale è già stato registrato. Con un po' di rammarico, seguiamo il Maestro in regia, dove il sound engineer gli fa ascoltare i primi mix di prova per la messa a punto del suono finale. Al termine delle operazioni, approfittiamo della disponibilità del pianista per rivolgergli qualche domanda sul suo nuovo progetto musicale, in una chiacchierata informale che si trasforma in una breve intervista.

All About Jazz: Parlaci del nuovo progetto di piano solo che hai registrato qui al Parco della Musica. Ci puoi dire come nasce?

Franco D'Andrea: Innanzitutto nasce dal fatto che quest'anno è uscito un disco in ottetto [Intervals I], e un altro uscirà a fine novembre/inizio dicembre [Intervals II]. Avendo due dischi con l'ottetto abbiamo pensato di fare qualcosa di diverso, magari un piano solo che mancava da un po' di tempo. C'era un piano solo nel disco Three Concerts, però era il terzo di tre dischi quindi non era il focus della situazione. L'ultimo è stato Today, che ho registrato col Gallo Rojo nel 2012, prima dell'inizio della mia collaborazione con il Parco della Musica.

Per quanto riguarda questo progetto, negli ultimi sei mesi mi sono trovato a fare tre concerti di piano solo—normalmente non ne faccio molti—sapendo che avrei dovuto registrare un disco di piano solo. Quindi ho deciso di affrontare un repertorio diverso. Qualcosa che magari già avevo fatto in altre occasioni, non su piano solo, ma che avevo suonato anche con gruppi lontanissimi nel tempo. Ad esempio, ho ripreso una composizione da uno dei primi piano solo che ho fatto nella mia vita nel 1980. In realtà non era una composizione, era una suggestione di qualcosa, però è una struttura che allora adoperavo in un modo e oggi adopero in maniera diversa perché sono passati 40 anni. Ci sono molti pezzi che sono stati concepiti in un certo modo molto recentemente. Fanno sempre parte del mio modo di vedere il discorso musicale partendo dalla centralità dell'intervallo come generatore di armonia e di melodia, però lo spirito è diverso, perché questo spirito mi è penetrato dentro nei tre concerti che ho fatto ultimamente in posti molto diversi fra di loro. Uno era a Nuoro, un altro era a Borgotaro nel parmense, l'altro era invece in Puglia e in situazioni veramente diverse: Nuoro era un festival jazz, invece le altre due date erano del tutto isolate e in un contesto completamente differente, anche con pubblici molto diversi fra di loro. Borgotaro è il posto dove è morto Giorgio Gaslini, e io partecipo al premio Gaslini, che stiamo facendo da diversi anni, come presidente della giuria. Un bel giorno hanno voluto farmi suonare un piano solo, e mi hanno chiamato lì dove l'ambiente è molto popolato di gente di provenienza classica o di classica contemporanea. L'ambiente di Nuoro è schiettamente jazzistico, mentre in Puglia a Francavilla Fontana, dove non ero mai stato, ho trovato un pubblico ancora diverso, il pubblico di una piazza. Suonavo sul sagrato della cattedrale nella piazza principale del paese, una grande piazza e una situazione completamente diversa, una popolazione molto variegata, ma anche gente che arrivava lì per caso.

Per qualche ragione ho sentito un feeling particolare che è nato lentamente, prima nel concerto a Borgotaro, però solo parzialmente; poi a Nuoro è diventato più solido e infine a Francavilla Fontana è proprio esploso. Non che io abbia rivoluzionato la mia musica, ma ho cambiato un po' atteggiamento rispetto a come rendere questa musica in qualche maniera più trasparente, meno ostica, per dare più gioia, più felicità a chi ascolta. Mi sono detto che era un mio dovere fare qualcosa che fosse in qualche maniera comprensibile per certi aspetti, non in maniera esagerata, quel tocco, quella piccola consapevolezza di stare comunicando qualcosa a qualcuno che può essere anche una persona che non è un super intenditore di jazz, magari è un appassionato, ma ascolta musica più tranquilla. In questi concerti ho avuto un atteggiamento che non era semplificare la musica o roba del genere, ma sempre più proprio di feeling, di sentimento verso la gente, pur facendo la mia musica ho cercato di renderla il più possibile gioiosa, tale da poter dare felicità in qualche maniera, per quello che può dare la musica.

