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Fabrizio Puglisi: fra Africa, jazz e suoni analogici

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Nell'ambito del jazz più trasversale e lontano dalle rassicuranti certezze del pseudo-mainstream, troviamo musicisti motivati, che conducono una ricerca personale, coerente e di notevole potenza espressiva, pur rimanendo musicisti per pochi. Uno di questi è Fabrizio Puglisi, pianista, compositore e leader siciliano, ma residente a Bologna dai tempi dell'università. Puglisi è musicista completo, attivo fin dai primi anni Novanta, dedicandosi a vari progetti fra loro complementari; tuttavia non è noto quanto meriterebbe presso il pubblico del jazz, che di per sé non è né numeroso né sufficientemente curioso.

Probabilmente ciò è dovuto anche al fatto che egli, come tanti altri suoi colleghi, non si preoccupa di affrontare in modo adeguato gli aspetti pratici e organizzativi della sua promozione concertistica tramite l'aiuto di collaboratori e agenti fidati. Non è un caso quindi se alle mie domande relative alla comunicazione e al mercato nel jazz egli risponde in parte svicolando; dimostra così il suo disinteresse nei confronti dell'argomento, ripiegando invece su temi che gli stanno maggiormente a cuore.
Nonostante tutto ciò il 2017, che ha visto l'uscita di tre suoi CD significativi, è stato un anno di grande attività per il pianista; è per questo che non si poteva perdere l'occasione di coinvolgerlo in un'intervista a tutto tondo, in cui approfondire i vari aspetti della sua visione musicale.

All About Jazz Italia: Nel corso dell'ultimo ventennio c'è stata una graduale e consapevole evoluzione della tua visione musicale, fino a raggiungere la piena maturità attuale. Sei d'accordo?

Fabrizio Puglisi: Ti ringrazio per il complimento, l'evoluzione c'è stata certamente ma è tutt'altro che compiuta. Come atteggiamento cerco sempre di espandermi oltre alle cose che ho già fatto e anche adesso mi sto ponendo nuovi traguardi e obiettivi.

AAJ: Nella tua attività attuale, ci puoi sintetizzare le tue collaborazioni più importanti e i progetti consolidati?

F.P.: Il settetto Guantanamo è un progetto a cui lavoro dal 2010 cercando di sintetizzare il patrimonio della musica tradizionale e popolare afrocubana con il jazz, l'improvvisazione e la composizione di nuovo materiale. Nel settembre di quest'anno è uscito il CD Giallo Oro per l'etichetta Caligola. Il repertorio spazia dai brani originali a versioni profondamente rielaborate di "Un Poco Loco" di Bud Powell o "Turkish Mambo" di Lennie Tristano, fino a classici danzon popolari e rumba tradizionale. Su questo materiale stratifichiamo sperimentazioni timbriche, scrittura e improvvisazione. Il tema è sempre quello dell'"Ancient to the Future," la ricerca di un legame con una tradizione antica, archetipica, ma ancora attuale e in trasformazione.
Lo stesso tipo di ricerca c'è anche nel progetto Fawda, che condivido con Danilo Mineo alle percussioni e Reda Zine che canta e suona il guimbrì, un antico basso tradizionale marocchino. Il repertorio di Fawda prende ispirazione dalla musica Gnawa, una tradizione nordafricana legata alla trance e alla guarigione che noi abbiamo conosciuto andando a Essaouira e Marrakech per incontrare e suonare con alcuni maalem, le autorità sociali e spirituali che rappresentano questa cultura ancora viva e ben radicata, con tantissime similitudini tra l'altro con la Santeria cubana. Abbiamo registrato in Marocco il disco Road to Essaouira con musicisti locali e due dj-producer inglesi, gli Swami Million, portando dentro la musica Gnawa i nostri suoni analogici, synth e piano Fender, l'improvvisazione ispirata da Sun Ra a Coltrane e, senza esagerare, qui e lì qualche beat elettronico. Adesso dal vivo suoniamo con Martino Bisson, in arte Brothermartin, che fa il beatmaker usando sampler e l'elettronica in genere.

