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Chris Potter Circuits al Blue Note Milano
Chris Potter Circuits
Blue Note
Milano
9.4.2019
L'ultimo album pubblicato da Chris Potter, Circuits, realizzato in compagnia di James Francies alle tastiere, Eric Harland alla batteria e Linley Marthe al basso, ci ha permesso di cogliere alcune sfaccettature della personalità del sassofonista che finora erano rimaste in secondo piano. In particolare, un suo forte interesse per l'elettronica, richiamata esplicitamente nel titolo dell'album, nella grafica di copertina e ovviamente nei suoni e nelle atmosfere generali del disco.
Il Blue Note di Milano ci ha fornito l'occasione di verificare dal vivo la "svolta elettronica" (virgolette d'obbligo) del sassofonista, che sebbene accompagnato da una formazione completamente diversa (Craig Taborn alle tastiere, Tim Lefebvre al basso e Justin Brown alla batteria) ha presentato un programma incentrato appunto su Circuits.
Ampio spazio dunque all'uso dell'elettronica, tra echi di fusion anni '80-'90, obbligati vorticosi, profumi d'Africa, cromatismi orientaleggianti ed uno sguardo alla storia del jazz.
Il concerto si è aperto con "The Nerve," introdotto da un solo torrenziale di Potter in versione Sonny Rollins, seguito da un intervento più distillato di Taborn (un po' meno eminenza grigia rispetto al consueto) che ci ha condotto sulle tracce di Ryuichi Sakamoto. Canovaccio simile per "Hold It," in cui l'esuberante tecnica strumentale messa in mostra dai quattro musicisti l'ha fatta da padrona.
Dopo quaranta minuti vissuti a tutta velocità, la quiete suggerita dall'incipit del terzo brano è giunta particolarmente gradita. Le timbriche scaturite dalle tastiere di Taborn hanno vaghi sentori di Weather Report. Chris Potter, per parte sua, è però decisamente più affine a Michael Brecker che a Wayne Shorter. L'esito è un po' zoppicante.
Chiusura di concerto con "Exclamation," brano dal titolo quasi onomatopeico. Un'autentica esplosione di note, un turbine di energia travolgente.
Al termine della serata, l'indubbia ammirazione per la perizia strumentale si accompagna a qualche perplessità nei confronti di una scrittura fondata su pattern e stilemi e, più in generale, nei confronti di una musica che, per la quantità di note eseguite, potremmo ironicamente definire massimalista. Certamente una musica assertiva, che non pone e non si pone domande.
Foto: Roberto Cifarelli.
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Milano
9.4.2019
L'ultimo album pubblicato da Chris Potter, Circuits, realizzato in compagnia di James Francies alle tastiere, Eric Harland alla batteria e Linley Marthe al basso, ci ha permesso di cogliere alcune sfaccettature della personalità del sassofonista che finora erano rimaste in secondo piano. In particolare, un suo forte interesse per l'elettronica, richiamata esplicitamente nel titolo dell'album, nella grafica di copertina e ovviamente nei suoni e nelle atmosfere generali del disco.
Il Blue Note di Milano ci ha fornito l'occasione di verificare dal vivo la "svolta elettronica" (virgolette d'obbligo) del sassofonista, che sebbene accompagnato da una formazione completamente diversa (Craig Taborn alle tastiere, Tim Lefebvre al basso e Justin Brown alla batteria) ha presentato un programma incentrato appunto su Circuits.
Ampio spazio dunque all'uso dell'elettronica, tra echi di fusion anni '80-'90, obbligati vorticosi, profumi d'Africa, cromatismi orientaleggianti ed uno sguardo alla storia del jazz.
Il concerto si è aperto con "The Nerve," introdotto da un solo torrenziale di Potter in versione Sonny Rollins, seguito da un intervento più distillato di Taborn (un po' meno eminenza grigia rispetto al consueto) che ci ha condotto sulle tracce di Ryuichi Sakamoto. Canovaccio simile per "Hold It," in cui l'esuberante tecnica strumentale messa in mostra dai quattro musicisti l'ha fatta da padrona.
Dopo quaranta minuti vissuti a tutta velocità, la quiete suggerita dall'incipit del terzo brano è giunta particolarmente gradita. Le timbriche scaturite dalle tastiere di Taborn hanno vaghi sentori di Weather Report. Chris Potter, per parte sua, è però decisamente più affine a Michael Brecker che a Wayne Shorter. L'esito è un po' zoppicante.
Chiusura di concerto con "Exclamation," brano dal titolo quasi onomatopeico. Un'autentica esplosione di note, un turbine di energia travolgente.
Al termine della serata, l'indubbia ammirazione per la perizia strumentale si accompagna a qualche perplessità nei confronti di una scrittura fondata su pattern e stilemi e, più in generale, nei confronti di una musica che, per la quantità di note eseguite, potremmo ironicamente definire massimalista. Certamente una musica assertiva, che non pone e non si pone domande.
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