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Clusone Jazz Festival – XXXII Edizione

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Clusone, 22.06-29-07.2012

Un prologo itinerante con poche tappe, un programma fatto quasi esclusivamente di nomi italiani, la rinuncia alla doppia sede (piazza dell'Orologio in caso di bel tempo, il Teatro Tomasini in caso di pioggia) per i concerti serali... "Il jazz ai tempi della crisi", verrebbe da pensare, a sottotitolo di questa trentaduesima edizione del Clusone Jazz Festival.

Ma, come già abbiamo avuto modo di rilevare per le edizioni del 2010 e 2011, le recenti ristrettezze economiche (peraltro comuni a buona parte dei festival italiani) non hanno solo generato difficoltà. Hanno anche costretto gli organizzatori a ripensare il festival, facendolo tornare a quei livelli di eccellenza musicale che avevano fatto di Clusone Jazz un marchio riconosciuto in tutta Europa.

Il programma di quest'anno, un mix di nomi emergenti ed affermati, di piccole formazioni e grandi ensemble, era infatti di assoluto interesse, e fortemente incentrato sulle evoluzioni e le nuove tendenze del linguaggio jazzistico contemporaneo.

Il jazz tradizionale o mainstream, lo sappiamo bene, a Clusone non ha mai avuto cittadinanza. Quest'anno, complice anche la presenza di numerosi chitarristi (da sempre i più contaminati tra i jazzisti), l'influenza di strutture e sonorità non-jazz era particolarmente evidente. E tuttavia, mai come quest'anno, era molto evidente anche un forte richiamo alla storia del jazz. Ai grandi nomi del passato, al patrimonio del Real Book, alla stagione del free.

C'era Duke Ellington (con il suo alter ego Billy Strayhorn), di cui Bearzatti ha affettuosamente rivisitato in solo alcune immortali melodie, immaginando per ogni brano il dipanarsi di una storia. "Perdido" si smarrisce in divagazioni eterodosse (i Deep Purple, tanto per dirne una). "Johnny Came Lately" è lo spunto per un animato dialogo immaginario tra chi attende e chi si presenta in ritardo ad un appuntamento, "Take the A Train" una gustosa parodia delle disavventure ferroviarie dei pendolari.

C'era Thelonious Monk, di cui Umberto Petrin e Pheeroan Aklaf hanno deliziosamente distillato le composizioni in un set completamente improvvisato, breve ed intenso, che ci ha lasciato (e ci capita raramente) con la voglia di ascoltarne ancora.

C'era Django Reinhardt, di cui Simone Guiducci ha rivisitato il songbook con il settetto Django Shock (oltre al leader alla chitarra, Achille Succi a clarinetto basso e sax alto, Beppe Caruso al trombone, Fulvio Sigurtà alla tromba, Emanuele Parrini al violino, Danilo Gallo al basso, Riccardo Biancoli alla batteria). Arrangiamenti molto curati, melodie attualizzate con un interessante lavoro ritmico-armonico. Lo sviluppo dei brani, essenzialmente dei soli a rotazione, è tuttavia semplicistico e l'organico, notevole per individualità e per potenziale timbrico, ci è sembrato un po' sotto-utilizzato.

C'era Ornette Coleman, di cui Sandro Satta, Roberto Bellatalla e Fabrizio Spera hanno riproposto lo spirito in un set di autentico free jazz, come ormai capita raramente di ascoltare.

E naturalmente c'era anche Miles Davis (insieme a Jimi Hendrix e tanti altri), rivisitato nel solo di Boris Savoldelli, simpatico e ottimo intrattenitore, sia pure un po' prevedibile nella stratificazione di loop.

Tra le proposte originali, abbiamo ascoltato le improvvisazioni estemporanee del duo Francesco Bearzatti-Gabrio Baldacci, a nostro giudizio musicalmente troppo diversi per muoversi senza canovaccio. Bearzatti è meraviglioso melodista, e costruttore di percorsi musicali che hanno bisogno di tempo per svilupparsi. Baldacci - che abbiamo qui ascoltato per la prima volta - ci è sembrato invece un guastatore, e in quanto tale, più incline a dinamiche torride e frammentarie.

Atmosfere rock per il concerto del Walter Beltrami Postural Vertigo 5tet (oltre al leader alla chitarra, Francesco Bearzatti a sax tenore e clarinetto, Giovanni Falzone alla tromba, Stomu Takeishi al basso elettrico, Jim Black alla batteria). La proposta di Beltrami, interessante e composita dal punto di vista ritmico, risulta semplice e schematica dal punto di vista armonico e melodico. E dunque, fatta eccezione per il brano con cui si è chiuso il concerto (una linea danzante che oscilla tra tempi pari e dispari), il tutto ci è sembrato una sorta di show case per Jim Black. Il batterista, con classe immensa e suo grande divertimento, scandisce, colora, picchia duro, cambia scenari, da autentico mattatore. Ma l'impressione complessiva è che questa band dall'organico stellare porti sul palco una sovrabbondanza di talento, che resta per lo più inespresso.

L'unico gruppo non italiano presente al festival era il BassDrumBone (Ray Anderson al trombone, Mark Helias al contrabbasso, Gerry Hemingway alla batteria), che ha dato vita ad un concerto meraviglioso, tra i migliori cui abbiamo mai assistito. La musica del trio è immediata e complessa, aspra e dolcissima, fluente e spezzata, contemporanea e ricca di riferimenti a tutta la storia del jazz. Ascoltarla dal vivo - in una serata in cui i musicisti sono in gran forma, di buon umore, e mostrano un'intesa perfetta - ha un che di magico e sorprendente. Grandissimi!

Foto di Luciano Rossetti.

Altre immagini di questo festival sono disponibili nel foto-racconto ad esso dedicato [capitolo primo e secondo].


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