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Dario Giovannini: molto più che rock

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La Romagna è una terra di provincia: molto vitale e pullulante di varie espressioni musicali e artistiche in genere, ma che di solito si fermano alla dimensione amatoriale o, anche se vanno oltre, raramente raggiungono il traguardo dell'originalità e della significatività. Spesso, specie nella musica, chi vuole fare il salto di qualità e uscire dalla zona grigia dell'anonimato deve anche migrare verso le grandi città, più ricche di opportunità e di fermenti innovativi, dove le cose nascono e non vengono semplicemente imitate.

In questo panorama però esistono e resistono alcune realtà che hanno coltivato con energia e pazienza un proprio personale itinerario creativo, senza l'aiuto che può venire da un clima culturale affine e dagli spazi e opportunità di crescita offerti dalle grandi città.

In ambito teatrale i nomi che spiccano sono senz'altro la Societas Raffaello Sanzio e il Teatro della Valdoca (ma non solo quelli); nomi che un po' alla volta si sono guadagnati un'attenzione e un apprezzamento che va oltre i confini nazionali.

Nella musica, e in particolare nel rock, c'è l'esempio degli Aidoru.

Il loro percorso comincia negli anni '90, quando quattro amici adolescenti si mettono insieme per suonare (neo)punk, sulla scia del punk revival californiano dell'epoca, oltre al riferimento all'immancabile icona dei Sex Pistols. Il gruppo, dal nome di Konfettura, riscuote apprezzamento soprattutto nel circuito dei centri sociali e dei club di genere, facendo da supporter anche a band americane, ma il tutto potrebbe esaurirsi nell'ambito dei gruppi giovanili e delle realtà di base, da cui la maggior parte dei protagonisti non riesce poi a spiccare il salto per passare a un livello superiore, tanto più nella scena musicale romagnola.

Invece i Konfettura hanno la forza di fare questo salto. Forte anche degli studi da pianista classico del chitarrista e cantante Dario Giovannini, portati avanti parallelamente, il gruppo alla fine degli anni '90 prende il nome di Aidoru e imbocca un percorso musicale molto più ricco e articolato, influenzato in prima battuta soprattutto dalle suggestioni del post-rock statunitense, ma che un po' alla volta ha raggiunto un indiscutibile livello di personalità e maturità.

Un ruolo importante in questa maturazione l'ha giocato anche l'incontro col teatro, forse non a caso proprio con quella compagnia della Valdoca a cui abbiamo accennato prima. Gli Aidoru partecipano ad alcuni spettacoli della compagnia come musicisti di scena e l'esperienza teatrale lascerà un'impronta indelebile sul loro modo di concepire il fare musica e lo stare in scena.

Con all'attivo tre album (più un quarto non uscito ufficialmente), gli Aidoru si sono ora cimentati con un'operazione ambiziosa: la rilettura del Tierkreis di Karlheinz Stockhausen; operazione indubbiamente rischiosa e tutt'altro che pacifica, ma che il gruppo ha superato brillantemente proprio rimanendo fedele alla propria personale concezione musicale e alla propria sensibilità.

Il gruppo ha anche dato vita ad un'associazione omonima, che negli ultimi anni ha organizzato a Cesena un evento chiamato Itinerario Festival, che si propone di sposare la musica, il teatro e le arti col paesaggio urbano e naturale, peerché questi ultimi non siano solo uno sfondo casuale dell'attività artistica bensì una dimensione da cui il fare arte trae senso e ispirazione.

Dall'esperienza teatrale e da quella del festival sono nati anche due progetti di "musica nella città" che vedono Dario Giovannini come principale animatore: i Carretti musicali e il Coro corridore. Così come le tematiche di Itinerario Festival hanno fortemente segnato e influenzato la concezione e la sonorità dell'ultimo album pubblicato dal gruppo: Songs Canzoni - Landscapes Paesaggi.

Il prossimo progetto più a breve scadenza dell'associazione è una performance per orchestra di cinquanta chitarre e bassi elettrici, "Soli contro tutti," che avrà luogo il 9 luglio in piazza Ganganelli nell'ambito del XL Festival dei Teatri di Santarcangelo di Romagna, per il quale è aperto il bando di partecipazione fino al 14 giugno.

