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Fano Jazz By The Sea 2016

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Fano Jazz by the Sea
Fano
Varie sedi
22-31.07.2016

Fano Jazz By The Sea trova ogni anno formule nuove, anche per far fronte a esigenze contingenti. Per quanto riguarda le sedi dei concerti di questa ventiquattresima edizione si è in parte rinunciato all'atmosfera marina, avendo abbandonato i luoghi storici all'aperto: l'anfiteatro Rastad sul lungomare, mentre la Marina dei Cesari presso il porto turistico è stata toccata solo marginalmente. Quest'anno si è optato per prestigiosi spazi chiusi: la Chiesa di San Domenico, sede della notevole pinacoteca della Fondazione Carifano, e il Teatro della Fortuna. Edifici restaurati entrambi negli ultimi decenni e deputati ad eventi pubblici, alla fin fine si sono dimostrati contenitori ideali per capienza, caratteristiche acustiche e climatizzazione.

Le innovazioni più vistose sono state quindi di carattere logistico, mentre per quanto riguarda la coerenza della programmazione il festival fanese è rimasto fedele a se stesso. L'orientamento della direzione artistica, saldamente nelle mani di Adriano Pedini, ha privilegiato da un lato il recupero di protagonisti storici della fusion, dall'altro l'inserimento di alcune proposte dell'attualità più comunicativa e spettacolare, senza rinunciare nel contempo a nomi emergenti italiani e stranieri, a proposte di elevato contenuto progettuale. È stato il caso innanzi tutto del ciclo pomeridiano "Gli echi della migrazione," tema di scottante attualità affidato all'interpretazione di quattro ben noti solisti italiani, che si sono esibiti nella Pinacoteca San Domenico dall'acustica riverberante, fra stupende tele tra cui quelle del Guercino e del Barocci.

Nella solo performance di Luca Aquino, la tromba e il flicorno del quale sembrano rifarsi a Arve Henriksen più ancora che a Paolo Fresu, il funzionale uso dell'elettronica ha stratificato i suoni in sfumature cangianti. Note lunghe e dolenti come un pianto si sono alternate a sezioni evocative, tese a dipingere distese infinite, a materializzare tremolanti miraggi desertici, fra silenzi e calure stordenti.
Altrettanto funzionale l'integrazione fra sonorità acustiche ed elettroniche nell'esibizione di Michele Rabbia. La scabra concretezza materica dei metallofoni, delle pelli e di oggetti inconsueti di varie provenienze geografiche era amplificata da imprevedibili, sussultanti elaborazioni elettroniche e una suggestiva componente melodica si accompagnava alla ricchezza timbrica. L'evidente componente gestuale della performance ha contribuito a tessere un avvincente percorso narrativo, visivo oltre che musicale.

Nella sua "Oreb Preghiera Sonora," Dimitri Grechi Espinosa era invece alle prese esclusivamente con il sax tenore, rinunciando anche all'amplificazione. Le scale discendenti e ascendenti, i melismi e le linee melodiche da ballad malinconica sono approdate a note finali lunghe o brevi, forti o deboli, creando un flusso sonoro estatico, risonante e avvolgente.
Gavino Murgia infine ha portato gli echi culturali della sua Sardegna, esibendosi al canto gutturale basso e alle launeddas, oltre che al soprano, al tenore e all'elettronica. Ne è risultata una esposizione affascinante, anche se un po' dimostrativa, a mio parere compromessa, date le caratteristiche ambientali, da un'amplificazione troppo elevata.
Se dal punto di vista acustico i quattro solisti hanno sfruttato a proprio beneficio, chi più chi meno, l'ampio riverbero naturale dello spazio, i loro concerti sono stati accomunati da una visione trascendente, dalla trasfigurazione della fisicità del suono, portando per mano l'ascoltatore verso un'esperienza mistica, verso un'intuitiva riflessione sulla relatività degli eventi umani.

