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Sidsel Endersen - Stian Westerhus: Didymoi dreams

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Sidsel Endersen - Stian Westerhus: Didymoi dreams
Lo sguardo della Norvegia non è freddo come potremmo immaginare. Dai fiordi frastagliati da mille increspature, ecco la musica disarmante dell'insolito duo norvegese Sidsel Endresen e Stian Westerhus.

Lei, vocalist di grande talento, con oltre trent'anni di carriera alle spalle e un vasto numero di interessanti collaborazioni (ricordiamo, ad esempio, l'attività nel Jon Eberson Group e il lavoro con Bugge Wesseltoft) sembra arrivare da un mondo senza tempo (o dal futuro).

Lui, chitarrista raffinato e coraggioso, diversi anni trascorsi a Londra e fruttuosa attività da solista e in band sperimentali come Puma, Jaga Jazzist, e Monolithic, distrugge qualsiasi definizione di musica e la ricostruisce secondo regole non scritte ed insolite.

Questo coinvolgente Didymoi Dreams cattura la loro performance sul palco del Norway Jazz Festival 2011 (Bergen): per la precisione, 11 tracce che aprono e chiudono un discorso musicale compiuto, a tratti difficile da decifrare. La registrazione dal vivo (oggi scelta frequente, grazie soprattutto a veri miracoli tecnologici) è una strada sempre affascinante. Toglie il rigore, a volte anche asettico della sala di incisione, e restituisce esitazioni impercettibili, che esitazioni non solo, sono il naturale ritmo della vita, dell'arte, il ritmo umano, un po' più umano di quello perfetto del prodotto "confezionato" dall'inizio alla fine.

Certo, il live di oggi non è quello di una volta, non si sentono fruscii di bobine, sottofondi di voci o simili. Qui si passa dallo studio e il lavoro di mixaggio fa la sua parte: toglie ed aggiunge laddove serve. Fortunatamente esso qui è ad opera dello stesso Stian Westerhus, che di certo ha limato solo il necessario, e restituito, a chi non che era presente a Bergen, gran parte del turbillon uditivo-emozionale della strana coppia.

Quel che ne esce è un prodotto iperbolico. Eppure a guardare gli ingredienti di partenza, non potremmo avere niente di più semplice. Voce e chitarra, nulla di più essenziale, verrebbe da dire. Ma questa voce e questa chitarra sfuggono a qualsiasi definizione, a qualsiasi genere. Improvvisazione vocale e strumentale, musica di suggestioni emotive, non solo per le orecchie, ma per tutto il ritmo del corpo umano che la musica accende.

C'è chi ha definito "paradossale," questo incontro, e il paradosso sta proprio nel dialogo crudo tra il puro acustico folk essenziale, la voce di Endersen, e l'elettronico ostentato, la chitarra di Westerhus, dove tutti gli effetti, le distorsioni, i ritardi, sono volutamente, consapevolmente forzati, tra giochi infiniti di loop e pitch shifter ed invenzioni sonore.

È una bella dicotomia: niente di più distante potrebbe però trovare una dialettica precisa, fatta, sì, di suoni difficili, di dissonanze, ma anche di aperture continue. Ci si potrebbe chiedere anche perché qui ci sia dentro del jazz, e se, in effetti, ci sia. Di certo Dydimoi Dreams (pur emergendo un'"impalcatura" precisa che regge l'esibizione - tre parti, più o meno omogenee per inclinazione sperimentale -) è improvvisazione: un discorso lungo, continuo, fatto di suoni che si passano il gioco l'un l'altro con regole intricate che non possono trovare spazio solo nella musica scritta.

Poi c'è il discorso a parte del canto di Endersen, che regala alla performance il sapore del pezzo unico, di quella certa cosa precisa che per quanto riproducibile non potrà mai più essere la stessa.

I vocalizzi di Endersen cercano volutamente e ostinatamente, il sincopato, il controtempo. Ma non pensate ai suoni della voce umana comunemente intesi. È qui palese la volontà di portare all'estremo lo strumento della voce (strumento esattamente come la chitarra di Westerhus), e nessuno spartito, di nuovo, può poi racchiudere le soluzione che riesce a trovare.

Ti prende all'improvviso la voce limata e sfumata, appoggiata con dolcezza su un tappeto elettronico "gentile" ma deciso; poi tutto cambia, o può cambiare e quando la voce diventa roca più timido diventa il "background" di Westerhus: a volte sembra essere costruito senza la volontà di accompagnare soltanto, ma di stare accanto, in parallelo.