Abbiamo fatto una chiacchierata con Dario Giovannini, chitarrista, pianista, tastierista, fisarmonicista e cantante, compositore e mente degli Aidoru e animatore dei progetti dell'omonima associazione, già collaboratore del Teatro Valdoca come musicista di scena e compositore; con lui abbiamo parlato della sua duplice formazione di musicista rock e classico, del percorso degli Aidoru, dell'importanza del teatro in questo percorso, dell'Itinerario Festival e degli altri progetti in cui Dario è impegnato, dal Coro Corridore alla performance per orchestra di chitarre.

All About Jazz: Tu hai avuto due percorsi di formazione e di crescita, uno accademico da pianista classico e l'altro da chitarrista rock, che sono andati in parallelo. Hai trovato conflitti fra le due strade, conflitti d'identità sul tuo ruolo, o le hai sempre vissute come complementari o addirittura integrate?

Dario Giovannini: Una cosa abbastanza strana è il fatto che nei miei primi ricordi di quando ero bambino, che risalgono ai quattro o cinque anni, il pianoforte lo suonavo già. Una cosa a cui quindi penso spesso è che non mi ricordo come ho imparato a suonare; non mi ricordo di aver iniziato. E questa in effetti è una cosa che mi spiazza un po,' ed è anche uno dei motivi per cui faccio fatica a insegnare. Non ho un meetodo chiaro in testa, per me è una cosa spontanea; per cui per es. quando insegno non capisco come mai certe cose non siano naturali anche per gli altri. Questa in effetti è una cosa un po' strana, e infatti, andando avanti nel tempo, di fatto io non ho studiato musica classica. La situazione è un po' come avere dei libri in casa su cui tu hai imparato a leggere; ce li hai lì, e se sei curioso a un certo punto impari a leggerli; io la stessa cosa l'ho fatta con la musica, per cui nella mia testa non era uno studio, un apprendimento o una formazione; per me era semplicemente un percorso di conoscenza che portavo avanti naturalmente. Per cui quando ho iniziato a suonare nei miei primi gruppi (anzi, nel mio unico gruppo, che allora erano i Konfettura) quello per me forse è stato il primo momento in cui consapevolmente e volontariamente ho cominciato a fare della musica in un certo modo. Quindi in realtà forse è stata quella la mia vera formazione, il rock è dove ho imparato - e mi ricordo come ho imparato -, tutto il resto è stato più una cosa naturale. Chiaramente sono cresciuto in una casa dove c'era la musica, c'erano gli strumenti, e quando i miei genitori hanno visto che cominciavo ad andarci attorno, mi hanno insegnato le prime cose. Di fatto quindi non c'è stato un conflitto fra l'esperienza "rock" e lo studio accademico, e soprattutto non c'è stato un binario parallelo, perché uno, quello dello studio, era già formato mentre l'altro era tutto da imparare.

AAJ: È stato così fino alla fine? Voglio dire, capisco questa naturalezza guadagnata grazie all'apprendimento fin dalla tenera età, però comunque dieci anni di pianoforte richiedono inevitabilmente disciplina e fatica. Oppure per te è stato sempre naturale e spontaneo?

D.G.: No, certo, ore di studio sul pianoforte, quelle sicuramente. Però diciamo che fino ad un certo punto l'ho vista come una cosa separata dall'altra, come dire la scuola e la musica; da una parte porti avanti una cosa che devi portare avanti, magari senza neanche sapere benissimo il perché, dall'altra parte invece c'è quello che proprio vuoi fare; però non ho vissuto un conflitto per sovrapposizione di disciplina, ho vissuto più due cose separate. E poi a un certo punto mi sono accorto che queste due cose erano la stessa cosa. Infatti il momento in cui ho iniziato a riflettere su questa cosa è stato l'inizio di tutto il percorso di contaminazione che poi c'è stato; diciamo che da quel momento in poi ci siamo chiamati Aidoru.

AAJ: Uno dei pregi maggiori della musica tua e degli Aidoru è la chiarezza ed eleganza compositiva. La composizione con gli Aidoru è più un processo collettivo o un lavoro individuale tuo o degli altri membri del gruppo?