AAJ: Quindi sono stati i concerti a darti lo stimolo per il progetto?

FDA: Questo progetto di piano solo è fortemente influenzato dal mio cambiamento mentale rispetto a come porgermi nella musica, che di fatto è maturato lentamente. In passato ho fatto anche dei dischi abbastanza leggibili, per esempio quelli con Mauro Ottolini e con Daniele D'Agaro dedicati alla tradizione jazzistica che è un mio vecchio amore, sin da quando ero ragazzino. Quindi ho cercato di non essere troppo intellettuale, nel senso di doverci ragionare sopra per poter capire, ma di arrivare al cuore della gente, non soltanto al cervello. Questa cosa è maturata lentamente, paradossalmente perfino nel disco di ottetto secondo me si percepisce che in alcuni momenti questa musica nonostante sia complessa lievita in una maniera tale che può essere godibile anche per una persona che non è proprio uno specialista. Il colpo di grazia l'ho avuto in questi tre concerti per tutta una serie di ragioni di cui io posso anche non essere consapevole; la psicanalisi ci ha abituato a pensare che certe cose non le possiamo controllare completamente.

AAJ: Questi concerti ti sono serviti un po' come prova generale?

FDA: Assolutamente sì, questo atteggiamento è maturato lentamente. Ma anche facendo le mie registrazioni di prova per prepararmi a questo piano solo, per preparare le strutture, ho sentito proprio uno scalino che è cambiato prima e dopo i concerti. Gli ultimi 15 giorni prima di registrare questa cosa ho fatto alcune piccole registrazioni casalinghe all'inizio di settembre, e avverto il cambiamento suonando la stessa cosa che suonavo prima ma con maggiore leggerezza, intendendola come un concetto positivo, nel senso che non sia una cosa da mettersi troppo la testa tra le mani e dover soffrire per forza, anzi che possa dare qualche gioia.

AAJ: Come hai scelto il materiale per questo progetto? C'è qualcosa che hai composto per l'occasione?

FDA: Ho usato alcuni pezzi, sono andato ancora più indietro nella storia del jazz. Avevo avuto un incarico nel nuovo festival che si fa a Milano a Novembre quando era alla seconda edizione (ora è alla terza). Questo festival mi commissionò una cosa che avesse a che vedere col significato della musica tradizionale della musica del primo disco di jazz, quello di Nick LaRocca e la Original Dixieland jazz Band, essendo il centenario, e quindi cosa significa oggi una cosa del genere e come la puoi interpretare. Allora mi hanno chiamato con Ottolini e d'Agaro e praticamente abbiamo fatto una cosa lì. Per l'occasione ho rivisto alcuni di questi pezzi e li ho riarrangiati a modo mio cercando di creare delle situazioni particolari, ho cercato di razionalizzare un pochettino questo aspetto anche dal punto di vista degli intervalli e delle aree intervallari che venivano usate specialmente a quell'epoca e creavano questo colore armonico ma anche melodico nei temi che si facevano a quell'epoca che io ho sempre adorato, mi è sempre rimasta nel cuore.

