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Francesco Chiapperini, una storia bigama

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Pugliese di nascita ma lombardo d'adozione, classe 1978, Francesco Chiapperini, clarinettista e sassofonista nonché compositore, è senza ombra di dubbio uno dei nomi più interessanti emersi in questi ultimi anni nel panorama del jazz di casa nostra. Il suo ultimo album, The Big Earth, inciso dal vivo alla Scighera di Milano da un organico di dodici elementi e uscito di recente su Rudi Records, ha attratto più ancora dei recenti precedenti la nostra attenzione, affrontando un materiale quanto mai particolare: le marce funebri di tradizione pugliese legate alla settimana santa. Ne parliamo col diretto interessato, non mancando di partire da un rapido excursus su quella che è stata la sua esperienza tout court, prima e attorno a questo lavoro.

All About Jazz: Personalmente ti ho conosciuto (diciamo pure scoperto, perché di una bella scoperta si è trattato) attraverso il tuo primo album per la Rudi Records, Our Redemption, uscito fra l'altro in simultanea, a inizio 2015, con un altro lavoro, sempre della stessa etichetta, di Daniele Cavallanti, Sounds of Hope, con te presente. L'anno dopo è arrivato, su Aut Records, Paradigm Shift, in trio con chitarra e pianoforte, e adesso quest'ultimo album, per organico allargato. Direi quindi di partire con una veloce zoomata su quanto accaduto prima, anche proprio come tua formazione personale, visto che certe radici, specificatamente in quest'ultimo lavoro, emergono nitidamente.

Francesco Chiapperini: Questo è il mio quarto disco da leader e il percorso che ho intrapreso e che mi ha portato fin qui nasce negli anni della mia formazione bandistica, in primis, e orchestrale poi. Sono cresciuto musicalmente nella banda di Albino, un piccolo paese della Val Seriana in cui ho trascorso i miei anni giovanili, per poi approdare in orchestra a Milano, quella dei Pomeriggi Musicali, anche se per un breve periodo. Le formazioni allargate, quindi, fanno parte del mio passato e del mio sentire: la musica per banda ha avuto e ha tutt'ora un ruolo fondamentale nel tipo di approccio e di scrittura che utilizzo. La musica classica, d'altra parte, mi permette di avventurarmi in quei territori cameristici che il jazz contemporaneo ed europeo ha sfruttato nella sua vasta produzione. L'incontro con Daniele Cavallanti e Tiziano Tononi e gli ascolti della musica che è stata protagonista negli anni Sessanta e Settanta hanno completato questo mio—chiamiamolo—ciclo formativo.

AAJ: Parli di esperienze legate alla Lombardia, dove ti sei formato, però quest'ultimo lavoro specifico recupera, proprio programmaticamente, la tradizione delle marce funebri pugliesi, appunto di matrice bandistica. Le tue radici provengono del resto di lì: la banda e, appunto, la Puglia. Ti chiedo quindi di entrare un po' più nel dettaglio di questa scelta. E poi magari anche qualche referente: un certo mix di epicità e solennità mi pare rimandi per esempio all'esperienza della Liberation Music Orchestra di Charlie Haden, quella storica, dell'album Impulse del 1969. Ma c'è certamente anche altro. Qualche formazione europea, per esempio. Ti chiedo quindi questa doppia risposta, articolata: un perché più dettagliato, magari intimo, di questa scelta di campo e gli eventuali modelli, o anche semplici suggestioni.

FC: I miei genitori si sono trasferiti dal Sud nella bergamasca per insegnare. Di fatto, io non ho mai trascorso più di due o tre mesi all'anno nella mia terra natale, ovviamente i mesi estivi, quando le scuole erano chiuse. Nonostante questo, sento di appartenere a entrambe le culture: quella pugliese, che è sempre stata presente all'interno dei costumi e delle tradizioni vissute in casa, le espressioni dialettali, la cucina, i modi di comportarsi, e quella lombarda, che a me piace definire nordica e che mi appartiene di riflesso, poiché la mia infanzia e la mia adolescenza sono state vissute appunto nella bergamasca. Scegliere di omaggiare la Puglia, per me, è equivalso quindi a dire grazie a una terra che mi ha dato molto, poiché l'ho identificata, e la identifico tutt'ora, con quello che rappresentano per me i miei genitori, a cui è dedicato questo lavoro: sono stati il faro nella mia crescita e ancora oggi hanno un ruolo importante nella mia vita. La cultura meridionale che mi hanno tramandato comprende anche gli aspetti folkloristici, ed ecco che—complici i ripetuti ascolti di un disco superlativo come appunto quello di Charlie Haden—ho pensato che fosse giunto il momento di descrivere la mia terra attraverso la musica. La banda, al Sud come al Nord, riveste un ruolo molto importante per la collettività: è protagonista dei momenti più importanti della vita di una comunità e uno di questi, a Molfetta, è proprio quello che vede la banda sfilare durante i giorni pasquali. Le enormi statue che vengono accompagnate dai fratelli delle confraternite che avanzano per le strade con il loro cadenzare lento e affaticato, sono il simbolo di quei giorni. All'interno del lavoro ci sono tutti i miei ascolti, in primis, come dicevo, la Liberation Music Orchestra, ma anche Gato Barbieri (The Third World) e influenze che provengono dall'Europa, tipo quelle orchestrali di John Surman (Conflagration). Il modo con cui ho voluto affrontare il materiale, infine, intende sottolineare le esperienze bandistiche che io stesso in prima persona ho vissuto. Non mi interessavano concetti quali l'intonazione perfetta in tutti i brani, gli attacchi senza sbavature, eccetera. La banda è formata da persone che, stanche, dopo le proprie giornate di lavoro, imbracciano gli strumenti e provano settimanalmente i brani che poi suoneranno durante le loro uscite!