D.G.: Fino a quest'ultimo disco è stato un lavoro di composizione quasi a tavolino; i pezzi venivano portati già praticamente pronti, e poi si trattava di arrangiarli e trovare delle soluzioni, come si fa normalmente, forse più che altro nel pop, dove uno arriva già col pezzo pronto, con delle idee a livello di arrangiamento basilare, e poi si lavorano assieme. Invece l'ultimo disco è stato assolutamente un work-in- progress che è nato da prove, in cui sono nate le prime cellule da cui si sono sviluppati poi i brani.

AAJ: In effetti si sente che l'ultimo album è molto diverso dai precedenti, per quanto riguarda la struttura dei brani e il modo di concepirli...

D.G.: Esatto. Comunque per noi è una cosa recentissima questa del partire da zero tutti assieme; in realtà prima era sempre stato un lavoro mio di composizione, e poi dopo di arrangiamento insieme agli altri, ma quando ormai la stesura del brano era fatta. In effetti questo nuovo metodo è nato lavorando col teatro, perché nel momento in cui facevamo le prove teatrali eravamo costretti a improvvisare, a fare delle cose da zero, e ci siamo accorti che venivano fuori delle cose anche molto interessanti; per cui questo disco è nato proprio dalla volontà di concentrarci su questo lato che non avevamo mai approfondito.

AAJ: Come affronti tu la composizione? Ti muovi partendo da suggestioni emotive o da idee? Sei più intuitivo ed istintivo o mentale e progettuale?

D.G.: Be,' i miei compositori preferiti sono Bach, Chopin e Mahler, e secondo me c'è una cosa che li accomuna molto, ed è una cosa su cui cerco di basarmi anch'io: io ci vedo una grossa padronanza formale, ma allo stesso tempo una grande elasticità; a livello percettivo i conti tornano sempre, ma non riesci mai a capire esattamente perché. E questa è la cosa che mi affascina di più dell'arte, quando avverti una perfezione ma non riesci mai a capire esattamente perché. Mi sembra un po' anche il principio della natura, che è evidentemente una cosa formalmente bellissima ma non è schematicamente perfetta; cosa che invece altri compositori hanno fatto, un paragone può essere magari fatto con Brahms, che era un compositore molto razionale, ha scritto delle cose molto belle, ma che secondo me hanno un po' quel limite, quello dell'evidenza della forma; a me quello non è mai piaciuto, per lo meno a livello teorico, poi ci sono delle cose che effettivamente mi piacciono, ma è un altro discorso. Io cerco in qualche modo di strutturare i brani in quel modo che ho detto; penso che un po' sia una questione di lasciarsi andare all'istinto, pur avendo una consapevolezza dei mezzi che stai utilizzando.

AAJ: Tu ti muovi in vari ambiti: rock indipendente, pop, musica di ricerca, teatro, in parte e ogni tanto ambiente musicale più accademico. Come ti trovi a convivere con questi ambienti diversi? Cambia il tuo approccio, sei costretto ad eliminare di volta in volta aspetti della tua personalità o del tuo modo di fare musica, oppure lo trovi naturale?

D.G.: L'ambito accademico, come hai detto anche tu, è una cosa che praticamente ho abbandonato; l'esecuzione di opere già scritte è una cosa che non m'interessa, il che non vuol dire che non mi piaccia, ma comunque cerco di non portarla avanti, faccio in modo che non accada. Peer quanto riguarda il resto, credo di aver selezionato abbastanza bene le cose da fare, anche se sono diverse. Uno dei motivi per cui faccio cose tanto diverse credo che dipenda dal fatto che viviamo in un luogo piccolo dove ci si conosce un po' tutti; non è come stare in una grande città, in cui si creano delle scene e magari ti ritrovi a fare le stesse cose con persone diverse. Secondo me siamo in una zona in cui ci si contamina tanto a vicenda, e questa cosa a me piace molto. Forse se vivessi a New York non mi capiterebbe di conoscere un produttore di musica pop; vivendo a Cesena e in generale in Romagna, invece conosco quelli che fanno metal, quelli che fanno punk, quelli che fanno lounge, quelli che fanno elettronica, e in qualche modo una collaborazione ci scappa sempre. Penso che questa possa essere una tipicità di un luogo piccolo e devo dire che mi piace molto. E' chiaro che poi ti vai anche a selezionare le persone con cui puoi avere un margine di libertà maggiore; per esempio, è ormai da tre anni che collaboro con un produttore che fa prevalentemente pop messicano, che è lo stesso produttore che ha prodotto John De Leo, e adesso ha prodotto Anna Oxa. Io lavoro con lui perché so che mi fa lavorare come voglio io; è chiaro che se non ci fossero queste condizioni farei molta fatica. Quindi in questo senso penso che si possa mantenere quel tipo di sensibilità nei confronti della musica senza la quale diventerebbe un puro e semplice lavoro; e quindi in questo senso penso che si possa mantenere una propria personalità, anche se ovviamente la vai a mescolare con quella degli altri, e quindi i risultati finali sono diversi dal tuo punto di partenza. Ma penso anche che se si va ad ascoltare a fondo, dei tratti comuni si trovano anche in queste cose diverse; questo per es. secondo me vale con gli Aidoru e i Marquez: ci sono molte cose in comune, ma sono mischiate con persone diverse, e quindi il prodotto finale è diverso e infatti ha anche una collocazione completamente diversa.