Il colore di quell'epoca mi ricorda quando io mi sono innamorato del jazz, ho sentito Louis Armstrong e mi sono innamorato subito molto di questa musica, all'inizio avrei voluto fare del jazz tradizionale. Questi quattro pezzi in qualche maniera li ho usati anche in queste registrazioni di piano solo, aggiungendoci ancora qualcosa, delle modifiche rispetto all'unica esecuzione che facemmo in trio con Ottolini e d'Agaro e che non è stata registrata. Ho buttato dentro anche questi pezzi però sempre cercando di avere una coerenza anche col mio modo di vedere la musica oggi, quindi sovrapponendo anche queste strutture che mi sono inventato in qualche maniera e che hanno a che vedere con certi intervalli caratteristici che ricorrono in certa musica. Ho rispettato abbastanza la struttura sottostante, la struttura armonica, i giri armonici, i pezzi si sente che sono quei pezzi là, anche se l'ho abbastanza frammentata si riconosce che sto suonando comunque in qualche maniera un jazz che ricorda quell'antichissimo jazz del 1917. C'è addirittura ”Tiger Rag” che era il cavallo di battaglia di tanti gruppi ma in realtà il compositore era Nick La Rocca. Il resto invece è di diverso tipo; io ho sempre avuto un'ammirazione per la musica africana subsahariana, quindi ogni tanto ci sono dei pezzi, degli ostinati di basso, delle cose poliritmiche di vario tipo, bassi che si confrontano, figure che hanno una valenza ritmica molto importante, e poi ci sono pezzi completamente astratti teoricamente, perché sono basati addirittura il più delle volte su un solo intervallo. Però questi pezzi sono vissuti come una sorta di gioco, non come qualcosa da prendersi la testa tra le mani perché sono completamente atonali, non ci sono tonalità; siamo in pieno atonalismo, però è un atonalismo giocoso.

AAJ: Cerchi sempre di mantenere quella leggerezza di cui parlavi?

FDA: Esatto, secondo me questo è il punto nodale di questo disco particolare, e potrebbe essere anche il punto nodale della mia direzione futura, vedremo, però per ora questo è sicuramente un disco in quella prospettiva.

AAJ: Dei grandi pianisti della storia del jazz quali sono quelli di cui hai subito maggiormente l'influenza?

FDA: Ce ne sono talmente tanti, perché in tempi diversi io ho imparato cose da tantissimi! Sono autodidatta nel jazz perché una volta non c'erano scuole, non c'era niente. All'epoca mia si poteva solo ascoltare dischi, quindi la mia formazione è stata sui dischi, e in diversi tempi ho ammirato personaggi di varia provenienza. Earl Hines è uno di quelli nel jazz tradizionale che io ho ammirato e continuo a ammirare tantissimo. Art Tatum è fuori discussione però non è nel mio feeling, non è nel mio modo di vedere. Tatum è un grandissimo musicista che ha riempito un po' troppo la tastiera per quello che mi riguarda, si potrebbe dire la stessa cosa di Paul Bley al contrario, però per il mio gusto è perfino troppo invasivo sulla tastiera e faccio un po' fatica a farmelo piacere completamente. Earl Hines è più attento a queste cose qua, e pur in un periodo dove il pianoforte suonava a pieno regime anche da solo facendo delle cose fantastiche però non esagerava troppo. Aveva anche dei momenti di quasi pensosità, poi ogni tanto riprendeva, stoppava il tempo, riprendeva, cioè non era soltanto sempre lo stride o piuttosto con un tempo forsennato, fantastico, con duemila note sopra. Earl Hines rimane il mio preferito, mettiamola così.

E poi quando ho cominciato a occuparmi di jazz più avanzato ho incontrato Horace Silver, un personaggio che ho adorato... mi è piaciuto moltissimo e ho imparato una infinità di cose da lui nei primi tempi della mia formazione. E' quello che mi ha spinto a avvicinarmi al pianoforte e a quel tipo di musica. Io ero fermo al jazz tradizionale, e a quel punto ho saputo che c'era anche qualcosa di diverso e che era interessante, divertente, difficile se vogliamo, però era molto bello. Horace Silver è stata la chiave per il jazz moderno per me, assolutamente. A quell'epoca c'erano anche degli ottimi musicisti della West Coast, gente che suonava con Shelly Manne e questi personaggi qua come Russ Freeman, Pete Jolly, Hampton Hawes, quella era gente molto forte, e io all'epoca ignoravo ancora, cioè sapevo dell'esistenza ma non sapevo molto di Bud Powell, e chiaramente Bud Powell era il padre di tutta questa gente qua, magari Horace Silver era a parte perché era già uno più originale. Però questi musicisti della West Coast erano musicisti che prendevano parecchio da Bud Powell e io non lo sapevo, Bud Powell ho imparato a conoscerlo dopo, semplicemente perché io vivo a Merano, lì arrivavano solo alcuni dischi e altri no, i dischi della Contemporary erano molto ben distribuiti all'epoca, erano anche ben registrati, insomma c'è tutto un insieme di cose che poteva aiutare. Poi chiaramente tutti i pianisti che hanno suonato con Miles Davis per varie ragioni me li trovavo davanti, ma erano tutti formidabili perché Miles aveva un fiuto tremendo.

