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Fano Jazz By The Sea 2017

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Fano Jazz by the Sea
Fano
Varie sedi
22-30.7.2017

Quest'anno c'era qualcosa di nuovo sotto il sole, anzi sul mare di Fano. Una prima disorientante sfasatura, di natura visiva, rispetto al passato era costituita dall'assenza, sui programmi di sala e sul palco dei concerti, della storica immagine che riproduceva una tromba realizzata con la corda e i galleggianti delle reti da pesca. Introdotta come simbolo del manifesto dell'edizione 2004, è poi rimasta a campeggiare fino al 2016. È giusto cercare dei momenti di rinnovamento, di svolta anche simbolica, ma in futuro Fano Jazz by the Sea dovrà trovare un simbolo altrettanto emblematico.

In secondo luogo, come il direttore artistico Adriano Pedini ci aveva anticipato nell'intervista pubblicata lo scorso luglio, il festival ha trovato una casa, una sede più che accogliente nella possente Rocca Malatestiana, resa agibile per il largo pubblico. Proprio nel parchetto antistante la Rocca inoltre, nel Jazz Village creato ad hoc, si è svolta una serie d'iniziative collaterali. Il complesso si è rivelato una location provvidenziale, generando un'affluenza di pubblico inaspettata, decisamente superiore alle passate edizioni. Un pubblico partecipe, al di là di ogni previsione, si è riversato anche nei concerti gratuiti, certo non di facile consumo, della serie Exodus, tenutisi nel pomeriggio nella Pinacoteca di San Domenico.

Era questa la seconda edizione di Exodus, dedicata agli "echi della migrazione" e affidata all'interpretazione di solisti di varia formazione. Oltre a dover fare i conti con il riverbero acustico, non disturbante, della ex chiesa, tutte le esibizioni sono state accomunate dai temi del viaggio, della speranza, dalla nostalgia, dell'incrocio fra le culture di partenza e quelle di arrivo... A cominciare dal concerto di Jabel Kanuteh, nato in Gambia da padre griot e approdato in Italia dopo tre settimane di viaggio nel deserto e sul Mediterraneo. Con la kora e la voce ha cantato le gesta di una tradizione che ha radici antiche, ma che deve continuamente misurarsi con l'evoluzione degli eventi sociali internazionali.

Nei giorni seguenti si sono succeduti cinque improvvisatori italiani. Senza indulgere a melismi o esotismi di maniera, la sonorità tagliente e sforzata, il fraseggio contrastato del soprano di Roberto Ottaviano hanno tributato un partecipato omaggio alle culture che gli emigranti si portano nella memoria e che non devono andare disperse.

Tramite (e dentro) la sua fisarmonica Simone Zanchini ha concepito un viaggio spericolato attraverso varie culture, dai toni solenni della musica liturgica per organo alle cadenze delle tradizioni popolari di varie longitudini e latitudini, condendo il tutto con una buona dose d'improvvisazione jazzistica.

L'idea di viaggio era ben presente anche nella performance unitaria e discorsiva di Paolo Angeli, sia rivisitando varie culture del Mediterraneo partendo dalla sua Sardegna, sia inoltrandosi nelle cangianti possibilità sonore e ritmiche concesse dalla sua chitarra sarda preparata.

Giovanni Falzone invece ha riproposto la sua suite Migrante, già su disco. Integrando gli interventi alla tromba con un largo uso della voce, di strumentini e oggetti vari e soprattutto del delay, ha costruito un set molto rigidamente scandito e un po' frammentario.

Infine, senza ricorrere all'amplificazione e all'elettronica, il concerto solitario di Roberto Dani ha chiuso il ciclo. La lentezza, il respiro gestuale, il basso volume, la concentrazione selettiva con cui il percussionista ha manovrato il suo set essenziale di strumenti, ha involontariamente raggiunto esiti di misticismo orientale.