AAJ: Che bilancio fai dell'esperienza degli Aidoru a questo punto del vostro percorso, con l'album Songs.. da poco alle spalle e il progetto Tierkreis in corso? In quale direzione ti piacerebbe proseguire?

D.G.: Tierkreis lo stiamo portando avanti e vogliamo farne un album per fissarlo. A me piacerebbe anche creare un filone in questo senso: andare a pescare opere del repertorio classico, non necessariamente contemporaneo, che si possano prestare a questa specie di rivisitazione. Mi piacerebbe proprio che alternassimo dischi originali a dischi di "cover" come questo di Stockhausen, proprio per rimarcare questa volontà di unione di questi due mondi. Invece per quanto riguarda il progetto Songs - Landscapes... ne abbiamo in cantiere tre versioni: la prima in ordine di tempo è una produzione video che realizzeremo in giugno a Riccione; si tratta di unire all'album il suo immaginario visivo. Questa è la cosa a cui tenevamo di più perché pensiamo che la suggestione visiva in questo album sia fondamentale. A luglio poi ci sarà il debutto di un progetto speciale, grazie all'opportunità offertaci da un festival di Nettuno. Abbiamo deciso di spezzare in due il concerto di Songs - Landscapes e questo nasce da una riflessione sulla diversità delle due parti del progetto. La prima è sicuramente più tipica per una dimensione live, mentre la seconda è più difficile da gestire in quella situazione, perché la dimensione del concerto è comunque legata al concetto di canzone, per tipologia di spazio, di pubblico e di fruizione; è lo spazio che condiziona il concerto, e se fai un concerto di soli paesaggi sonori inevitabilmente risulta pesante. Quindi vogliamo provare a spezzarlo e fare la prima parte, quella delle "canzoni," in un luogo normale da concerto, e la seconda parte, quella dei "paesaggi," immersi nella natura. Per fortuna è capitato questo festival che è disponibile ad accogliere il progetto e quindi riusciremo a realizzarlo. La cosa bella è che anche i paesaggi saranno amplificati, utilizzeremo delle forze locali per fare un suono un po' più complesso. Infine, ad ottobre si realizzerà un altro sogno, che è quello di trovare un'unione fra le parole che accompagnano il booklet del cd e la musica; per cui lavoreremo con un attore con cui abbiamo già lavorato nella Valdoca, Leonardo Delogu. Lo spettacolo debutterà al teatro di Sogliano. Come vedi quindi ci stiamo concentrando su tutti gli aspetti di questo disco, per cui non abbiamo assolutamente pensato al dopo; anche perché ad ottobre uscirà il disco di Tierkreis, quindi di un nuovo disco non se ne parlerà prima del prossimo anno.

AAJ: Il Tierkreis sarà registrato in studio oppure utilizzerete le registrazioni dei concerti?

D.G.: Sarà registrato in studio. Per la pubblicazione portiamo avanti la collaborazione con la Trovarobato (etichetta del gruppo Mariposa di Bologna, per la quale è uscito anche Songs..., n.d.r.), visto che la Ecm non ci ha voluto... scherzo!

AAJ: Parlami del progetto dell'orchestra di chitarre e bassi elettrici per la performance al Festival dei teatri di Santarcangelo di Romagna.