AAJ: Li sapeva scegliere bene...

FDA: A cominciare da Red Garland stesso, poi andiamo avanti, tutti gli altri facevano paura, gente come Herbie Hancock, assolutamente superlativo... McCoy Tyner comunque si è inventato una cosa con John Coltrane, è stato l'unico che è riuscito a andargli dietro e a seguirlo per un bel tratto di strada, che per me è il più bello che ha fatto. Le incisioni con McCoy sono importantissime, McCoy è fondamentale, il suo modo di armonizzare, il suo modo di fraseggiare, era così in sintonia. Tutta questa gente qua mi ha sicuramente ispirato, ma anche Wynton Kelly e tutti questi che suonavano con Miles erano tipi formidabili. Nello stesso periodo ho ascoltato anche pianisti molto avant-garde come Cecil Taylor che però non è tra i miei preferiti, ho sempre la sensazione che un po' come Tatum siamo nell'invasività totale del pianoforte, perché dopo un po' che fa una cosa il pianoforte si riempie in maniera forsennata. A quel punto lì io lo seguo per cinque minuti, dieci, ma dopo dieci minuti mi fermo. Quindi talentuosissimo, grandioso, lo riconosco, ma non è il mio genere.

Molto tardivamente mi sono accorto di Thelonious Monk e me ne faccio una colpa enorme, è stato negli anni '80, c'era Enrico Rava, ho suonato nel suo quartetto per un po' di tempo. Lui era un grande amico da tempo, sempre gentile con me, ma allo stesso tempo aveva bisogno di qualcosa e non lo trovava da me, e molto educatamente (non voleva offendermi mai) a un certo punto mi ha detto "sai, se potessi avere qualcosa di più scuro nel pianoforte." Io stavo a centro tastiera, facevo delle cose così, ma di qua non c'era tanto, e mi chiedevo cosa avesse voluto dire. Lui a quell'epoca suonava molto spesso dei pezzi in qualche maniera collegati con Monk, cioè c'era qualcosa di monkiano in 2-3 pezzi nel periodo in cui io sono stato nel suo gruppo, li usava spesso nel repertorio e nei concerti ricorrevano. Ho pensato, vuoi vedere che voleva dire Monk? Che era l'unico che mi veniva in mente, perché andava giù con la sinistra e le medio-basse, accompagnava in quel punto là della tastiera anziché nel centro tastiera.

