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Dave Douglas, direttore artistico di Bergamo Jazz Festival

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Basta un'occhiata veloce al programma di Bergamo Jazz 2017 per rendersi conto di alcune prerogative caratterizzanti. Innanzi tutto spicca la diffusione degli eventi in diversi spazi della città, più che nelle edizioni passate. Ai collaudati luoghi da concerto principali, in primis l'Auditorium di Piazza della Libertà e il Teatro Sociale, oltre al prestigioso Teatro Donizetti, si aggiungono sedi inedite, come la Biblioteca Angelo Mai e l'Accademia Carrara, riaperta un paio d'anni fa dopo un radicale riallestimento. Inoltre emerge l'impostazione della programmazione artistica, tesa a indagare in diverse aree espressive, assetata di varietà e attualità. Vengono quindi presentati il britannico Andy Sheppard e il norvegese Christian Wallumrod, Marilyn Mazur e i due Parker (Evan e William), Bill Frisell e molti rappresentanti del jazz lombardo... Dell'impegno organizzativo, degli obiettivi e dei criteri generali di tale programmazione abbiamo parlato con Dave Douglas: il trombettista americano è stato nominato per il secondo anno consecutivo direttore artistico del festival, che dopo l'anteprima del 19 marzo prenderà il via il 23 per concludersi il 26 del mese.

All About Jazz: Come direttore artistico di Bergamo Jazz Festival quali obiettivi e criteri hai tenuto presente per invitare i gruppi?

Dave Douglas: Per me l'obiettivo più importante è usare al meglio lo spazio. Naturalmente il Teatro Donizetti è un ambiente bellissimo, per cui penso che sia veramente importante programmare della musica che possa risaltare bene in quel contesto. Ma è stata una buona idea quella di diffondere il festival in nuovi spazi della città. Che si tratti di una biblioteca o di un convento, l'obiettivo è sempre quello di trovare il suono ideale per quello spazio. La sonorità è tutto. Inoltre penso che sia importante cercare di cogliere il più possibile la dimensione della spinta creativa all'interno della musica attuale. Si tratta di un festival di jazz ed è importante essere a conoscenza di tutti i diversi percorsi presi dalla musica proveniente dal jazz.

AAJ: Sei anche il direttore del Festival of New Trumpet Music che si svolge annualmente a New York. Quali differenze e analogie ci possono essere fra questi due eventi?

DD: Questi due festival sono in effetti molto diversi fra loro. Innanzi tutto l'incarico del Trumpet Festival, che non è un festival jazz, prevede di presentare trombettisti di ogni ambito musicale. Si tratta di un festival che sostiene la cultura della pratica dello strumento; pertanto presentiamo solo progetti focalizzati sulla tromba. Quello di Bergamo è invece un festival jazz e l'idea è presentare un campione il più ampio possibile di musica e musicisti. Nel caso di Bergamo poi c'è un sostegno generoso da parte della città e del teatro, che rappresenta una parte piuttosto importante di ciò che facciamo.

AAJ: Negli ultimi dieci anni tre trombettisti hanno diretto il festival di Bergamo. È solo un caso o pensi che ci possano essere delle ragioni precise?

DD: Vero, ma non dimentichiamo che anche Uri Caine ne è stato direttore artistico. Non credo che ci sia alcuna ragione per cui tre dei direttori sono anche trombettisti. Può esserci forse il motivo che i trombettisti sono leader naturali! Ma molto onestamente non penso ci sia una qualche ragione.

AAJ: In fase di stesura del programma del festival hai ricevuto suggerimenti, richieste, pressioni da parte di musicisti, manager o uomini politici?

DD: Accolgo volentieri i suggerimenti; sarebbe folle pensare che so tutto solo io. Perciò soppeso tutte le cose che sento e le proposte che ricevo. La parte più difficile è quando devo dire di no a progetti degni; quello è sempre un dispiacere per me. L'obiettivo principale è organizzare un festival equilibrato, interessante e diverso. Con la giusta musica nel giusto spazio.

AAJ: Per molte ragioni oggi molti festival jazz presentano anche rock, pop music, musica brasiliana... Cosa che non capita a Bergamo; è dovuto a una tua scelta precisa?

DD: Sì, percepisco che a Bergamo c'è una reale curiosità culturale. La sensazione che io ricevo da tutti coloro che sono implicati, a qualsiasi livello, è di esigere la più alta qualità musicale e una profonda curiosità per i nuovi sviluppi e le sonorità attuali. Come pure la disponibilità ad andare più a fondo nel significato della musica di quanto possiamo già conoscere. Qual è il significato di ciò che presentiamo e perché lo presentiamo? Questo è ciò che intendo per curiosità culturale. Nell'accettare questo incarico, posi alcune domande su questo tema; sento che l'atteggiamento è molto caldo, aperto e generoso e sono pieno di gratitudine per questo.

AAJ: ...Ma come definiresti oggi il jazz?

DD: Se me lo si concede, non mi addentrerei nella definizione di cosa sia il jazz oggi! La definizione del jazz sta nelle mani dei vari musicisti che lo suonano.

AAJ: Ci sono gruppi o musicisti che avresti voluto invitare, ma non hai potuto? E perché no?

DD: Ci sono sempre gruppi che mi piacerebbe invitare ma non riesco. Qualche volta è per via delle disponibilità di calendario. Tal'altra scopro che nella storia del festival essi hanno già partecipato in passato. Altre volte ancora non riesco a intonare il tipo di sound con uno spazio appropriato. Per molte ragioni si tratta sempre di un grande puzzle per trovare il giusto equilibrio sotto tutti i punti di vista. Per esempio un altro aspetto che pensavo fosse importante è quello di aumentare la partecipazione di musicisti della zona. Quest'anno provvediamo a questo; non si può aspettare oltre.

AAJ: Come musicista, quali sono i festival sparsi in tutto il mondo in cui tu preferisci suonare?

DD: Oh, tanti! Il mio preferito, come probabilmente sai, è il Suono delle Dolomiti in Trentino. Ma ovunque ci sono situazioni eccellenti: a Seattle, Portland, Londra, San Sebastian, Varsavia... E potrei andare avanti... Proprio il mese scorso ho suonato con la mia band High Risk a Bismarck, nel Nord Dakota. È stata una meravigliosa sorpresa!

AAJ: Durante i concerti percepisci differenze fra il pubblico americano e quello europeo?

DD: C'è una grande differenza fra il pubblico americano e quello europeo. Come fra una nazione e l'altra in Europa e fra stato e stato in America. Direi che la maggior differenza che noi sentiamo dal palco è il livello di partecipazione del pubblico. Quella sensazione cambia da città a città, da sede a sede. C'è poi il problema della lingua: se si sa parlare la lingua del posto si può stabilire un buon rapporto. Al contrario, talvolta trovo che se non so la lingua subentra un altro tipo di alchimia. È il nostro lavoro che deve trasformare quell'energia in grande musica.

AAJ: Di solito preferisci esibirti in grandi festival o in piccoli club? Fra questi quali sono i migliori secondo la tua esperienza?

DD: In tutta onestà devo dire che il Teatro Donizetti è uno dei miei spazi preferiti per suonare. Riguardo ai club, ce ne sono di ottimi su e giù per l'Italia. Per rimanere in patria il mio preferito è il Village Vanguard.

Foto: Roberto Cifarelli

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