Endersen cade dal cielo, oppure spunta dal basso, quando non te lo aspetti. Ci si chiede, poi, cosa stia esattamente dicendo, a chi stia parlando in questa lingua di folletti, di fate, di creature misteriose: inglese, sprazzi di norvegese (ma non sono rari i momenti in cui non si riescono a distinguere, le parole) poi tanto altro, che si potrebbe definire rumore umano, più che suono umano, rumore umano sincopato, intermittente come un vecchio vinile su un vecchio giradischi dalla puntina capricciosa. È una lingua fatta anche di parole, ma prima di tutto di sillabe, di suoni onomatopeici, di mezze cose dette (e l'altra metà la trovi altrove, nella chitarra o nel silenzio).

Certo, il pezzo di apertura, "The Rustle of a Long Black Skirt," può essere ostico, al primo ascolto: frammenti di suoni, quasi un growl personale destabilizzante e incostante. Non sai bene come collocare quei suoni spezzati, volutamente tronchi ed incompleti, da bambola meccanica; ne esce un crescendo che alterna passaggi più melodici, quasi dolci, mentre nel frattempo Westerhus sa bene quel che fa, rincorrendola, poi abbandonandola per inseguire il proprio personale discorso, che si ricongiunge solo alla fine con quello intimo di lei.

E, piano piano, sovvengono preghiere orientali, lingue letterarie, cyborg, messaggi alieni.

Il tutto è intriso di lirismo e di coraggio: coraggio di essere, di fare, di dire, di non dire. Di non farsi del tutto capire.

"Drawing an arc" inizia con suggestioni più piane, quasi soul, e la voce più libera viaggia leggera. Nulla di meccanico, se non le magie di Westerhus che piano costruisce una culla che "isterizza" via via il canto. à dolce, eclettica, strana ma tenera "Hector," un momento di respiro per chi ascolta, un momento di più facile decifrazione. Indefinibili trama e ordito tessuti piano da Westerhus nell'intro di "Limbs leaves and the snowmobile" che apre la strada ad una Sidsel a tratti aggressiva, a tratti quasi dimessa, che soffre questa volta su parole più compiute, concedendosi ad un quasi-dolore, esprimendo solo un po' la sua anima di disco rotto. Per "Wooing the Oracle" punk-rock pesante, chitarra tuonante e aggressività cristallina senza troppe mediazioni, se non l'uso inconfondibile degli effetti vocali.

Il cuore immacolato di "Immaculate Heart" è in realtà una foresta di spine, rumori, effetti speciali, parole strozzate: qui la voce, da pastosa e sensuale come sa essere a tratti, diventa estrema, volutamente sgradevole, essa stessa un effetto di distorsione, di pari passo con le distorsioni della chitarra, che segue e potenzia le grida che non riescono ad uscire. Disperazione o liberazione? Nulla di tutto questo, o forse entrambi, perché Didymoi Dreams è pura sperimentazione, con tutte le conseguenze che questo porta con sé: quindi piacevole sorpresa, imbarazzo divertito, stupore, incapacità di giudizio immediato. Ci sono passaggi che colpiscono con spigoli taglienti.

Ci sono dissonanze stridenti che possono lasciare spiazzati. È anche vero che finiti i 59 e poco più minuti del disco viene voglia di sentirlo di nuovo, perché rimane la sensazione di poter scoprire un frammento diverso di parola compiuta, o un'armonizzazione di passaggio prima sfuggita.

Può non essere, questa, una musica da tutti i giorni. E paradossalmente (essendo un live) è una musica da ascoltare da soli. O con qualcuno con cui ci si può concedere il lusso del silenzio e della riflessione condivisa.

Visita i siti di Sidsel Endersen e Stian Westerhus.

Track Listing

1. The Rustle of a Long Black Skirt; 2. Barkis Is Willing; 3. Drawing an arc; 4. Limbs Leaves and Snownmobiles; 5. Wayward Ho; 6. Hedgehumming; 7. Immaculate Heart; 8. Wooing the Oracle; 9. Hector; 10. Dreamwork; 11. The Law of Oh.

Personnel

Sidsel Endersen: voce; Stian Westerhus: chitarra.

Album information

Title: Didymoi dreams | Year Released: 2013 | Record Label: Rune Grammofon


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Iva Bittova

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