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Colin Stetson a JazzMi 2018

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Colin Stetson
Teatro dell'Arte-Triennale
JazzMi
Milano
4.11.2018

C'è qualcosa che spinge il concerto di Colin Stetson al Teatro dell'Arte della Triennale, uno degli appuntamenti-chiave dell'edizione 2018 di JazzMi, ben oltre la spettacolare presentazione dal vivo di All This I Do for Glory, e che fa diventare il live visto a Milano una sorta di prova del fuoco dell'intera filosofia seguita da Stetson nel suo cammino da solista. L'album —uscito lo scorso anno—è andato a spostare più in là l'asticella di una trilogia iniziata esattamente dieci anni prima con New History Warfare Vol. 1 e New History Warfare Vol. 2: Judges e poi chiusasi nel 2013 con New History Warfare Vol. 3: To See More Light. Presentato come una sorta di rielaborazione moderna della lunga e tortuosa marcia del jazz dalle origini fino ai giorni nostri, All This I Do for Glory (e la sua riproposizione dal vivo) sono la personale "traversata nel deserto" del sassofonista canadese.

Il percorso artistico di Stetson ha raccontato nei suoi capitoli solisti, quelli più selvaggi e liberi, lontani dalle collaborazioni con Dirty Bourbon River Show, Arcade Fire, e dai tre album con Tom Waits, un modo di intendere lo strumento che—soprattutto nella trilogia citata poco fa—ha di fatto aperto nuovi passaggi, dilatando la capacità espressiva dello strumento e facendo man bassa di loop e influenze elettroniche. Fino a rendere il sax una sorta di strumento totale.

Il concerto di Milano, in perfetta sintonia con la radicalità scelta nella realizzazione di All This I Do for Glory è una sfida che Stetson ha lanciato a sé stesso prima ancora che al pubblico. Non solo da un punto di vista formale, ma anche sostanziale. Stetson stavolta elimina completamente o quasi l'elettronica e le sovraincisioni, si affida massicciamente alla respirazione circolare, alla resistenza dei polmoni, moltiplicando i microfoni attorno e addosso a sé stesso per dilatare le mura della cattedrale di sonorità possibili (tanto per dire, sul palco di JazzMi Stetson si presenta sistemandosi un microfono direttamente a contatto col proprio collo).

Soffiano un vento che somiglia a un'elettronica elementare e crepuscolare, a un jazz futuribile e spettrale i polmoni infiniti di Stetson, un'onda invisibile che non è completamente umana e nemmeno del tutto aliena, ma integralmente biologica. Una musica dopo la musica fatta di lamenti lontani, pattern allucinati, e che -come il più vecchio dei trucchi -usa lo schiocco dei piattelli per mettere in circolo una ritmica tribale e ipnotica. Mai come in questo caso è letteralmente l'intero corpo di chi è sul palco a generare musica.

Una gara di resistenza e rigore mentale che se non pare sfibrare Stetson (a occhi chiusi rimarrà a ondeggiare avanti e indietro per oltre un'ora), non sembra irrigidire nemmeno per un secondo il pubblico con asperità sperimentali. Eppure di fatto tutto quello che si è ascoltato al Teatro dell'Arte è sperimentazione, o per lo meno una scossa che dalla avanguardie trae parte della propria linfa ma rimastica e restituisce tutto in senso non contemporaneo, perché il contemporaneo è già passato. Vicini all'elettronica, ma allo stesso tempo mai così lontani da essa. Circolari, organici, dolenti, sciamanici, evocativi e in ultima analisi, umanissimi.

Foto: Luca Muchetti.

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