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Dolomiti Ski Jazz – XIV Edizione
ByFestival dalla formula particolarissima, da sempre il Dolomiti Ski Jazz propone un cartellone che oscilla tra un jazz accessibile e di intrattenimento, che anima i concerti che si svolgono all'ora di pranzo sulle piste da sci, ed un jazz di maggior spessore, presentato la sera nei numerosi teatri e sale polifunzionali della valle.
Peraltro, nell'edizione di quest'anno due dei gruppi previsti per i concerti sulle piste avrebbero ben figurato anche nel programma serale. Stiamo pensando al gruppo vocale e "al femminile" Fifth Side (Helga Plankensteiner a sax e voce, Ilona Damiecka a piano e voce, Francesca Bertazzo Hart a voce e chitarra, Beppe Pilotto al contrabbasso, Enrico Tommasini alla batteria), ed all'Alpentrio del sassofonista Florian Bramböck (Michael Lösch all'organo, Enrico Tommasini alla batteria, ospite Helga Plankensteiner alla voce).
Purtroppo, un meteo inclemente ha funestato l'intera settimana in cui si è svolto il festival (fatta eccezione per l'ultimo giorno), complicando non poco la vita a musicisti ed organizzatori, e rendendo di fatto poco fruibili per il pubblico i concerti all'aperto. Un vero peccato perché, nelle belle giornate di sole, assistere ad un buon concerto circondati dalle cime dolomitiche innevate è un'esperienza unica.
Non soggetti alle bizze del meteo, ovviamente, i concerti serali, frequentati da un pubblico numeroso ed entusiasta. Anche quest'anno, il festival ha dedicato grande attenzione a quello che potremmo definire un mainstream evoluto. Jazz di varia estrazione ed orientamento, che non rifugge qualche scatto innovativo o divergente, ma che al contempo resta solidamente inserito nella tradizione.
Il primo concerto cui abbiamo assistito è quello del quartetto Passport (Pietro Tonolo al sax, Jordi Rossy a pianoforte e batteria, Joe Chambers a batteria e vibrafono, Arnie Somogyi al contrabbasso). Grazie alla poliedricità di Rossy e Chambers, il quartetto si presentava ad assetto variabile: un classico quartetto jazz quando alla batteria c'era Chambers; un organico dal sound più etereo ed aperto quando dietro ai tamburi sedeva lo spagnolo; una formidabile macchina da guerra ritmica quando entrambi erano alla batteria. Consequenziale la musica. Un jazz molto equilibrato e mainstream nel primo caso; una musica dalle strutture più leggere e libere nel secondo (quello che abbiamo maggiormente apprezzato); spettacolo puramente pirotecnico nel terzo. Nel complesso, un gruppo con molte buone intuizioni (alcune intro erano davvero pregevoli), ancora non completamente sviluppate.
Un po' deludente, invece, il quartetto del chitarrista Jonathan Kreisberg. Preceduto da una fama di grande talento in ascesa nel firmamento della chitarra, Kreisberg ci è sembrato indubbiamente dotato dal punto di vista strumentale, ma abbastanza prevedibile ed autoreferenziale nel fraseggio. La nostra impressione è che il chitarrista abbia ampiamente assimilato la lezione post Jim Hall dei vari Scofield e Metheny, ma non abbia ancora trovato quella chiave che permette alla tecnica di diventare elemento comunicativo. In questo concerto, le cose migliori ce le ha fatte dunque ascoltare il batterista Mark Ferber. Nonostante la schematicità delle strutture all'interno delle quali era costretto a muoversi, si è mostrato musicista creativo e fantasioso.
Molto interessante il quartetto del sassofonista di origini spagnole Javier Vercher, con Matteo Alfonso al pianoforte, Lorenzo Conte al contrabbasso, Cory Cox alla batteria. La band, messa insieme per questo tour italiano, era solo al suo secondo concerto, ed ha dunque privilegiato un repertorio di brani attinti dalla tradizione ("Beatrice" di Sam Rivers, "Body And Soul," ed altri standard), presentando solamente un paio di composizioni originali, tratti dal recente album Wish You Were Here (nessun riferimento ai Pink Floyd, NdR). Abbiamo comunque rilevato, in questo giovane sassofonista dai sentori shorteriani, ottime qualità sia di scrittura che interpretative. Decisamente da riascoltare, possibilmente in un concerto nel quale vengono eseguite sopratutto sue composizioni. Da segnalare anche il batterista Cory Cox. Giovanissimo (ha solo ventidue anni), Cox è dotato di una notevole maturità e senso della narrazione improvvisativa.
Ma l'autentica scoperta del festival, sia pure in ambito extra-jazzistico, è il nigeriano Ola Onabule, qui con la sua Six Pieces Band. Musicista pressoché sconosciuto in Italia, Onabule è cantante dotato di una voce straordinaria, duttile e versatile. Con un fondo vellutato (il che lo accomuna al gusto corrente delle voci black), ma anche capace di esprimere grande potenza. La sua musica è un mix di soul e pop, sviluppati secondo i migliori canoni: la sezione ritmica basso-chitarra-batteria a tessere le strutture, il piano Rhodes a riempire, i fiati rigorosamente in levare. Vengono in mente gli Incognito, Al Jarreau, i Simply Red. Qualche sconfinamento commerciale verso Craig David, e qualche immancabile venatura più decisamente funk (una gag con il pubblico ci è sembrata una diretta citazione dalla mitica "Brick House" dei Commodores). Finale di concerto con il pubblico tutto in piedi a ballare. Appuntamento all'anno prossimo, sperando in un meteo più favorevole.
Foto di Luciano Rossetti (la prima), Danilo Codazzi (le altre).
Altre immagini di questo festival sono disponibili nel foto-racconto e nelle gallerie dedicate ai concerti di Javier Vercher e di Ola Onabule
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