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Da/per Kerouac

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Per gentile concessione dell'autore, riproponiamo per Déjà lu questo breve intervento di Paolo Fresu, che costituisce la prefazione al libro di Jack Kerouac "L'ultima parola: In viaggio. Nel jazz," riedito in Italia a cura di Alberto Masala, Il Maestrale, Nuoro 2003.

Questa raccolta di scritti sul jazz (e non solo) aggiunge un tassello importante alla storia di un'epoca dove il jazz, negli Stati Uniti, padroneggiava con il suo linguaggio rivoluzionario a cavallo tra gli anni Quaranta e Cinquanta.

Pur trattandosi di lavori giovanili (di un Kerouac più o meno venticinquenne appassionato di jazz e totalmente ammaliato da questa musica), questi documenti hanno un valore storico e poetico notevole. Nonostante siano semplici cronache di concerti o puntigliose critiche discografiche pubblicate in riviste specializzate tali appunti mostrano la straordinaria capacità di Kerouac nel cogliere la realtà (repentinamente flessa verso l'irreale) con un linguaggio aspro e veloce, vero ma allo stesso tempo volutamente distorto.

"Nel momento in cui abbiamo aperto la porta massiccia, un'ondata d'aria calda e stantìa che trasportava i toni di un jazz strabiliante ci ha colpito. L'architettura del posto era indubbiamente sassone, con un reticolo di grate sulle pareti, le porte ferrate, e i vasi in terracotta sparsi sugli scaffali che tracciavano linee sui muri dipinti di marrone".

Kerouac racconta dell'incontro con il critico e produttore George Avakian nel Nick's di Chicago ed è qui, nella descrizione dei luoghi mitici del jazz, che si comprende il fascino che tale genere opera su di lui. La sua poetica si fa musica quando gli stessi nomi di Duke Ellington, Jack Teagarden, Muggsy Spanier o Coleman Hawkins diventano suono come la loro stessa musica e da semplici elementi di cronaca si elevano a sintesi letteraria. Ma attraverso questi brevi scritti si percepisce anche il fascino di quell'America On the Road che ascolta la band di Glenn Miller tutti i pomeriggi alla radio, che balla nelle interminabili session al Café Rouge dell'Hotel Pennsylvania o al Paramount Theatre o che fa girare i dischi della Bluebird (da 35 cents) e della Decca.

Sembrerebbe questa l'unica e fantastica 'era del jazz.' Non solo perché il jazz era in quegli anni la vera musica popolare americana (leggete ciò che Kerouac scrive sulle dinamiche di vita della band di Count Basie per 'The Horace Mann Record') o perché i critici dell'epoca - non Kerouac che di certo non era un vero critico ne' tanto meno ne aveva l'atteggiamento o l'ambizione - usavano recensire i dischi con prolissa cura (leggete quella del Decca Chicago Style Album - il capolavoro del 'nostro' George Avakian - a detta del recensore), ma anche e perché ci si poneva già da allora un problema serio sullo stato di salute del jazz. "Dieci anni fa (quando Kerouac scrive siamo nel 1960 - N.d.R.) il mio grande amico Seymour Wyse di Londra si passò il dito lungo la gola e disse: "Il Jass si è suicidato". Non si poteva prendere la sua opinione con troppa leggerezza perché già nel 1941 aveva scritto, in collaborazione con me, un articolo intitolato "Lester Young è dieci anni avanti rispetto alla sua epoca" e l'avevamo mandato a Barry Ulanov alla rivista Metronome senza mai ricevere una parola di risposta e neanche il manoscritto indietro. Ma credo che perfino Seymour debba oggi riconoscere che il jazz non è ancora morto".

Siamo nel nuovo millennio ed il jazz gode di ottima salute, fortunatamente! Perché rimane oggi come allora quell'atteggiamento di curiosità che il jazz ha verso il mondo, verso ciò che accade in tempo reale e che il musicista sente, vede e metabolizza facendolo suo.

"Il Bop è cominciato col jazz forse in un pomeriggio soleggiato da qualche parte su un marciapiede, forse nel 1939/'40, durante una passeggiata di Dizzy Gillespie o Charley Parker o Thelonious Monk (...)" scrive su Escapade nel 1959 in un breve testo a proposito della nascita del Bop. Niente di più semplice, per Jack Kerouac. Niente di più vero, potremo aggiungere.

Paolo Fresu / Oslo, Febbraio 2003


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