D'altra parte anche nei concerti serali sul main stage si sono alternate proposte delle più svariate appartenenze culturali e stilistiche, a cominciare dagli appuntamenti di grosso richiamo che nelle prime tre serate hanno fatto il tutto esaurito.
Un resoconto dei concerti successivi deve innanzi tutto registrare come Michael League sia ormai da considerare un manager che concepisce, comunica, promuove la musica con il pieno controllo dei mezzi tecnologici di oggi. Dopo aver fondato gli Snarky Puppy, che spopolano in tutto il mondo, ha dato vita ai Bokanté, i cui nove elementi provengono da quattro continenti diversi. Tre percussionisti, cinque chitarre di vario tipo e la cantante Malika Tirolien hanno proposto uno spettacolo le cui ispirazioni si muovevano con disinvoltura "fra Mississippi e Sahara." Tutto ha funzionato con speditezza, fra numeri individuali di sicuro effetto.

Nella sua solo performance Giovanni Guidi ha dimostrato un'elastica sensibilità nella distribuzione delle dinamiche del volume e del ritmo, passando da un pianismo rapsodico di influenze classiche alla suadente delicatezza delle ballad, a inquiete e vorticose contorsioni con un'ombra di minimalismo.
Subito dopo, la stessa elasticità dinamica ha caratterizzato la conduzione del quartetto Ida Lupino, che prende il nome dall'omonimo CD edito dalla ECM nel 2016. Una musica coesa e raffinata, con momenti di struggente intimismo e altri di esuberante tensione, è stata esaltata dalle trame armoniche e ritmiche intessute da Guidi e Joao Luis Lobo alla batteria, mentre la front line si avvaleva dei prestigiosi Gianluca Petrella e Louis Sclavis. C'è da domandarsi perché questa serata, l'unica a presentare un ottimo jazz europeo attuale, sia stata la sola a registrare una notevole flessione del pubblico.

Nella musica dell'Armenia affonda invece le radici il pianismo di Tigran Hamasyan, che ha ripreso il repertorio del disco An Ancient Observer (Nonesuch), sciorinando una diteggiatura incantatoria e vocalizzi diafani. Ne è risultato un concerto un po' preconfezionato, pur possedendo una precisa coerenza culturale, espressiva e poetica.

La chiusura del festival alla Rocca Malatestiana è stata affidata al trio dello spagnolo Chano Dominguez. Su un repertorio comprendente original, brani di Monk, di Davis e altri standard, il suo pianismo estroverso e sgranato ha proceduto fra mille variazioni, assecondato dal contrabbassista Horacio Fumero e dal batterista David Xingu, tecnicamente ineccepibili. Nel complesso un buon trio, di estrazione hard bop e moderatamente latino, che però sembrava rimasticare un jazz d'altri tempi.

Dopo i concerti principali, in uno spazio più raccolto della Rocca, sempre a cielo aperto, si è svolta la serie Young Stage dedicata ai nomi emergenti del jazz italiano. Debora Petrina, alternandosi alla chitarra e alla tastiera, ha interpretato sue canzoni intriganti e surreali, spesso nate da spunti autobiografici, forse un po' troppo ermetiche e sofisticate per raggiungere il largo pubblico.
La parabola narrativa dei brani del trio di Filippo Vignato vive di zone decantate e di crescendo ossessivi, ma anche nei momenti di maggior tensione il procedere del trombone del leader è risultato sornione, insinuante e sorvegliato... un po' gattesco. Ottimi i due partner: il francese Yanick Lestra al Fender Rhodes e soprattutto il batterista ungherese Attila Gyarfas, che ha macinato metriche e ritmi con nettezza lancinante.
Negli original del compatto trio Pericopes invece la scrittura si basa sempre su progressioni inesorabili ma allo stesso tempo circonvolute e claudicanti, fino a raggiungere culmini esasperati o a spegnersi in esauste rarefazioni, avvalendosi del sound cavo del tenore di Emi Vernizzi.

Una positiva sorpresa ha rappresentato infine il quintetto cosmopolita di Maria Chiara Argirò, pianista, compositrice e leader romana che vive a Londra da otto anni. Anche in questo caso un approccio minimalista fa parte del DNA di una musica eminentemente collettiva, perfettamente controllata e articolata in variegati risvolti evocativi.

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