AAJ: Mi pare un quadro molto esauriente, e tuttavia vorrei capire se, oltre all'esperienza surmaniana che hai citato, ci sono altre suggestioni provenienti da grossi organici europei. Italiani, anche. E ancora: come s'inserisce in tutto il discorso che hai appena fatto il bis sulle note di "Fantozzi" di Pino Minafra, inserimento quanto mai emblematico, peraltro?

FC: Sicuramente anche l'Italian Instabile Orchestra ha avuto un'influenza importante sui miei ascolti e sulle sonorità a cui mi sono ispirato e a cui ancora oggi mi ispiro. Circa la scelta di suonare un brano di Pino, è figlia di numerose considerazioni: Pino è uno degli emblemi dell'Instabile, è pugliese, da anni è impegnato in una dura lotta contro tutto e contro tutti per far sì che il Talos Festival di Ruvo non muoia e continui ad essere testimonianza importante di quel folklore e di quella comunione tra musica e collettività di cui parlavo.

AAJ: Come hai scelto i musicisti, il tipo di organico, le timbriche?

FC: I musicisti li ho scelti pescandoli nel bacino dei talenti che popolano la scena di Milano, tutti artisti che hanno sposato la causa di far parte di grandi organici (l'Extemporary Vision Ensemble nasce come nonetto con il lavoro dedicato a Massimo Urbani, Our Redemption, e si evolve a organico di dodici elementi appunto per The Big Earth), con tutte le difficoltà—ma anche le soddisfazioni—che tale scelta comporta. Con molti di loro sono cresciuto sin dalle mie prime esperienze jazzistiche, con altri condivido tutt'ora altri progetti a mio nome, o collaboro come sideman. Insomma: quando suono con loro mi sento in famiglia. Con quest'ultimo lavoro dedicato alle marce funebri pugliesi, d'altra parte, ho voluto fortemente la presenza degli ottoni, che si sono aggiunti all'organico con cui è incominciato questo cammino. Trombe, tromboni e basso tuba hanno caratterizzato molto il timbro della musica registrata e suonata, dando l'impronta bandistica che avevo in mente. Ero convinto che partendo da una base solida, quella legata appunto a Our Redemption, costituita da musicisti di valore, bastasse aggiungerne altri di altrettanto valore per assicurare qualità esecutiva, interpretativa e improvvisativa: sono molto felice di non essermi sbagliato.

AAJ: Concluderei chiedendoti cosa bolle in pentola e un pensierino della sera, vale a dire i tuoi progetti futuri e qualcosa che eventualmente non ti ho chiesto e che avresti piacere di dire.

FC: Attualmente sto lavorando a un progetto in solo: ho sempre pensato che un musicista, all'apice della propria maturità, debba traguardare un lavoro di questo tipo. Non dico di essere arrivato a questo punto, perché ho ancora tanta strada da percorrere e tante note da suonare, ma penso di avere alcune caratteristiche compositive e improvvisative che descrivono appieno il mio stile, e che vorrei sperimentare affrontando quest'idea. È ancora un pensiero in bozza, ma proverò a realizzarlo quanto prima, magari entro il prossimo anno. Ho appena finito di scrivere poi alcuni brani per un progetto in trio, visto che da poco ho acquistato un sax baritono e vorrei utilizzarlo prima possibile. A oggi, il mio unico progetto in trio, InSight, con cui ho realizzato Paradigm Shift, vedeva una configurazione ereditata dall'Atlas Trio di Louis Sclavis. Questa nuova formazione, con Luca Pissavini al basso e Stefano Grasso alla batteria, intende ispirarsi invece alle radici dei miei ascolti, soprattutto ai lavori supremi di John Surman con Barre Phillips e Stu Martin, The Trio, appunto. Ho poi ancora nel cassetto alcuni brani dedicati a Eric Dolphy e altre idee che mi frullano in testa. Ed è forse questo il mio pensierino della sera: la felicità di avere ancora tanta musica a cui provare a dare un'anima.

Foto: Luciano Rossetti

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