James Brandon Lewis: Days of Freeman
Una delle promesse più significative del jazz attuale pubblica il terzo disco da leader, confermando la formula del trio con un progetto e una partnership nuovi.
Se nel precedente Divine Travels (Okeh, 2014) aveva come padri tutelari William Parker e Gerald Cleaver in un percorso ispirato alla tradizione gospel, stavolta il sassofonista si rivolge al rap, rileggendo l'altra espressione musicale di rilievo della sua adolescenza. Prima il sacro, ora il profano.
In questo percorso la scelta dei colleghi non poteva risultare più indovinata. Jamaaladeen Tacuma al basso elettrico e Rudy Royston alla batteria interagiscono con James Brandon Lewis in modo superlativo, con un supporto ritmico riccamente frastagliato senza essere invadente: il basso elettrico ha un respiro voluminoso ed elastico mentre la batteria evidenzia scomposizioni ritmiche frammentate e incalzanti.
L'album si sviluppa in 17 tracce divise in quattro capitoli separati da altrettanti intermezzi (dove è protagonista la voce campionata della nonna di James, Pearl Lewis) più un'introduzione e un epilogo. Il primo è dedicato alla squadra cittadina di basket Buffalo Braves; il secondo s'ispira all'età dell'oro dell'hip-hop collocabile tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta; il terzo pone il rap nel continuum della musica afro-americana; il quarto dà voce alla fantasia, alla libertà d'esplorare.
"Non sono cresciuto all'ombra della cultura hip-hop -ha detto il sassofonista -ma quand'ero adolescente a Buffalo, New York e frequentavo la Freeman Street, il sound dell'hip-hop anni novanta era diffuso. Ho deciso di guardare a quel periodo attraverso la musica."
Il percorso del disco conferma le parole di Brandon Lewis: il rap è un riferimento centrale ma non esclusivo. Il sassofonista conferma tutto il bene che si dice di lui dimostrando di essere un veemente improvvisatore (qui il suo eloquio ricalca quello di un rapper) ma di possedere anche chiare doti progettuali, sapendo organizzare un'ampia gamma di riferimenti con fantasia. Tra questi resta centrale la relazione col free jazz storico ma Brandon mostra di non esserne soggiogato. Tutti i brani sono scritti e arrangiati da lui (eccetto la lirica "Bamako Love" di Don Cherry) dopo un lungo studio che l'ha portato a dissezionare album dei gruppi storici (Digable Planets, KRS-One, ecc...) ma anche di James Brown, Lauryn Hill, Medeski Martin & Wood.
Il risultato è appassionante. Attraverso James Brandon Lewis si rinnova lo spirito dei grandi. Il suo sax s'impone per i fervidi assoli ricchi di idee mentre la relazione con Tacuma e Royston garantisce un intenso e variopinto groove.
Se nel precedente Divine Travels (Okeh, 2014) aveva come padri tutelari William Parker e Gerald Cleaver in un percorso ispirato alla tradizione gospel, stavolta il sassofonista si rivolge al rap, rileggendo l'altra espressione musicale di rilievo della sua adolescenza. Prima il sacro, ora il profano.
In questo percorso la scelta dei colleghi non poteva risultare più indovinata. Jamaaladeen Tacuma al basso elettrico e Rudy Royston alla batteria interagiscono con James Brandon Lewis in modo superlativo, con un supporto ritmico riccamente frastagliato senza essere invadente: il basso elettrico ha un respiro voluminoso ed elastico mentre la batteria evidenzia scomposizioni ritmiche frammentate e incalzanti.
L'album si sviluppa in 17 tracce divise in quattro capitoli separati da altrettanti intermezzi (dove è protagonista la voce campionata della nonna di James, Pearl Lewis) più un'introduzione e un epilogo. Il primo è dedicato alla squadra cittadina di basket Buffalo Braves; il secondo s'ispira all'età dell'oro dell'hip-hop collocabile tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta; il terzo pone il rap nel continuum della musica afro-americana; il quarto dà voce alla fantasia, alla libertà d'esplorare.
"Non sono cresciuto all'ombra della cultura hip-hop -ha detto il sassofonista -ma quand'ero adolescente a Buffalo, New York e frequentavo la Freeman Street, il sound dell'hip-hop anni novanta era diffuso. Ho deciso di guardare a quel periodo attraverso la musica."
Il percorso del disco conferma le parole di Brandon Lewis: il rap è un riferimento centrale ma non esclusivo. Il sassofonista conferma tutto il bene che si dice di lui dimostrando di essere un veemente improvvisatore (qui il suo eloquio ricalca quello di un rapper) ma di possedere anche chiare doti progettuali, sapendo organizzare un'ampia gamma di riferimenti con fantasia. Tra questi resta centrale la relazione col free jazz storico ma Brandon mostra di non esserne soggiogato. Tutti i brani sono scritti e arrangiati da lui (eccetto la lirica "Bamako Love" di Don Cherry) dopo un lungo studio che l'ha portato a dissezionare album dei gruppi storici (Digable Planets, KRS-One, ecc...) ma anche di James Brown, Lauryn Hill, Medeski Martin & Wood.
Il risultato è appassionante. Attraverso James Brandon Lewis si rinnova lo spirito dei grandi. Il suo sax s'impone per i fervidi assoli ricchi di idee mentre la relazione con Tacuma e Royston garantisce un intenso e variopinto groove.
Track Listing
Foreword; Brother 1976; Of Dark Matter; Black Ark; Break I; Days of FreeMan; Bird of Folk Cries; Break II; Wilson; Lament for JLew; Break III; Bamako Love; Boom Bap Bop; Steelo; Break IV; Able Souls Dig Planets; Speaking from Jupiter; Unarmed with a Mic; Epilogue (Brother 1976).
Personnel
James Brandon Lewis: sax tenore; Jamaaladeen Tacuma: basso elettrico; Rudy Royston: batteria.
Album information
Title: Days of Freeman | Year Released: 2015 | Record Label: Okeh
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Tags
James Brandon Lewis
CD/LP/Track Review
Angelo Leonardi
Okeh
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William Parker
Gerald Cleaver
Jamaaladeen Tacuma
Rudy Royston
Don Cherry
James Brown
Lauryn Hill
Medeski, Martin & Wood
Days of Freeman