D.G.: Il pretesto del progetto è stato il quarantennale della morte di Jimi Hendrix che cade quest'anno. Io penso che Jimi Hendrix sia stato fondamentale e lo adoro, ma penso anche che la sua figura abbia creato un mostro, cioè il cliché del chitarrista "alla Jimi Hendrix"; e un chitarrista rock che inizia a suonare in qualche modo ha quel cliché in testa, ed è durissimo toglierlo, perché è stata una figura talmente forte che ha segnato il tempo e ha creato in qualche modo un luogo comune.

AAJ: Forse più che Jimi Henddrix di per sé è stato quel periodo che ha creato quella figura di chitarrista e il cliché è venuto poi dagli epigoni deteriori.

D.G.: Sì, diciamo che Jimi Hendrix è un po' l'icona. Lo scopo di questa orchestra di chitarre è proprio quello di mettere il chitarrista di fronte a un'esperienza "tragica," perché trovarsi in un'orchestra è un po' l'esatto opposto di trovarsi "solo". Secondo me c'è bisogno di una concezione diversa del solismo; io trovo che nel rock, anche se sei in un gruppo c'è sempre del solismo; secondo me un gruppo invece dev'essere "insieme," e non insieme semplicemente perché va a tempo, ma perché ci dev'essere un messaggio comune, una riflessione comune, una ricerca comune. Questa cosa non viene insegnata in nessuna scuola; l'unica in cui effettivamente viene insegnata è la scuola accademica, dove ti devi relazionare col lavoro d'orchestra; ma d'altra parte nell'accademia c'è un'arretratezza assoluta rispetto all'insegnamento. Invece nel rock o comunque nel mondo non accademico c'è una dimenticanza di questa dimensione del lavoro d'insieme. Quindi la nostra idea forse è un tentativo di far incontrare le due cose, cercare d'insegnare una cosa, che alla fine è molto semplice, a tutti questi chitarristi: l'idea di essere inserito in un contesto più grande di te. E' una cosa che per certi aspetti ha un senso anche filosofico e non solo musicale, serve tantissimo per riflettere su determinate questioni. Forse esagero un po' nel dire questo, però a me piace vedere le cose con una prospettiva ampia, fare in modo che abbiano veramente senso; non solamente un laboratorio in cui s'impara a suonare assieme, ci sono degli incastri ritmici carini che si possono sfruttare in altre situazioni, o degli sfasamenti che creano delle complessità ritmiche, e basta; non è semplicemente una cosa tecnica, vorrebbe essere anche un'esperienza che può servire ad aprire la mente.

AAJ: Perché avete deciso di rivolgere il progetto anche al basso e non solo alla chitarra?

D.G.: Soprattutto per un discorso di affluenza, visto che vogliamo raggiungere un numero ampio di elementi; abbiamo pensato che il basso può essere adatto al discorso, perché dal punto di vista estetico e scenico (visto che la performance vuole avere anche questa dimensione) il basso è equivalente alla chitarra, e anche la funzione che ha all'interno del gruppo è assimilabile.

AAJ: Ma il basso non è invece lo strumento meno solista che ci sia in un gruppo rock standard?

D.G.: Per "solista" però io non intendo "fare gli assoli"; intendo piuttosto avere una connotazione timbrica solitaria, non appartenere a un timbro più complesso. In questo senso tutti gli elementi di un combo rock sono "soli," anche la batteria e la voce. L'idea l'abbiamo pensata per chitarristi e bassisti perché nella performance ci sarà anche un gioco scenico, di movimento, e non potevamo mettere batterie o tastiere, sarebbe stato troppo snaturante nei confronti dell'idea originaria dell'installazione. Anche l'installazione, oltre a un valore musicale, avrà anche un valore di apertura a una città. La prima cosa che dirò a questi ragazzi sarà che nel momento in cui parcheggeranno la loro macchina e imbracceranno il loro strumento inizierà la loro performance; i partecipanti attraverseranno la città da diversi punti, arriveranno alla loro postazione e cominceranno a suonare. Per cui tutto partirà da prima, e questo è un modo semplice per trasmettere una cosa che mi ha insegnato il teatro: nel momento in cui tu varchi la soglia del palcoscenico, stai già "suonando"; questa è una cosa che serve moltissimo per raggiungere un alto grado di concentrazione quando andrai a suonare, e soprattutto non è scontata. Dopo aver fatto un po' di esperienza e di riflessioni in questo senso, mi sono accorto che prima io vedevo gruppi alle prime armi e gruppi che invece mi affascinavano, e mi chiedevo cos'era che mi affascinava: possibile che fosse solo perché non erano dilettanti? Poi mi sono accorto che la differenza stava nella consapevolezza della scena o nella sua mancanza; e questa consapevolezza è una cosa che o ce l'hai innata oppure la devi apprendere. Ed è una cosa che veramente incide tantissimo anche sull'impatto che un gruppo ha sul pubblico; per cui anche questa sarà una parte fondamentale del lavoro nel laboratorio.

