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Festival MiTo SettembreMusica

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Teatro Franco Parenti / Teatro Manzoni
Milano, 04-21.09.2014


Il programma jazzistico di MiTo 2014 presentava due concerti particolarmente intriganti. Avishai Cohen with Strings al Teatro Franco Parenti, e The Master Musicians of Jajouka in compagnia di Bill Laswell & Material al Teatro Manzoni.

Filo conduttore di entrambi i concerti era il dialogo tra mondi, aree geografiche, generi musicali differenti. Dialogo che ormai viene dato per scontato. Quante volte abbiamo sentito -e noi stessi sostenuto con convinzione-le consuete frasi fatte sull'insensatezza degli steccati e delle barriere tra i vari generi musicali. E invece, all'atto pratico, tale dialogo si rivela spesso meno semplice e più tortuoso di quanto ci piacerebbe credere. Ce ne hanno dato prova, sia pure in misura diversa e nonostante la notevole caratura dei musicisti in gioco, i due concerti di cui sopra.

L'ottetto di Avishai Cohen (oltre al leader a contrabbasso e voce, Nitai Hershkovits al pianoforte, Daniel Dor alla batteria, Cordelia Hagmann al violino, Amit Landau e Noam Haimovitz Weinschel alla viola, Yael Shapira a violoncello e voce, Yoram Lachish all'oboe) ha proposto brani prevalentemente tratti dal suo recente album Almah: un intreccio di composizioni cameristiche, standards, melodie popolari arabe e israeliane.

La band era qui alla penultima tappa di una lunga serie di concerti e mostrava un'intesa, una coesione, una compattezza di suono davvero notevoli. Ciò nonostante, il bilanciamento tra le due anime dell'ottetto (quella "classica" e quella jazz) non risultava sempre equilibratissimo. Di fatto, la conduzione della musica era prevalentemente affidata al trio Cohen-Hershkovits-Dor, mentre il quartetto d'archi si limitava per lo più a suggerire colori ed atmosfere neo-romantiche, con l'oboe di Yoram Lachish a svolgere un ruolo di raccordo e collegamento. In breve, un'alternanza di momenti di autentica compenetrazione e di fasi in cui la sezione classica sembrava un orpello pleonastico.

Per contro, la varietà ritmica delle composizioni (dai 3/4 ai 13/8, la band non ci ha fatto mancare nulla), la bellezza travolgente delle melodie ("Alfonsina y el Mar," "A Child Was Born," "Kumi Venetse Hasadeh"), l'esecuzione tecnicamente ineccepibile, diretta e godibile senza essere ammiccante, ci hanno coinvolto a tal punto da farci volentieri sorvolare su queste debolezze progettuali.

Notevolissimo il giovane pianista Nitai Hershkovits, dotato di tocco, fantasia e musicalità. Considerata la grande quantità di brani cantati, ci permettiamo invece di suggerire a Cohen -vocalist ben intonato ma non indimenticabile-di considerare l'inserimento in organico di un/una cantante.

Atmosfere completamente diverse per il concerto dei Master Musicians of Jajouka (due ghaita, un violino e due percussioni) con i Material di Bill Laswell (oltre al leader al basso elettrico, Hamid Drake alla batteria, Aiyb Dieng alle percussioni, Graham Haynes a tromba e cornetta, Peter Apfelbaum al sax tenore).

Sulla carta, una prelibatezza per finissimi gourmet. Di fatto, un concerto decisamente modesto, nel corso del quale il dialogo tra le due anime del gruppo -il quintetto jazz (o per meglio dire fusion) ed il quintetto di musicisti tradizionali marocchini-non è mai avvenuto.

Numerose, a nostro avviso, le cause. Il timbro ed il fraseggio dei ghaita, molto stridenti e poco in sintonia con quanto proposto dal quintetto jazz. Un volume altissimo, ai limiti dell'insensato, che ha penalizzato le percussioni marocchine, rendendole praticamente inaudibili. La semplicità delle strutture, sostanzialmente dei pedali ripetuti al limite della noia (altro che trance!), con i fiati jazz che non si allontanavano mai dalla rassicurante pentatonica. Un sound decisamente datato (soprattutto il basso di Laswell), più adatto a nostalgici degli happening anni '70 che al contesto in cui il concerto si è svolto (realisticamente: anno 2014, Milano centro, teatro della buona borghesia cittadina, nel bel mezzo della Fashion Week).

In tutto questo, salviamo solo la performance di Hamid Drake. Pur giocando più di sciabola che di fioretto, il batterista si è mosso con fantasia e creatività, e ci è sembrato l'unico davvero desideroso di creare un legame, una comunicazione tra sè e gli altri musicisti sul palco.

Nel pubblico, numerose defezioni, qualche entusiasta ("esperienza trascendentale!", abbiamo colto nel commento di uno spettatore), applausi tiepidi. In molti, la palpabile delusione per ciò che avrebbe potuto essere, e invece non è stato.

Foto
Per gentile concessione di MiTo Settembre Musica.

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