AAJ: È il caso di approfondire appunto il tuo interesse per l'Africa, le esperienze maturate e le collaborazioni con musicisti africani.

F.P.: L'Africa è da sempre una delle mie grandi fonti d'ispirazione, sin da quando Franco D'Andrea nelle lezioni di Siena Jazz razionalizzava alcuni poliritmi africani e ci invitava a considerare gli aspetti ritmici dell'improvvisazione come centrali e talvolta più importanti degli aspetti melodici ed armonici. Da allora ho suonato con musicisti tradizionali in Senegal, Marocco, Egitto e, recentemente, in Etiopia per scoprire che questi musicisti che eseguono repertori più o meno antichi sono più avanti di noi per certi aspetti... L'Africa delle grandi città (Il Cairo, Casablanca, Dakar, Marrakech ad esempio) è tutt'altro che Terzo Mondo dal punto di vista culturale, c'è tantissima musica dal vivo di tutti i tipi, succedono tante cose e i musicisti locali sono molto aggiornati sui nuovi linguaggi molto più di quanto non ci si aspetti. Ad Addis Abeba per esempio dagli anni Sessanta si sono sviluppate commistioni tra strumenti e repertori etiopi con il soul, il jazz, il funk e addirittura il punk e l'improvvisazione radicale. Non a caso i grandi improvvisatori olandesi come Han Bennink, l'ICP Orchestra o Luc Ex ci sono andati spesso a suonare e incidere.

AAJ: Ci puoi parlare in particolare della tua recente esperienza etiope?

F.P.: Quest'anno sono andato a suonare in Etiopia con l'ottetto Atse Tewodros, guidato dalla cantante e scrittrice italo-etiope Gabriella Ghermandi e composto da alcuni tra i migliori musicisti di Addis Abeba, abituatissimi a mescolare le loro conoscenze con sonorità moderne anche estreme. Per esempio il nostro percussionista etiope Misale Legresse ha tra i suoi idoli Han Bennink e Paal Nillsen-Love! Con Atse Tewodros andremo a suonare in febbraio in India e in settembre 2018 negli USA, sempre che Trump ci faccia entrare...
Ma soprattutto in Africa mi piace il modo comunitario, collettivo in cui si vive la musica come strumento di aggregazione sociale, come strumento espressivo condiviso e riconosciuto da tutti come valore. Andare in Africa da musicista è un privilegio; se ti sai porgere con umiltà puoi entrare in profondità nella cultura di un posto in cui la musica scandisce i tempi di tutto quello che succede: chi nasce, chi muore, le stagioni, chi sta bene, chi sta male... altro che Twitter!

AAJ: Come è nata e su cosa si basa invece la collaborazione con John De Leo, documentata recentemente su disco?

F.P.: Con John ci siamo conosciuti quando siamo stati invitati, insieme ad Achille Succi e all'artista visivo Massimo Ottoni, per una performance sui quadri di Giuseppe Zigaina, grande pittore, amico e collaboratore di Pasolini. Pur venendo da background completamente diversi abbiamo trovato affinità e territori comuni da esplorare. Ci siamo incontrati a lungo per delle prove, senza un'idea precisa su dove andare a parare e senza la fretta di uscire con un "prodotto" da vendere per i concerti, semplicemente guidati dalla voglia di allontanarsi ognuno dal proprio ambito ed esplorare ambiti musicali nuovi.
Il risultato è il CD (e vinile) Sento Doppio, che ben rappresenta la varietà di soluzioni a cui siamo arrivati. È un disco spiazzante perché ha in sé cose molto diverse: dagli ambiti più jazzistici di "Naima" o del monkiano "Crepuscule with Nellie" a episodi rumoristici o brani originali scritti da me e John come frutto di sessions d'improvvisazione. C'è anche un moderato uso del looper e un cospicuo ricorso al pianoforte preparato; in due brani inoltre ospitiamo Gianluca Petrella. Secondo me il progetto è interessante anche perché propone, soprattutto al pubblico di John, molto più numeroso di quello che segue i miei progetti, delle musiche che certo non sono abituali nei circuiti della musica italiana in generale.