AAJ: A proposito della scena, sta proseguendo anche la tua esperienza teatrale? Che progetti hai?

D.G.: L'esperienza teatrale adesso la sto portando avanti coi due progetti "Carretti musicali" e "Coro corridore" con il quale sono in tour. Con la Valdoca ero al servizio della visione di un'altra persona; invece "Carretti musicali" e "Coro corridore," pur essendo un'idea di questa persona, cioè Cesare Ronconi (regista della compagnia del Teatro Valdoca, n.d.r.), sono comunque dei progetti che abbiamo sviluppato e creato autonomamente; in qualche modo si legano a tutto il pensiero che abbiamo sviluppato intorno al festival (Itinerario Festival, organizzato a Cesena da Aidoru Associazione, n.d.r.): cioè la volontà di non chiudere più il teatro e gli eventi in dei luoghi deputati, ma invadere e rapportarsi all'architettura di una città e al paesaggio urbano. Quindi questi due progetti nascono proprio in quel senso e finalmente sono dei progetti assolutamente in linea con quello che abbiamo cercato di trasmettere con quello che abbiamo organizzato in questi anni; quindi a livello teatrale ci stiamo concentrando su questa cosa. Se la tua domanda era se ho in cantiere delle collaborazioni con un altro regista, la risposta è no, sicuramente per un po' di tempo.

AAJ: Parlami un po' di più del Coro, visto che lo state portando in tour adesso. Com'è nata l'idea e come sta andando il tour?

D.G.: Per parlare del Coro devo per forza parlare dei Carretti. I Carretti sono nati dalla volontà di poter suonare ovunque. Il primo step è stato quello di portare un concerto in un contesto urbano, e questo è quello che abbiamo fatto con Itinerario Festival; il passo successivo è stato quello di portare un concerto in un contesto urbano, ma con la possibilità di muoversi per la città, e quello sono stati i Carretti, che possono suonare ovunque perché sono autoalimentati con batterie da automobile. Il terzo step è nato da una lacuna che avevano i Carretti, cioè la possibilità di essere completamente mobili col proprio strumento e suonare ovunque: dentro un negozio, subito dopo in un bar, sotto un portico, in mezzo alla strada, sotto una galleria, dentro una macchina... Il senso del nostro spettacolo è quello: possiamo suonare ovunque, non abbiamo nessun tipo di limite, d'ingombro, di vincolo, possiamo fare quello che vogliamo. Questo per noi è la summa massima dell'immersione in una città. Oggi eravamo a Verona e qui è stato un po' un caso particolare, perché c'erano delle disposizioni comunali che ci hanno limitato, ma non dipendeva da noi; se ci fosse stata libertà completa noi avremmo potuto suonare ovunque. E soprattutto in questo modo scopri una città e la fai scoprire anche agli abitanti e passanti, facendo un po' il regista degli sguardi, sia dei tuoi che di quelli del tuo pubblico. Questa cosa mi affascina molto ed è stato proprio il pensiero con cui è nato questo progetto, che paradossalmente ormai vive la musica quasi a un livello secondario.

AAJ: Questo progetto ha un po' la forma dell'incursione nei luoghi della città. Visto che ormai siete avanti nel tour, che bilancio fai delle reazioni della gente ai vostri interventi?

