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Cristina Zavalloni: ieri e oggi
ByPersonalmente sono stato uno degli estimatori e sostenitori della cantante bolognese fin dai suoi primi passi: nel 1996 la votai fra i nuovi talenti del referendum Top Jazz indetto da Musica Jazz e per la medesima testata la intervistai tre anni più tardi. Nel 1997 mi adoperai per procurarle un concerto all'interno di una delle prime stagioni musicali della Soffitta, rassegna organizzata dal Dipartimento di Musica e Spettacolo dell'Università di Bologna.
Per la rubrica Déjà lu mi è sembrato opportuno recuperare appunto il programma di sala di quel concerto, che si tenne alla Sala Bossi di Bologna l'8 marzo 1997. Rileggere oggi quel testo, alla luce delle tappe successive e recenti della carriera della Zavalloni, contribuisce a sottolineare la coerenza e lo spessore della sua concezione musicale, ma anche la lungimiranza delle mie considerazioni di allora.
Il percorso artistico di Cristina Zavalloni, fortemente interessata ad una relazione non superficiale fra musica e poesia, presenta molte analogie con l'esperienza di più attempati musicisti europei, in particolare con la ricerca che il pianista inglese Mike Westbrook svolge ormai da un trentennio assieme alla moglie Kate. Nonostante che la loro formazione sia prevalentemente jazzistica, la manipolazione musicale dei testi poetici parte sempre da un'ottica tipicamente europea, anche se di stampo tutt'altro che accademico. Viene assegnata cioè un'importanza particolare alla composizione ed alla strutturazione del brano, proponendo linee melodiche di razionale limpidezza, ma forzando, nello stesso tempo, la pronuncia secondo una tensione espressionista, o tramite inflessioni di surreale allucinazione, o con toni scanzonatamente cabarettistici.
Questo tipo di approccio, che si concretizza definitivamente nel momento dell'esibizione concertistica, e questo orgoglio per un'appartenenza europea si verificano anche nel mondo musicale della Zavalloni. E' assai significativo inoltre il fatto che nella scelta dei testi si sia rivolta preferibilmente ad autori di una determinata stagione del nostro secolo e di un certo impegno sociale: Brecht, Prévert, Ungaretti...
Misurarsi ora anche con la canzone americana, in compagnia dei fedeli collaboratori dell'Open Quartet (Fabrizio Puglisi, Glauco Zuppiroli, Francesco Cusa) costituisce quindi una sorta di sfida per la cantante bolognese e motivo di curiosità in chi conosce la sua produzione precedente. Ecco che il programma di questo concerto si presenta un po' come un acrobatico slalom fra alcuni solidi paletti della tradizione europea, colta e popolare, e di quella jazzistica americana. Di quest'ultima si individua una delle radici più profonde in un canto anonimo del periodo della schiavitù, per poi inoltrarsi nella rivisitazione di alcuni riconosciuti e frequentati capolavori del nostro secolo, a firma di Ellington, Monk, Kern...
La navigazione nell'arcipelago della cultura europea è più accidentata e per questo più stimolante. Si parte da quell'emozionante prototipo della vocalità che è il monteverdiano Lamento di Arianna (chi si ricorda dell'interpretazione discografica da parte dell'Art Ensemble Of Chicago, così eccentrica e nello stesso tempo così aderente allo spirito dell'originale?). Lu trademiento, canzone anonima della tradizione napoletana, viene scelta per documentare la componente popolare, mentre per esplorare quella colta (l'aggettivo appare quanto mai inadeguato in questo contesto) del Novecento, si previlegiano due autori: Kurt Weill e György Kurtàg. A questo punto subentrano inevitabilmente l'ambizione ed il talento compositivo della Zavalloni, che, oltre a rivestire di musica un paio di poesie di Ungaretti, è responsabile delle parole e della musica di Fuoco sacro e, come già su disco, arricchisce di versi la Round Dance bartokiana.
Nel programmatico confronto/scontro fra America ed Europa, proposto da questo concerto, sarà probabilmente quest'ultima ad avere la meglio; ma, al di là del coraggioso accostamento fra culture, autori, sensibilità e periodi storici così diversi, è importante mettere in evidenza che tutti questi elementi troveranno una fusione, una riduzione al minimo comune denominatore, nell'elaborazione interpretativa degli esecutori, in cui composizione, arrangiamento ed improvvisazione tendono ad una perfetta integrazione, quasi ad una reciproca identificazione. Non è forse questa l'eredità più preziosa lasciata all'Europa ed al mondo intero dal jazz americano?
Foto di Claudio Casanova
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