AAJ: È ancora in attività il trio Rope con Stefano Senni e Zeno De Rossi?

F.P.: Il trio Rope è tornato in attività da un paio di anni dopo i due CD che erano usciti per El Gallo Rojo nel 2005 e 2009. Abbiamo ripreso a cercare nel repertorio del jazz, rivolgendo la nostra attenzione a tutta la storia di questa musica. Nel nostro repertorio si alternano Jelly Roll Morton con John Zorn, Duke Ellington e Misha Mengelberg, Monk e Paul Motian, oltre a qualche nostro original. In questa nostra libertà c'è la voglia di aprire la formazione "classica" del piano trio a tante diverse possibilità meno "classiche," ma senza forzature: un blues ben suonato con il cuore non ha mai deluso nessuno. Abbiamo voluto storicizzare musicisti con cui siamo cresciuti come Bill Frisell, Motian o Zorn insieme ai grandi compositori del jazz. Rope è stato sempre caratterizzato da una grande capacità di sintesi: spesso i brani sono brevi, senza lunghi assoli. La ricerca dell'interplay è facilitata dal fatto che Zeno e Stefano sono due musicisti eccezionali con cui suono ormai da vent'anni in tanti contesti diversi.

AAJ: Si sono poi verificate delle collaborazioni occasionali, ma riuscite: per esempio nella primavera 2017 a Bologna il trio con Cristina Zavalloni e Gianluca Petrella (per altro tue vecchissime conoscenze). Come valuti questa esperienza? Pensi che si possa replicare in futuro?

F.P.: Con Cristina e Gianluca è stato molto divertente e speriamo possa succedere ancora in futuro! Per i miei progetti in genere ho una gestazione lunga: arrivo in studio di registrazione per documentarli solo dopo lunghi periodi di prova e vari concerti dal vivo. Sicuramente anche gli incontri estemporanei hanno una loro magia e immediatezza, soprattutto quando hai l'opportunità di suonare con musicisti come Cristina e Gianluca: lì ti senti libero di rischiare perché sai che gli altri capiscono al volo dove vuoi andare.

AAJ: In concerto recuperi spesso brani dei maestri del jazz: Monk, Mingus, Ellington, i Sudafricani degli anni Settanta... Cosa ti spinge a queste rivisitazioni?

F.P.: Devo ammettere che in molto jazz dei nostri giorni sento una conoscenza a volte un po' superficiale della tradizione del jazz. Io personalmente ho imparato che i grandi "rivoluzionari" di questa musica avevano invece i piedi ben piantati nella conoscenza dal passato, penso a Monk e al suo pianismo "stride," a Charles Mingus e alla sua diretta derivazione da Ellington e Jimmy Blanton, o a Miles Davis che, cresciuto all'ombra di Dizzy Gillespie, trova la sua identità e grandezza solo quando trova un suo stile per certi versi opposto a quello del suo maestro.
Ho sempre avuto come riferimento alcuni musicisti d'avanguardia con cui ho avuto la fortuna di suonare e che conoscevano questa tradizione a menadito: Steve Lacy, Misha Mengelberg, Lester Bowie, Louis Sclavis, Zorn tra gli altri. Non lo dico per sciorinare le mie collaborazioni prestigiose, ma io mi sentivo come in un banco di scuola quando suonavo con loro. Essi riconoscevano i singoli solisti delle varie epoche dell'orchestra di Ellington, conoscevano a memoria dischi di tantissimi musicisti storici anche meno importanti, perché la storia del jazz in realtà non è stata fatta solo dai "geni." E a ben vedere le loro musiche mi sembrano ancora oggi più stimolanti e ricche di nuove prospettive a confronto di tante proposte patinate ed eleganti che ci sono adesso... Time will tell...

AAJ: Il professionismo comporta anche dotarsi di una propria pronuncia personale e distinguibile. In parte non significa anche portare al pubblico quello che si aspetta, nel repertorio come nelle modalità espressive?