D.G.: La reazione di base, che accomuna veramente tutti, è che se le persone sono in poche s'imbarazzano tantissimo: si sentono aggredite, non sanno come gestire la situazione, a volte reagiscono male ecc. Ne vedi veramente di tutti i colori. Invece se c'è tanta gente, si lasciano andare e come si dice dalle nostre parti "scatta la bolgia". Questa è una cosa evidentissima: quando la gente si sente sicura in mezzo ad altra gente si lascia andare, quando si sente sola s'imbarazza e non sa come reagire. Questa è una cosa molto interessante dal punto di vista sociologico e psicologico: non siamo per niente diversi dalle pecore... Ragioniamo, parliamo, facciamo dei pensieri, ma quando si tratta d'istinto siamo veramente delle pecore. E il bello del Coro è che spiazza, perché non è che arrivi, monti, ti prepari, per cui la gente ha tempo di capire e abituarsi alla cosa; no, lì arrivi e suoni, e lì allora scatta l'istinto. I bambini invece reagiscono sempre bene, e poi le persone down, che vedi propio che si lasciano andare. Abbiamo vissuto davvero dei momenti bellissimi, perché incontri delle situazioni che non potresti incontrare in un teatro; per strada invece le incontri tutte e vedi le differenze. Comunque la persona evoluta ha degli scogli insormontabili dal punto di vista istintivo.

AAJ: Parlami un po' dell'esperienza Marquez. A parte l'amicizia che vi lega fin dall'adolescenza, quale esigenza vi ha portato a formare un gruppo?

D.G.: In realtà non è stata una decisione in questi termini. Io con gli Emmevubi (gruppo dal quale provengono Andrea e Antonio Comandini dei Marquez, n.d.r.) da un certo momento in poi ho cominciato a suonare in maniera quasi fissa: Andrea mi chiamava per fare gli arrangiamenti, oppure per suonare, o per fare i pianoforti o la seconda chitarra; quindi da un certo punto in poi è venuto naturale. A un certo punto è andato via Fabio (bassista degli Emmevubi, n.d.r.), io ero già dentro il gruppo, e allora abbiamo chiamato Michele (Bertoni, chitarrista degli Aidoru, n.d.r.) perché ci serviva un bassista; mi sa che Mirko (Abbondanza, bassista degli Aidoru, n.d.r.) in quel momento stava lavorando e non poteva venire, altrimenti forse sarebbe venuto lui. Di fatto c'è l'unione di queste due realtà, ma la nascita è stata assolutamente un caso: non è che un giorno ci siamo svegliati e abbiamo detto "perché non facciamo un gruppo assieme?". Assolutamente no, è stato u percorso naturale.

AAJ: Per finire, so che c'è in cantiere un tuo progetto solista; dimmi qualcosa...

D.G.: Sì, il progetto c'è già, l'ho già strutturato. E' un progetto molto semplice, di canzoni, forse da un certo punto di vista era la cosa meno interessante che potevo fare, però anche questa è una cosa che mi piace fare. E' da tempo che scrivo e adesso che il numero delle canzoni ha raggiunto un numero sufficiente per fare un disco mi piacerebbe lavorarci. La cosa brutta è che lo metto sempre in secondo piano perché sono da solo, e con gli altri gli impegni li prendi mentre con te stesso fai più fatica.

AAJ: Invece Itinerario Festival quest'anno ci sarà?

D.G.: Il festival quest'anno si farà a ottobre, l'1 il 2 e il 3, in concomitanza con la notte bianca di Cesena per ammortizzare le spese, perché con quello comunque dobbiamo fare i conti. Sostanzialmente portiamo avanti tutto quello che abbiamo sempre cercato di dire. Utilizzeremo degli spazi nuovi, cercheremo di dargli una nuova forma e una nuova vita; cercheremo di far riflettere sul fatto che o non vengono utilizzati o vengono utilizzati in modo forse sbagliato. Questa per noi è la cosa importante, non abbiamo mai dato importanza ai nomi, perché non è quello che c'interessa e penso che sia abbastanza evidente. Poi che dire? Ci vorrebbe un'intervista a parte per parlare del festival, perché è uno di quei tasselli che ha cambiato il nostro modo di pensare. Il primo è stato l'apertura al teatro, l'assunzione di un metodo drammaturgico e un nuovo modo di direzionare i flussi emotivi; il festival poi è stato una spaccatura definitiva col passato, una riflessione sul paesaggio, un nuovo sentire su quello che ti sta vicino, sia a livello umano che naturale che architettonico, che può rappresentare una sorta d'incontro fra l'umano e la natura. Infatti l'ultimo disco (Songs - Landscapes, n.d.r.) è stato il primo dopo il festival e non a caso è così diverso dai precedenti, perché in mezzo sono successe tutte queste cose.

Foto di Claudio Casanova (Aidoru e Giannini).


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