Nei concerti serali si sono susseguiti alcuni nomi di richiamo, che come da copione hanno riproposto la propria immagine, suscitando l'entusiasmo del pubblico.
Gli interminabili brani d'impianto modale del quintetto di Kenny Garrett, alla sua terza apparizione al festival fanese come due sere prima gli Yellowjackets, hanno ricordato molto le atmosfere di McCoy Tyner. Le reiterazioni hanno portato a esasperate progressioni, il sound complessivo ha preso colorazioni accese, la cadenzata pulsazione ritmica ha replicato un ipnotico dondolio tribale. Il tutto a incorniciare i sax del leader: il contralto, dalla seducente intonazione ondivaga, e il soprano ancora di derivazione coltraniana. Come sempre un set generoso e professionale, anche se del tutto prevedibile, fino agli immancabili brani "acchiappa-pubblico," in repertorio ormai da troppi anni.

Riguardo alla musica del cubano Volcan Trio di Gonzalo Rubalcaba, un gradino al di sopra degli altri due comprimari, Armando Gola e Horacio "El Negro" Hernandez, non so se si possa parlare di nobilitazione o eccentrica esasperazione del jazz latino. Direi piuttosto che vi prevale una ricca infarcitura virtuosistica, che produce una massa sonora stentorea e gonfia, ma a tratti anche insinuanti sottintesi. Fra stop e accelerazioni, fra cadenze marcate ed espliciti spunti melodici, tutto si muove con automatismi forsennati e infallibili.

Nelle ultime tre serate del festival, tornato sotto le stelle alla Corte Sant'Arcangelo, ha spiccato la proposta più attesa e innovativa: il trio Phronesis in esclusiva italiana. Il gruppo, attivo dal 2005, è indubbiamente una di quelle formazioni paritarie significative dell'attualità jazzistica. Diverso da The Bad Plus e paragonato da alcuni all'E.S.T., sta di fatto che la presenza perenne e consistente dei bravissimi Jasper Hoiby, contrabbassista danese, e Anton Eger, batterista svedese, sovrasta il pianismo dell'inglese Ivo Neame, il cui apporto, pur elaborato e circolare, risulta più classico e descrittivo, a tratti quasi manieristico. I brani, a firma dell'uno o dell'altro membro del trio, spesso terminano ad effetto repentinamente.

Motivi d'interesse sussistevano anche nell'apparizione del nuovo quartetto di Roberto Gatto, messo assieme appositamente per Fano Jazz by the Sea 2016, includendo due dei jazzisti frequentati recentemente dal batterista romano a New York. Il sound asprigno del tenorista spagnolo Javier Vercher, corroborato da un fraseggio spigoloso e imprevedibile, ha costituito apparentemente la voce più sperimentale della compagine. Il pianismo dell'americano Sam Yahel si è rivelato invece più compassato, ma il suo periodare anomalo e parsimonioso, spaziato da frequenti pause, ha creato una tensione particolare, soprattutto nei momenti in trio con basso e batteria. Sono stati appunto il basso elettrico dell'esperto Dario Deidda, dalla sonorità analoga a quella di un contrabbasso, e il drumming del leader, ora sornione a tessere un delicato sottofondo, ora più tonico e incalzante, a garantire una swingante unitarietà al gruppo.

Non si può trascurare infine la serie di appuntamenti "Young Stage," dedicata ai gruppi emergenti italiani e ambientata a tarda notte nella splendida cornice della ex chiesa di San Francesco, di elegante impianto neoclassico ma rimasta diroccata e a cielo aperto dopo il terremoto del 1930. A tale proposito è da segnalare almeno l'apparizione del Matteo Bortone Trio, completato da Enrico Zanisi e Stefano Tamborrino. A brani ben caratterizzati dall'andamento corrusco e inquieto ne sono seguiti altri misteriosamente circonvoluti, ed altri ancora dall'impronta più asciutta e dinamica. L'interplay e i contributi dei singoli sono stati retti da un'efficace e selettiva concentrazione, dando vita a situazioni diversificate e mai banali.

Foto
Maurizio Tagliatesta

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