F.P.: Si, certo. E qualche volta tutto diventa abbastanza prevedibile. Bisognerebbe forse che un musicista creativo cercasse di non ripetersi mai, anche se questo è difficile ma non impossibile se si guarda, anche lì, ai grandi del passato. Io sono attivo in campi molto diversi tra loro, il pubblico può essere disorientato dal vedermi in un trio jazz come Rope, poi con synth analogici e piano Fender e un dj in Fawda, o in duo con un danzatore. Chi conosce un minimo quello che faccio sa che non deve aspettarsi sempre la stessa cosa...

AAJ: Ma la musica è anche comunicazione e mercato! Vi operano varie categorie: agenti, addetti stampa, critici, produttori discografici, organizzatori di rassegne e festival... Che importanza assegni a queste diverse categorie?

F.P.: La musica è anche mercato, certamente, ma la considerazione più amara è che il jazz, le musiche improvvisate e di ricerca rappresentano un mercato povero, in cui per sopravvivere è necessario (con poche eccezioni) affiancare l'attività didattica a quella concertistica. Per me non è un problema perché la didattica mi piace, mi permette di studiare, approfondire e soprattutto di condividere le mie conoscenze. La didattica è alla fine il vero lavoro "socialmente utile" che faccio, investo tempo ed energie nel mantenimento di una cultura che è messa a dura prova dai modi in cui la musica viene consumata di questi tempi. Un lavoro necessario per far sì che tra vent'anni ci sia ancora chi suona ed ascolta musica con attenzione e passione senza affidarsi all'ideologia del "su spotify c'è tutto."

AAJ: L'insegnamento appunto: cosa e dove insegni?

F.P.: Da quest'anno insegno pianoforte jazz al Conservatorio di Verona, dopo aver insegnato nei Conservatori di Bologna e di Trapani. Inoltre insegno anche ai corsi invernali di Siena Jazz, con grande soddisfazione essendo stato per vari anni uno studente dei Seminari Senesi. L'inserimento dei corsi di Jazz secondo me ha giovato molto al conservatorio come istituzione, permettendo l'immissione di energie, programmi e stimoli nuovi, utilissimi a chi vuol fare della musica il proprio mestiere. Non si può negare altresì che il jazz in conservatorio tenda ad accademizzarsi e omologarsi un po' troppo; mi fa sorridere pensare che Billie Holiday o Ornette Coleman forse adesso non supererebbero un esame di ammissione a un triennio o a un biennio. Per fortuna ci sono anche insegnanti di jazz bravissimi, che sanno valorizzare i talenti incoraggiando la ricerca della propria identità.

AAJ: Per il prossimo futuro cosa stai progettando?

F.P.: Non usciva un mio disco dal 2013 e quest'anno è stato molto importante perché sono usciti CD e vinili di alcuni progetti a cui lavoravo da anni: Fawda, Guantanamo e il duo con John De Leo! Adesso vorrei sviluppare il repertorio con Guantanamo, inserendo nella band un percussionista classico, Luca Valenza, che suona marimba, congas e percussioni classiche. Non sarà semplice trovare occasioni per suonare dal vivo con un ottetto, ma è molto stimolante pensare a cosa potrebbe venire fuori lavorando al confine tra composizione ed improvvisazione con questa grande orchestra di percussioni. Si tratterebbe di mantenere da una parte il retaggio ancestrale del beat afrocubano, andando nel contempo verso una ricerca di timbri e forme nuove, che trae ispirazione dall'uso della percussione nella musica contemporanea da Edgar Varese in poi.
Riprenderò inoltre a fare dell'improvvisazione in duo con Gunter "Baby" Sommer, grandissimo percussionista e pioniere del jazz e dell'improvvisazione europea, con cui suono da vari anni. Si fa per dire "improvvisazione" perché ormai Gunter ed io abbiamo una consuetudine che rende le nostre improvvisazioni delle composizioni in real time, oltre a un repertorio che comprende Strayhorn, Monk e brani nostri. Abbiamo il master di un CD già pronto, ma stanno sparendo le etichette discografiche...

Foto: Luciano Rossetti (Phocus Agency)

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