Nel frattempo io stavo già maturando una rivisitazione del jazz tradizionale sul pianoforte, che non avevo mai suonato in quello stile, io suonavo la cornetta, il clarinetto poi basta, e Monk in questo senso aiutava molto a arrivare anche da quella parte perché in realtà poi i pezzi di Enrico erano gioiosi, molto comunicativi, avevano anche a che vedere con Monk, un Monk molto solare, e quindi in qualche maniera a quel punto lì mi sono accorto che Monk esistesse, nel senso esistesse per me; sapevo benissimo che Monk c'era, ma non era ancora entrato nella mia sfera come pianista. Da quel momento lentamente ho cominciato a maturare una mia reazione assolutamente pazzesca per questo personaggio unico nella storia del jazz, che guardava indietro, guardava nel contemporaneo, guardava avanti, guardava dappertutto ed era Monk. Aveva preso di qua e di là e aveva sintetizzato, cosa quasi unica nella storia del jazz, non ne ricordo altri, forse anche Jaky Byard fu un personaggio un po' così nel senso pianistico della parola. Poi Monk fu un musicista pazzesco anche per il discorso compositivo, per la concezione... però c'era anche un profumo di jazz tradizionale, addirittura di swing era, certi riff ricordavano quell'epoca, e quindi ho cominciato a andare in quella direzione e mi sono ritrovato nel settore dove Monk era maestro, nel medio-basso, in certi accordi così; poi di conseguenza anche la mano destra lavorava in un'altra maniera e ho cominciato a aggiungere anche questa alle mie influenze in maniera decisiva. Nello stesso tempo ho rispolverato ancora il jazz tradizionale e tutti i suoi maestri, e mi sono accorto dei legami che c'erano fra tutte queste cose qua. Poi ci sono dei pianisti moderni che io sicuramente ammiro parecchio, ma molti in fondo in fondo vengono in qualche modo da qualcuno di questi pianisti che ho nominato. Ad esempio, i vari pianisti che si sono succeduti nel gruppo di Wynton Marsalis sono pianisti pazzeschi, però dietro c'è Herbie Hancock, c'è un'influenza grossa; allora preferisco andare a vedere l'originale, non è che mi commuovo troppo per chi ha magnificamente fatto quello stile là, ma alla fine non ha aggiunto tantissimo. Però c'è un pianista contemporaneo che secondo me ha aggiunto o sta aggiungendo qualcosa di nuovo; penso sia un cinquantenne, più o meno 52 o 53 anni, ma la gente non si è accorta troppo di lui perché è un tipo molto schivo, molto modesto. Io l'ho conosciuto anche personalmente, si chiama Craig Taborn e questo è il personaggio più interessante che trovo nell'orizzonte pianistico oggi.

AAJ: A proposito del tuo essere un pianista autodidatta, pensi che questo ti abbia più favorito nella ricerca di una espressione personale, nel senso di essere libero dai condizionamenti di una educazione accademica, o che ti abbia limitato?

FDA: Io penso che ci siano tutte e due le cose, nel senso che da un lato l'assenza di condizionamenti c'è stata sicuramente, almeno non dal mondo accademico, e la fatica mortale di imparare a suonare per bene il pianoforte è stata l'aspetto negativo; però dall'altro lato questo mi è servito per avere un approccio più personale rispetto al pianoforte, perché alcune cose non le sapevo e allora cercavo di interpretarle a modo mio, e quindi per forza di cose finivo col fare altre cose rispetto a quelle che immaginavo che sarebbero state, perché semplicemente sbagliavo; magari non interpretavo un accordo in una certa maniera perché non ci arrivavo, o non sapevo bene come fosse, però alla fine ne trovavo un'altro che non era neanche male, ma era diverso, quindi in qualche maniera un certo tasso di originalità viene anche da quell'atteggiamento.

AAJ: In questa seduta hai inciso parecchi brani, come farai la selezione di quelli da pubblicare?

FDA: Adesso vedremo con calma, con i potenti mezzi che abbiamo possiamo scambiarci un sacco di registrazioni, sentirle bene, e con i nostri ascolti cercare di capire il discorso del suono e altre cose. Questo è un disco in studio e quindi c'è la possibilità di fare una selezione dei brani quando abbiamo già un po' di materiale a disposizione, decidere qual è il materiale buono per noi e metterlo nell'ordine più giusto per la conformazione finale. Teoricamente c'è materiale per due album, vedremo, è tutto aperto. La mia inclinazione sarebbe di fare un semplice disco, non proprio spropositatamente lungo, magari nell'ora, come se fosse la durata di un concerto, niente di più. Quindi se è possibile cercheremo di fare così, ma è una cosa su cui avremo il tempo di ragionare.

Si è fatta sera, e è ora di lasciarci. Ringraziamo il Maestro Franco D'Andrea per la sua cortese disponibilità. Ringraziamo anche Guido Gaito (Ufficio Stampa Parco della Musica) e Andrea Scaccia (manager del pianista) che hanno reso possibile l'incontro.

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